Filosofi Russi

I filosofi religiosi russi hanno colto l’intuizione del mistero del nome divino Élohïm OYHLA. Essi hanno percepito che quanto si definiva Dio era, in realtà, una relazione-differenziazione, che congiunge e separa contemporaneamente, in altri termini l’essenza della coscienza, l’atto di coscienza, la coscienza stessa che accede alla sua più alta espressione e al suo più alto grado di sviluppo nella conoscenza differenziata di Dio e dell’Uomo e dei loro giusti rapporti, e di cui l’ebreo possiede e conserva il segreto nella parola Élohïm.

 

Tutte le citazioni di questi autori russi sono estratte dall’opera di B. Zenkovski: “Storia della Filosofia Russa” (N.R.F. Parigi 1954), eccezion fatta per quelle di Nicolas Berdiaev che abbiamo estratto dalla sua opera “Saggio di Metafisica Escatologica” [1].

 

1 - Simon Frank

- Non vi è nulla e non si può nulla concepire al mondo che possa essere per se stessa, cioè, senza alcuna relazione con ciò che sia l’altro. L’essere è l’unità universale in cui tutto il particolare non è, e non è concepibile, che grazie ai suoi rapporti con qualche cosa di diverso.

 - Anche la nozione di Dio non costituisce una eccezione. Perché, giustamente, noi concepiamo Dio come il principio primo, come il creatore, il Pantocratore, ma egli non è immaginabile senza relazione con ciò che è la sua creazione.

- Se per rapporto a Dio il mondo è qualche cosa di “interamente” altro, questa alterità stessa proviene da Dio e si trova fondata in Dio.

- Il mondo non è qualcosa di identico o di omogeneo con Dio, ma non può, neanche, essere qualcosa interamente differente o eterogeneo da Lui.

- L’unità totale penetra tutto ciò che è; essa è presente, in quanto tale, anche nelle infime particelle della realtà.

- Tutto ciò che esiste concretamente, è radicato nell’essere in quanto unità universale e si nutre della sua linfa. L’essere creatore assoluto, è il grembo materno ed oscuro in cui prende nascita e da dove  emerge tutto ciò che noi chiamiamo “mondo oggettivo”.

- L’essere in quanto totalità, si auto crea.

- Il principio divino ed ultimo dell’essere, per la sua azione sul mondo, porta alla trasfigurazione e alla divinizzazione del mondo.

- L’illimitato-infinito è sempre presente nell’esperienza. Il finito ci è dato, generalmente, sullo sfondo dell’infinito.

- Il mondo che noi esploriamo è circondato da ogni parte dall’abisso oscuro dell’inconoscibile. L’inconoscibile è la realtà che si manifesta a se stessa.

- Noi abbiamo coscienza di noi stessi in quanto auto rivelazione dell’essere in noi.

- Il mondo non è stato creato da Dio, e non è neanche in corso di creazione. Nel tempo il mondo dura indefinitamente, ma tutta la struttura e tutto l’essere del mondo si fondano su qualcosa di “altro”, di sopra-umano, e in questo senso il mondo non è eterno, perché questo “altro” non è se stesso.

- L’unità universale e l’essere mondiale è, per così dire, a mezzo cammino tra l’emanazione e la creazione.

- Non esiste, in generale, alcun “io” conformato prima dell’incontro con il “noi”. L’incontro con il “tu” è precisamente il luogo in cui il “me” nasce per la prima volta.

- É impossibile concepire la Divinità al di fuori della sua relazione a me stesso, e questa relazione compartecipa all’essenza e all’essere stesso di Dio.

- É giustamente l’elemento della libertà che permette una fusione o una compenetrazione transrazionale dei principi trascendenti e immanenti.

- La libertà è la profondità spontanea e ultima della persona umana, e essa è, conseguentemente, il solo punto dell’essere umano in cui un contatto immediato dell’umano e del divino è possibile.

- Dio non è soltanto Dio e niente altro; egli è per essenza Dio e me.

- L’umano nell’uomo non è l’essenza puramente umana, ma precisamente la Teantropica (divino-umana).

- Dio è il vero Dio, in quanto, giustamente, Dio Uomo.

- L’inconoscibile e l’aldilà ci sono precisamente offerti con il loro carattere di inconosciuto e di non dato e con la stessa qualità d’evidenza e di primato, quanto il contenuto dell’esperienza immediata.

 

2 - Léon Karsavine

- Conosciamo l’altro essere necessariamente per rapporto alla coscienza di noi stessi e alla nostra coscienza di Dio. La fede è il supporto della conoscenza.

- L’Essere assoluto è l’unità universale assoluta e perfetta, egli è tutto ciò che esiste, sia in tutto che in ciascun essere. Egli è tutto perché ogni cosa non è che uno dei suoi momenti.

- Noi concepiamo l’Assoluto nella sua relazione con noi, concepiamo l’Incondizionato in quanto ci condiziona e conseguentemente condizionato da noi stessi.

- Dio deve determinare e sopravanzare il suo finito, cioè egli deve essere, inizialmente, la dualità perfetta dell’Infinito e del finito. Allora la creazione del mondo diviene possibile; la delimitazione della divinità, per se stessa, è anteriore alla creazione.

- L’Assoluto è correlato al mondo ed è non postulabile senza il relativo.

- Il rapporto della divinità con l’umano creato, non è al di fuori della divinità, è in Dio stesso.

- Tutto l’essere dell’uomo è religioso; tutto ciò che è in noi si trova in una certa opposizione a Dio e anche in una certa unione con lui.

- Tutto il regno animale è compreso nell’uomo fisico. L’uomo è il cosmos.

- La mia persona empirica è contenuta tramite la mia persona superiore, anche la mia limitazione è divenuta un vero essere nel Cristo.

 

3 - Serge Troubetskoi

- La relazione è la categoria essenziale della nostra coscienza e la categoria essenziale dell’essere.

 

4 - Nicolas Berdiaev

- L’Assoluto è elemento distaccato, autosufficiente. In lui, non vi è relazione alcuna. In questo senso Dio non è l’Assoluto, esso non può essere creatore e non conoscere relazioni con nessuno. Il Dio della Bibbia non è l’Assoluto: Si potrebbe dire, paradossalmente, che Dio è relativo, perché egli è in relazione con il suo Altro, con l’uomo e il mondo, egli conosce una relazione d’amore. La perfezione di Dio consiste nella perfezione della sua relazione; irrazionalmente parlando, egli è l’assoluta perfezione di questa relazione.

- L’idea panteista è sempre un pensiero razionalista dell’essere, nel quale tutto è; o meglio, è esteriore, o ancora, identico. Dio e l’uomo non sono punti collocati al di fuori, essi non sono né esteriori l’uno all’altro, né identici; una natura non si dissolve nell’altra.

 

Miguel De Unamuno

1 - La creazione di Dio tramite l’uomo [2]

- La fede non è, nella sua essenza, che elemento di volontà e non di ragione; credere è innanzi tutto voler credere, e credere in Dio è, prima di tutto e sopra tutto, volere che Egli esista.

- In fondo è l’identica cosa affermare che Dio produce eternamente le cose, o che le cose lo producono eternamente.

- La fede in Dio nasce dall’amore di Dio, noi crediamo che esista perché vogliamo che esista.

- É il desiderio impetuoso di dare finalità all’Universo, di renderlo cosciente e personale, che ci porta a credere in Dio, a volere che vi sia un Dio; in una parola a creare Dio. Sì, a crearlo! Parola che non deve scandalizzare, anche quando proferita ai più pietosi teisti. Perché credere in Dio, è, in un certo senso, crearlo, benché Egli ci abbia precedentemente creato. É lui che, continuamente, si auto crea in noi.

- Noi abbiamo creato Dio per salvare l’Universo dal nulla, perché ciò che non è cosciente, o coscienza eterna, coscienza della sua eternità o eternamente cosciente, non è niente altro che idea. Non esiste nulla di realmente reale quanto chi sente, soffre, compatisce, ama e desidera; in altre parole la coscienza. E noi abbiamo bisogno di Dio per salvare la coscienza; non per renderne concetto l’esistenza, ma per viverla; non per conoscerne i motivi per cui essa è, ma per comprenderne lo scopo. L’amore è un controsenso se non c’è Dio.

- Anche se l’etere non è che una ipotesi per spiegare la luce; l’aria, al contrario, è una cosa immediatamente percepita; e anche se per il suo tramite, non ci spieghiamo la trasmissione del suono, ne abbiamo, comunque sempre, una conoscenza diretta, soprattutto nel momento del soffocamento. E nella identica maniera, Dio stesso, o meglio l’idea di Dio, può giungere ad essere una realtà immediatamente avvertita; ed anche se con la sua idea, non ci spieghiamo né l’esistenza né l’essenza dell’Universo, abbiamo tuttavia il sentimento diretto di Dio, soprattutto nel momento dello sconforto spirituale. E questo sentimento - che occorre ben considerare, perché è la base sia di ciò che vi è di tragico in lui, sia della consapevolezza tragica della vita - è un sentimento di fame di Dio, di mancanza di Dio. Credere in Esso è, in prima istanza, come vedremo, volere che vi sia un Dio, non poter vivere senza di Lui.

- Immergendomi, nello scetticismo razionale da una parte, e nella disperazione sentimentale dall’altra, ho provato la sete di Dio, e questa oppressione spirituale mi rende, con la carenza, la sua realtà. E voglio che vi sia un Dio, che esista. Ma Dio non esiste, o più esattamente sopra-esiste, e sostiene la nostra realtà “esistendo in noi”.

- Ciò che ci induce a credere in Dio, non è una necessità razionale, ma una angoscia vitale. E credere in Lui è innanzi tutto e sopra tutto, occorre ripeterlo, aver sete di Dio, sete di divinità, sentire la sua assenza e il suo vuoto, volere che esista.

- “Il meschino, nel suo cuore, dice: non vi è alcun Dio” É vero. Anche un giusto può affermare: Dio non esiste. Ma nel cuore, solo un misero può sostenerlo. Non credere che vi sia un Dio o credere che non esista, è una cosa; rassegnarsi che non esista, è un altra cosa, inumana e orribile; ma volere che non esista, eccede ogni altra mostruosità morale.

- Credere in Dio, è desiderare che esista, ed è, inoltre, comportarsi come se esistesse; è vivere di questo desiderio e fare di lui la nostra intima molla di azione. Da questo desiderio, da questa fame di divinità, emerge la speranza; da questa, la fede; e dalla fede e dalla speranza, la carità; in questo desiderio ansioso, affondano le radici dei sentimenti di bellezza, di finalità, di bontà.

- Credere in ciò che non abbiamo veduto? No, ma creare quanto non vediamo. E ho già affermato che credere in Dio, è, in primo luogo, volere che esista, anelare alla sua esistenza.

- La fede è il potere creatore dell’uomo. Che lo si comprenda bene: voler credere, cioè voler creare, non è come creare o credere, ma ne è il punto di partenza. La fede è quindi, se non la potenza creatrice, il fiore della volontà, ed il suo compito è quello di creare. La fede crea, in certo qual modo, il suo oggetto. E la fede in Dio consiste nel crearlo, e poiché è Esso che ci infonde la fede in Lui, è Dio che si auto crea, continuamente, in noi.

- Il potere di creare un Dio a nostra immagine e somiglianza, di personificare l’Universo, testimonia che portiamo, come garanzia a ciò che speriamo,  Dio in noi, e che Lui ci crea senza sosta a sua immagine e somiglianza.

- Dio si auto genera in noi con la compassione e l’amore. Credere in Dio è amarlo e temerlo con amore, e si inizia con l’amarlo prima di conoscerlo, ed è amandolo che si finisce per vederlo e scoprirlo in tutto.

- Volere che Dio esista, è comportarsi e sentire come se esistesse. É tramite questa via, volendo la sua esistenza e agendo conformemente a questo desiderio, che creiamo Dio, che esso si crea in noi, che si manifesta, si apre e si rivela a noi. Perché Dio viene incontro a chi lo cerca con amore e per amore, e si nasconde a chi lo ricerca con fredda ragione. Così la scienza senza amore ci allontana da Lui, e l’amore senza scienza (forse sarebbe meglio senza di essa) ci conduce a Dio; e per suo tramite alla Saggezza.

 

2 – Élohïm [3]

- Dio è, quindi, la personificazione di Tutto, è la coscienza eterna ed infinita dell’Universo, Coscienza in preda alla materia e lottante per liberarsene.

- Vi sono degli uomini leggeri e superficiali, schiavi della ragione esteriorizzante, che credono di affermare qualcosa di rilevante nell'asserire che, invece di essere stato Dio a creare l’uomo a sua immagine e somiglianza, è l’uomo che, a sua immagine e somiglianza, si crea i propri dei o il suo Dio, senza considerare - spiriti superficiali - che se questa seconda proposizione è vera, come lo è in realtà, essa lo deve al fatto che la prima non è meno veritiera. In effetti, Dio e l’uomo si conformano reciprocamente; Dio si concretizza o si rivela nell’uomo, e l’uomo si produce in Dio; Esso si è auto creato, “Deus ipse se fecit”, dice Lattanzio (Divinarum institutionum XI,18), e noi possiamo affermare che continua a farlo; e nell’uomo e per l’uomo. E se ciascuno di noi, nello slancio del suo amore, nella sua sete di divinità, si immagina Dio a propria misura, e se, per lui, Esso si rende a sua immagine, è perchè esiste un Dio collettivo, sociale, umano, che emerge da tutte le immaginazioni umane che lo immaginano. Perché Dio è e si rivela nella collettività. Ed Esso è la più ricca e la più personale ideazione umana.

- Più si possiede personalità, ricchezza interiore, socievolezza, meno brutalmente ci si separa degli altri. E ugualmente il Dio rigido del deismo, del monoteismo aristotelico, L’ens summum, è un essere in cui l’individualità, o meglio la semplicità, soffoca la personalità. La definizione lo uccide, perché definire è mettere dei limiti, e non si può precisare ciò che è assolutamente indefinibile. Questo Dio (del rigido monoteismo metafisico) manca di ricchezza interiore; non è una comunità interna a se stesso, a questo ha ovviato la rivelazione vitale con la fede nella Trinità, che ha fatto di Dio un gruppo, una famiglia in se, e non più un puro individuo. Il Dio della fede è personale; è una persona in quanto include tre persone, cosa che l’individualità isolata non testimonia. Un essere isolato cessa di essere un individuo. In effetti chi amerebbe? E se esso non ama, non è una persona. Non ci si potrebbe amare restando semplice e senza sdoppiarsi per amore.

- Il mio me vivente è un me che in realtà è un noi; il mio me vivente, personale, non vive che in altri, di altri e per altri; io provengo da una moltitudine di antenati e ne porto in me un condensato; porto in me, in potenza, una moltitudine di discendenti; e Dio, proiezione all’infinito del mio me - o meglio me, proiezione al finito di Dio - è ugualmente moltitudine. E da là, per difendere la personalità di Dio, cioè per salvaguardare il Dio vivente, la necessità della fede (sentimentale ed immaginativa), la necessità di concepirlo e di sentirlo come una certa molteplicità interna.

- Il razionalismo deista concepisce Dio come Ragione dell’Universo, ma la sua logica lo conduce a concepirlo come una ragione impersonale, come una idea, mentre il vitalismo deista sente e immagina Dio come una Coscienza e pertanto come una persona, o meglio, come una comunità di persone; in me vivono diversi me, e persino gli esseri con i quali io vivo.

- Occorre crederlo con fede, il mondo materiale sensibile, quello che creano i sensi, qualunque siano gli insegnamenti della ragione, esiste soltanto per incarnare e sostenere l’altro mondo, il mondo spirituale o immaginabile, quello cioè che ci crea l’immaginazione. La coscienza tende ad essere sempre più coscienza, ad avere una coscienza colma di tutta se stessa, di tutto il suo contenuto. Occorre crederlo con fede, nelle profondità del nostro stesso corpo, negli animali, nelle piante, nelle rocce, in tutto ciò che è vivente, in tutto l’Universo, qualunque siano gli insegnamenti della ragione, esiste uno spirito che lotta per conoscersi, per acquisire coscienza di se, per essere se, per essere spirito puro; e poiché non lo può conseguire che per il tramite del corpo, della materia, egli la crea e si serve di essa rimanendone, nel contempo, prigioniero. Si può vedere la propria faccia in uno specchio, ma si è prigionieri dello specchio in cui ci si riflette, e ci si vede in lui come lo specchio ci falsa; e se si frantuma, anche la nostra immagine si frantuma; se si appanna, anche lei si appanna.

- Lo spirito si trova limitato dalla materia nella quale occorre che viva e prenda coscienza di se, nella stessa maniera del pensiero che è limitato dalla parola, cioè suo corpo sociale. Senza materia, non c’è spirito, ma questa lo obbliga limitandolo. Questo limite non è il dolore, ma l’ostacolo che la materia impone allo spirito, è l’urto della coscienza con l’incosciente. Il dolore, in effetti, è la barriera che l’incoscienza, o se si preferisce la materia, oppone alla coscienza, allo spirito; è la resistenza alla volontà, il limite che l’universo visibile impone a Dio, è il muro contro il quale viene a cozzarsi la coscienza nel voler dilatarsi a spese dell’incoscienza, è la resistenza che questa oppone alla sua coscentificazione. Benché lo si supponga per autorità, non veniamo a sapere che abbiamo un cuore, uno stomaco, o dei polmoni, fin tanto che questi non ci causano dei dolori, oppressione o angoscia. É il dolore fisico, o quanto meno la malattia, che ci rivela l’esistenza delle nostre viscere. É la stessa cosa per il dolore spirituale, infatti non ci rendiamo conto che abbiamo un anima fin quando essa non ci procura sofferenza.

- Il dolore, che è una distruzione, ci fa consapevoli delle nostre interiora, e nella distruzione suprema della morte, perverremo, con il dolore dell’annientamento del nostro corpo temporale, a Dio, il quale nell’affanno spirituale respiriamo e apprendiamo ad amare.

- L’origine del male è, come molti hanno da tempo supposto, quella che in altre parole si chiama inerzia della materia, e ,per lo spirito, l’ozio. Non è a caso che si è affermato l’ozio come il padre di tutti i vizi. Senza dimenticare che la pigrizia suprema consiste nel non desiderare ardentemente l’immortalità.

- La coscienza, ancora di più la brama e maggiormente la fame d’eternità e la fame di Dio, il desiderio di Dio, non è mai soddisfatta; ciascuna coscienza vuole essere se stessa e contemporaneamente tutte le altre, senza cessare di essere se stessa, vuole essere Dio. E la materia tende ad essere sempre meno, di meno in meno, a non essere niente, essendo la sua fame, fame di riposo. Lo spirito dice: voglio essere! e la materia gli risponde: io non voglio! E nell’ordine della vita umana, l’individuo, mosso dal solo istinto di conservazione, creatore del mondo materiale, tende alla distruzione.

- L’opera della carità, dell’amore verso Dio, consiste nel distaccarsi, liberarsi dalla materia bruta, di spiritualizzarsi, di rendersi coscienza, di universalizzarsi; è sognare che le pietre parlino e agiscano, è vagheggiare che tutto ciò che esiste divenga cosciente, che il Verbo resusciti.

- Si potrebbe dire che l’apocatastasi, Dio pervenuto ad essere tutto in tutto, supponga che all’origine esso non sia tutto in tutto. Che tutti gli esseri giungano a gioire di Dio, presuppone che Dio pervenga a gioire in ogni essere, perché la visione beatifica è reciproca, e Dio si perfeziona essendo meglio conosciuto, si nutre di anime e si arricchisce di anime. Si potrebbe, una volta lanciati in questa via di folli sogni, immaginare un Dio incosciente dormiente nella materia, e incamminato verso un Dio cosciente di tutto, cosciente della sua divinità; immaginare che tutto l’Universo si renda autocosciente di ciascuna delle coscienze, che si integri, che si faccia Dio. Ma in questo caso, in quale maniera ha principiato questo Dio incosciente? Non è la stessa materia? Dio non sarebbe più, quindi, il principio ma la fine dell’Universo: ora ciò che non è stato il principio può esserne la fine? O vi è, al di fuori del tempo, nell’eternità, una differenza tra principio e fine? “L’anima del tutto non potrebbe essere accomunata con questa stessa (cioè la materia) poiché è uno con essa” (Plotino Enn. II,9,7). Non è piuttosto la Coscienza di Tutto che si sforza di rendersi coscienza del particolare, in maniera tale che ciascuna coscienza parziale ne abbia consapevolezza totale. Non è un Dio monoteista o solitario che si trovi in procinto di rendersi panteista? E se non è così, se la materia e il dolore sono estranei a Dio, ci si chiederebbe: perché Dio crea il mondo? Perché plasma la materia introducendovi il dolore? Non sarebbe stato meglio se non avesse fatto nulla? Quale gloria gli deriva nel creare degli angeli o degli uomini destinati a cadere e ad essere da lui condannati ad un tormento eterno? Fece il male per guarirlo? O la redenzione, la redenzione totale ed assoluta di tutto e di tutti, è il suo disegno?

- Questa apocatastasi, questo ritorno di tutto a Dio non sarebbe piuttosto un termine ideale a cui noi ci avviciniamo continuamente senza mai raggiungerlo? L’assoluta e perfetta felicità eterna non sarebbe una eterna speranza destinata a morire della sua realizzazione? Si può essere felici senza speranza? E se non si può più sperare, una volta conseguitane la certezza, perché questa uccide la speranza, il desiderio. Non potrebbe, dico, che tutte le anime crescano senza cessare, alcune in maniera proporzionatamente più grande di altre, ma tutte destinate a transitare per una fede tramite uno stesso grado di accrescimento, e senza pervenire mai all’infinito, a Dio, a cui esse si avvicinano sempre? L’eterna felicità non è una eterna speranza, con il suo nucleo eterno di sofferenza affinché la felicità non si sommerga nel niente?

 

Autori  diversi

1 - Eckhart

 

- Prima dell’esistenza delle creature, Dio non era Dio, ma era ciò che era. Quando la creatura fu, e ricevette la sua natura di creatura, Dio non fu più Dio in se stesso, ma Dio nella creatura.

Sermone: “Perché dobbiamo liberarci da Dio”

(Citato da Jean Robin nella sua opera “René Guénon, Testimone della Tradizione”)

 

2 - San Tommaso d’Aquino

 - La creatura in Dio, è la stessa essenza divina.

“De Potentia III articolo 16 - 24”

(Citato da Jean Robin nella sua opera “René Guénon, Testimone della Tradizione”)

 


Conclusioni

Il nome Élohïm  OYHLA accusa di falso ogni monismo (panteismo spiritualista o naturalista) come anche ogni monoteismo astratto (che in fin dei conti ritorna ad un monismo, perché l’uomo oppresso dall’Onnipotenza trascendente è ridotto a niente: Dio è tutto). Si oppone anche al cristianesimo, il quale, se riconosce l’umanità di Dio, nega la divinità dell’uomo, nega la sua vocazione e il suo potere creatore, che ne fanno l’eguale di Dio, suo parente, suo famigliare. Il cristianesimo ha, praticamente, annullato la libertà e la dignità dell’uomo, lo ha crocefisso, in maniera che anche lui si riduca ad un monismo: la salvezza dipende solamente e unicamente da Dio Cristo. E il cristiano Nicolas Berdiaev lo ammette, lui che scrive nel suo libro più ispirato :”Il senso dell’Atto Creatore” (pag. 93 e 112-113):

 

“L’antropologia patristica non ha scoperto in nessuna maniera la verità dell’uomo. La limitata antropologia religiosa dei Padri e dei dottrinari della Chiesa non includeva il segreto della natura umana creatrice. Questa antropologia era dominata dalla coscienza della caduta dell’uomo; commentava esclusivamente le passioni dell’uomo e i mezzi che egli possedeva per affrancarsi dal peccato. In fondo essa non era senza rapporti con quella pagana. La verità cristologica assoluta sulla redenzione non corrisponde minimamente ad una verità assoluta sull’uomo. Al contrario, sembra che il mistero della redenzione dissimuli in qualche maniera il mistero creatore dell’uomo. Rimane una distanza incolmabile tra l’uomo e Dio. I dogmi delle chiese ecumeniche, non scoprono, neanche loro, questo mistero. Non è, quindi, né nel cristianesimo patristico né nel cristianesimo ecumenico che l’autentica antropologia può essere cercata.

Tutta questo periodo del cristianesimo vive segnato dal sentimento del peccato, e riconosce il solo riscatto del Cristo come unica via all’affrancamento. La coscienza religiosa è tesa interamente verso il Cristo e non verso l’uomo, essendo necessaria alla verità della redenzione l’idea della debolezza e dell’impotenza umana. La grande verità sull’uomo è stata enunciata soltanto dai mistici e prima di tutto dai mistici cabalistici, legati alle sorgenti stesse dell’umanità. É nella Qabalah che si scopre la verità dell’uomo come forma e rassomiglianza di Dio”.

 

La Libertà, La Fraternità e l’Uguaglianza sono le condizioni dei giusti rapporti tra Dio e gli uomini, come tra gli stessi uomini. E soltanto i cabalisti ebrei hanno avuto il coraggio e l’audacia di rivelarlo e di imporlo alla coscienza di Dio e degli uomini per una lotta ingaggiata per primo dal nostro antenato Giacobbe. Combattimento che prosegue e si rinnova di generazione in generazione fino all’arrivo del Messia, nel quale i rapporti teandrici raggiungeranno la loro perfezione.

 

 


 

[1] - Si consiglia, per la comprensione del soggetto, anche la lettura dei testi: “Il Pellegrino cherubico” La Locusta 1981 e “L’altro io di Dio” Mimesis 1993 di Silesio Angelo. N.d.t.

[2] - Le citazioni sono estratte dal testo: “Il Sentimento tragico della Vita”.

[3] - Sotto questo titolo, raggruppiamo le citazioni di Miguel de Unamuno che concordano con gli insegnamenti cabalisti sul nome divino Élohïm ed esposti nelle sezioni che precedono.

 

 

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