In questo studio mi propongo di esaminare un documento particolarmente significativo che documenta, probabilmente in maniera abbastanza unica per la ricchezza dell’elaborazione concettuale, come il rapporto sessuale fra uomo e donna sia stato inserito all’interno di un sistema simbolico di natura cabalistica, assumendo un valore altamente positivo e valenze teurgiche che lo inseriscono nel cuore stesso del processo delle emanazioni divine. L’esame di questa opera in particolare, sollecita un tentativo di risposta da dare en passant ad alcune questioni più generali: quale posto occupa la sessualità nella rappresentazione – o meglio nelle molteplici rappresentazioni – di sé elaborate dall’ebraismo nel corso della sua trimillenaria vicenda? Come sono state integrate queste dimensioni fondamentali dell’essere uomo nelle varie immagini che di sé l’ebraismo ha elaborato e proposto nel corso dei secoli? Sono esistite forme di misoginia o di sessuofobia anche in esso? La sessualità necessariamente allontana da Dio, o può essere una via per avvicinarsi a lui? Dopo alcune premesse di carattere generale, concentrerò la mia analisi in un momento particolare, vale a dire quello della rinascita della mistica ebraica nell’area spagnola e provenzale della seconda metà del sec. XIII, limitandomi a qualche breve riferimento relativo alla lunga storia culturale dell’ebraismo, dalle origini del periodo pre-esilico in poi. Oggetto particolare della mia indagine, dunque, è un’operetta per secoli erroneamente attribuita a Mosheh ben Nachman o Nachmanide (Gerona 1194-Terra santa 1270), uno dei primi e più importanti cabalisti delle cerchie catalane,1 ma in realtà composta da Yosef Gikatilla. Si tratta di un breve trattato in forma di lettera che ha avuto una grande fortuna ed una vasta diffusione, circolato in molti manoscritti e edizioni a stampa con titoli diversi: Sha‘are ha-Tzedeq (Le porte della giustizia), attestato nei sei manoscritti più antichi; Sefer Qedushah (Libro sulla santità), Iggeret ha-Qodesh (Lettera sulla santità), Sod ha-chibbur (Il segreto dell’unione sessuale), ‘Inyan chibbur ha-Adam el ishto (L’unione sessuale dell’uomo con la sua donna) e Chibbur ish we-ishto (L’unione sessuale fra l’uomo e la sua donna). Se prendiamo in considerazione la Bibbia ebraica, certamente è chiaro come la dimensione erotico-sessuale sia stata perfettamente integrata nella sua Weltanschauung, del tutto libera da visioni pessimistiche e negative del sesso e della corporeità, mentre non trova posto in essa alcuna forma di sessuofobia, grazie ad un’antropologia profondamente ancorata alla dottrina della creazione compiuta da Dio, in cui tutto è "molto buono". "Nell’ebraismo il rapporto sessuale è considerato generalmente come il segno del vincolo che assicura l’unione di due persone per tutta la vita nel reciproco sostegno, nel piacere, nella procreazione e nell’educazione dei figli. Non c’è nell’ebraismo l’ossessionante concetto che i rapporti sessuali siano, in qualche modo peccaminosi. Il corpo umano non è stato né divinizzato né rinnegato. (…) Il fatto che la pratica del sesso sia accompagnata da intenso piacere è, per il credente, un’ulteriore prova della bontà di Dio". L’assenza nel giudaismo del periodo pre-esilico e in quello del Secondo tempio di qualcosa di equivalente alla dottrina del peccato originale ed alla conseguente visione di una natura umana decaduta e in potere del male, lo hanno preservato da visioni negative e pessimistiche della condizione umana, almeno fino allo sviluppo dell’apocalittica giudaica negli ultimi secoli prima dell’era volgare. L’esistenza umana si dipana in un rapporto dialettico tra osservanza e non osservanza dei precetti nel quale si gioca la fedeltà all’alleanza con Dio. Nei testi della letteratura profetica e nel Cantico dei cantici, la dimensione erotica diviene uno degli ambiti dell’esperienza umana scelti al fine di illustrare alcune dimensioni fondamentali del rapporto stesso fra Dio e Israele. Scrive a questo proposito Moshe Idel: "Si tratta evidentemente di una parte del mito nazionale che trasfigura la nazione nella sua interezza in un’entità che intrattiene una relazione sessuale con l’altra entità, la divinità. Questa relazione mitica ha poco a che vedere con una mistica". Una dimensione percepita e vissuta in una luce di insospettata positività, in un atteggiamento naturale e disinibito che, anzi, vede nella dimensione erotica e sessuale uno degli aspetti della vita umana più adatti ad esprimere qualcosa della realtà divina. Se è fuor di dubbio che l’esegesi ebraica tradizionale del Cantico sia stata – come anche quella cristiana – di carattere allegorico, ciò nulla toglie alla valorizzazione dell’esperienza erotica e sessuale dei due amanti protagonisti del poema, con la descrizione della bellezza del corpo della donna, esaltato anche nei suoi particolari: ombelico, seno, cosce, ventre, ecc.. "L’erotismo di cui è permeato il Cantico dei Cantici, è considerato dalla Bibbia normale e degno della massima considerazione in quanto è alla base di varie forme di corteggiamento finalizzato al matrimonio. Nella Bibbia sono presenti frequenti esempi di erotismo per così dire teologico. I Profeti si servono spesso di immagini erotiche per descrivere il rapporto tra Dio e Israele". Nella concezione del giudaismo rabbinico il comportamento umano è la risultante tra le due pulsioni fondamentali che Dio stesso ha posto nell’uomo: l’istinto cattivo (yetzer ha-ra‘) e l’istinto buono (yetzer ha-tov), dove è significativo che anche quello cattivo è stato posto nell’uomo dal creatore. In alcuni testi rabbinici ci si chiede se esso sia in realtà interamente cattivo e pare che la risposta prospettata sia negativa: "Se non esistesse l’istinti cattivo – osserva il Genesi Rabbah 9,7 – l’uomo non costruirebbe case, non si sposerebbe, non avrebbe figli e non si dedicherebbe agli affari". Sembra, dunque, esserci una misteriosa necessità anche dell’istinto cattivo, suggestione che pare in qualche modo anticipare di diversi secoli la dottrina cabbalistica della necessità del male nel processo di manifestazione sefirotica delle emanazioni divine, successive al ritrarsi di Dio per far posto alla creazione. L’ebraismo non è mai giunto – se si eccettuano i settari di Qumran e la setta dei Terapeuti – a considerare un valore l’astinenza sessuale o a gettare sulla sessualità l’ombra del disprezzo, in maniera analoga alla sessuofobia che ha caratterizzato alcune tendenze del pensiero cristiano fin dai primi secoli. La sessualità nell’ebraismo – seppur con alcune eccezioni anche di rilievo a cui accennerò – è stata in genere integrata positivamente nel rapporto fra Dio e l’uomo; nulla di più estraneo ad esso del sospetto che il rapporto sessuale tra l’uomo e la donna possa ledere o rendere meno pieno il rapporto dell’uomo con Dio, oppure dell’idea che il legame matrimoniale crei nell’uomo una divisione interiore, difficilmente componibile, tra amore per Dio e amore per la sposa, secondo quanto afferma Paolo (1 Cor. 7,32-34: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!), suggerendo conseguentemente come più perfetto e migliore uno stato di astinenza e di consacrazione totale a Dio, meglio atto a realizzare una relazione piena ed indivisa con lui. È nota la convinzione tradizionale ebraica che, nel momento dell’unione sessuale fra uomo e donna, se questa è compiuta in santità, la divina presenza o Šekinah scende ed incombe sul loro amplesso. L’unione fisica, lungi dall’allontanare l’uomo dalla divinità, nel pensiero rabbinico e nella mistica ebraica è uno strumento per richiamarla vicino alla vita umana e per collaborare alla procreazione, i cui partners nella tradizione ebraica sono appunto tre: l’uomo, la donna e Dio. Occorre precisare che la proibizione contenuta in alcuni passi della Bibbia ebraica di accostarsi a donna prima di una battaglia o per i sacerdoti, prima di celebrare atti di culto, non possono essere intesi come indecorosa contaminazione di tipo morale, bensì come una forma di depotenziamento dell’uomo, che, invece, deve affrontare questi impegni nella pienezza del suo vigore. Nella concezione dell’Israele antico, originariamente il concetto di impuro non riveste alcuna connotazione di tipo morale. Il contrarre qualsiasi forma di impurità, sia nella sfera della vita (mestruazione, polluzione ecc.) sia in quella della morte (contatti con cadaveri o malattie), nell’ideologia dell’Israele antico, non ha nulla di etico, essendo connotato come un fatto ontologico incolpevole. La contaminazione deriva da un contatto diretto con entità che non sono alla portata dell’uomo, trattandosi di realtà più potenti di lui, in stretta relazione con Dio (vedi la convergenza fra i concetti di sacro-impuro), e che potrebbero annientarlo, allo stesso modo in cui nessuno può vedere Dio e restare in vita. Le impurità connesse al ciclo vitale (la puerpera, il flusso mestruale, l’atto sessuale e il sesso stesso) sono connesse al "principio vitale" sentito come appartenente alla sfera del divino.5 Certamente, anche questo concetto ha subito una evoluzione nel pensiero ebraico dal periodo antico al sorgere dell’apocalittica, soggiacendo ad una certa ambiguità di interpretazioni, sfociata in due concezioni che hanno avuto differenti sviluppi. Se una valutazione meno pessimistica della sessualità sembra costituire la linea di pensiero prevalente, non sono mancati anche nell’ebraismo movimenti e tendenze che hanno avuto dei problemi ad integrare positivamente all’interno della loro visione il sesso e la donna. Si pensi ad esempio ad una certa misoginia entrata già nel giudaismo rabbinico in forme più marcate dei cenni rilevabili in alcune affermazioni di Qohelet o dei Proverbi, e a movimenti pietisti del periodo medievale e moderno, sui quali ritorneremo, che mostrano una certa affinità con l’attitudine più problematica del pensiero cristiano verso il corpo e la sessualità. È noto, infatti, come fin dai primi secoli del cristianesimo, parallelamente all’esaltazione della condizione verginale come la più appropriata per il cristiano a vivere in pienezza il suo rapporto esclusivo con Dio, si sia sviluppata una linea di pensiero caratterizzata da forme marcate di sessuofobia che trova espressione nella patristica. È difficile non vedere in questo atteggiamento un retaggio dell’apertura della riflessione cristiana, fin dal suo costituirsi, a linee di pensiero tipiche dell’apocalittica o di matrice greca e gnostica; alla rovescia, ritengo che in linea generale il giudaismo rabbinico abbia conservato un atteggiamento più positivo verso la corporeità e la sessualità proprio per essere stato più chiuso e refrattario all’influsso di queste matrici culturali, restando più ancorato alla radice del pensiero biblico, in particolare all’idea della positività della creazione. "Nella concezione gnostica – scrive Idel – il mondo inferiore deve sforzarsi di copiare la regola superiore dell’androginia o della asessualità. L’attitudine gnostica risulta essere a certo riguardo simile all’attitudine cristiana di fronte alla sessualità: esse costituiscono un aspetto importante del loro più generale rigetto di questo mondo; le escatologie gnostiche e cristiane propongono una salvezza spirituale che riguarda sia la restaurazione dell’androginia paradisiaca sia uno statuto di asessualità per il credente. (…) L’ascetismo cristiano non è altro che un’attitudine più moderata [scil. dello gnosticismo] verso la condizione temporanea del mondo fino alla seconda venuta del Salvatore. L’istinto sessuale è stato sia obliterato, sia parzialmente sublimato sotto forma dell’amore del Cristo".6 In particolare la Qabbalah, all’interno dell’ebraismo, piuttosto di tentare di sopprimerla o di sublimarla, ha cercato di integrare la libido all’interno della sua visione del divino e delle sue emanazioni e di valorizzarla come atto teurgico che incrementa la presenza divina nel mondo e favorisce il processo sefirotico di restaurazione della pienezza della divinità, dopo la sua contrazione (Tzimtzum) resasi necessaria dall’atto creativo. Certamente, se una visione più positiva e meno sessuofobica pare essere prevalente – con le debite eccezioni – nell’ebraismo, per completezza e oggettività occorre menzionare anche alcuni movimenti che hanno sviluppato tendenze di segno opposto. Mi riferisco ad esempio al Chassidismo tedesco dei secoli XII-XIII, fiorito pressoché contemporaneamente al movimento cabalistico che ha prodotto la nostra Lettera, e che ha espresso le sue idee nel Sefer Chassidim. Nella sua visione la donna diviene un essere problematico all’interno di una ideologia della "rinuncia ascetica [che] si fonda su una buia e spesso alquanto pessimistica valutazione della vita. (…). Il chassid deve lottare contro tutto ciò che lo attira nella vita di ogni giorno…chi ora si tiene lontano dalle tentazioni di questo mondo, e allontana il suo sguardo dalle donne, in seguito vedrà lo splendore della Šhekinah, la Gloria, e nell’aldilà avrà il suo posto tra gli angeli"7. Ancor più marcate sono le forme di sessuofobia insinuatesi nel Chassidismo polacco dei secc. XVII e XVIII, come reazione agli eccessi di movimenti come il Sabbatianesimo e il Frankismo o di altre sette che avevano infranto il divieto dell’incesto affermando forme sfrenate di vitalismo che si esprimeva in pratiche orgiastiche intese come via mystica verso il divino. "Il rischio che ha atteso al varco la cabala ebraica medioevale non riguardava tanto una spiritualità esagerata che disprezzava l’amore carnale, quanto un’esplosione di relazioni sessuali percepite come positive al di là dei limiti della halakah". È questo il motivo per cui si assiste in alcuni movimenti come il Chassidismo ad una reazione di segno contrario, caratterizzata da una diffidenza verso la sessualità e dall’abbandono dell’uso del simbolismo sessuale. Questo atteggiamento ha raggiunto la sua massima manifestazione nel movimento degli Haredim (letteralmente: i tremanti, i pii), ossia gli ultra-ortodossi insediatisi in Israele e negli Stati Uniti prima e dopo la loro quasi totale distruzione perpetrata dalla Shoah. Per essi lo scopo esclusivo del rapporto sessuale è la procreazione e in esso il piacere non deve avere alcun ruolo. In alcuni gruppi più rigoristi "i rapporti sessuali fra una coppia di sposi devono essere i più brevi e privi di emozioni che sia possibile, mentre anche solo il desiderio di un’esperienza sessuale più prolungata è considerata come eccessiva e peccaminosa"9. È risaputa la pratica diffusa fra alcuni di loro per cui marito e moglie si uniscono sessualmente nel tempo più breve attraverso un foro praticato in un lenzuolo, in modo che le altre parti del corpo non vengano a contatto fra loro e non si veda la nudità del partner. Questi movimenti, sviluppatisi nell’Europa centro-orientale dal Medioevo avanzato all’epoca moderna, con aspetti di continuità che giungono fino ai nostri giorni, secondo alcuni autori potrebbero essere stati influenzati, oltre che da tendenze pietiste, anche da Maimonide e della sua sintesi fra filosofia aristotelica e giudaismo. Essi non costituiscono la linea di pensiero prevalente all’interno della tradizione ebraica, mentre mostrano per alcuni aspetti una certa convergenza con l’attitudine del cristianesimo verso la sessualità. È stata la Qabalah rifiorita nel sec. XIII ad assumersi il compito di esprimere con maggiore ricchezza la valorizzazione della dimensione sessuale nella costruzione del suo sistema simbolico, prendendo le sue difese contro il suo deprezzamento operato dalla filosofia nella sua forma neoplatonica ed aristotelica, entrata quest’ultima con Maimonide in maniera massiccia nel giudaismo. L’operetta di cui ci occupiamo è forse il testo che in maniera più diretta ed esplicita compie questa operazione: in esso per la prima volta all’interno del giudaismo si dedica una riflessione esplicita e organica al significato dell’unione sessuale elaborando una vera mistica del matrimonio. La Lettera sulla santità altrimenti nota anche come "Porte della giustizia" e "Il segreto dell’unione sessuale", conobbe una larghissima fortuna, come attestano i manoscritti e le varie edizioni a stampa. Per quanto riguarda i primi ne abbiamo contati ben 38 giunti fino a noi, di cui il più antico, conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, fu copiato a Lerida nel 1328, verosimilmente pochi decenni dopo la composizione dell’originale. Esso si aggiunge ad altri tre manoscritti del sec. XIV. Si potrà osservare come su 38 manoscritti 8 siano vergati in grafia sefardita mentre ben 18 siano stati copiati da scribi italiani e solo 4 da scribi ashkenaziti; questo potrebbe dimostrare l’importanza che la nostra penisola ebbe nel diffondersi e consolidarsi della mistica ebraica nei secoli XV e XVI. Ecco di seguito la lista dei manoscritti esistenti: Ms. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana Plut. II 41/6, ff. 186r-195r Sha‘are ha-Tzedeq; copiato per proprio uso da Yitzchaq ben Yosef ben Chilo; nota di possesso di Shemu’el ha-Qatan ben Mosheh da Perugia; scrittura sefardita, Lerida 1328. Si tratta del manoscritto più antico in nostro possesso.
Ms. Roma, Biblioteca Casanatense 3087/21 (Sacerdote 180), ff. 80v-84v Sha‘are ha-Tzedeq; scrittura italiana, sec. XIV.
Ms. Parma, Biblioteca Palatina Cod. Parm. 3532/1 (Perreau 086), ff. 3r-11r Sha‘are ha-Tzedeq; scrittura italiana, sec. XIV.
Ms. New York, Jewish Theological Seminary ms. 1609/25, ff. 170r-177v Sefer qedushah le-ha-Ramban z’’l; scrittura corsiva sefardita, sec. XIV.
Ms. New York, Columbia University X 893 G 363, ff. 63r-71r Sha‘are ha-Tzedeq; copiata per se stesso da Mosheh Barzilay in scrittura italiana, Rimini 1400.
Ms. Vaticano, Biblioteca Apostolica, Vaticano Urbinate 31/6, ff. 155r-163r Sha‘are ha-Tzedeq; copiato, forse in Italia, dallo scriba di origine provenzale Shelomoh ben Netan’el Kokhavi per Yehoshua ben Yo’av; scrittura sefardita, 1405.
Ms. New York, Jewish Theological Seminary, 1887/19; ff. 66v-74r Iggeret ha-Qodesh scrittura sefardita, sec. XV. Ms. Mosca, Lenin State Library, Ms. Guenzburg 134/21, ff. 287v-294v Sha‘are Tzedeq; censura di Camillo Jagel [1629?]; copiato da Yehudah ben Shelomoh da Camerino; scrittura italiana sec. XV.
Ms. Cambridge, University Library Dd. 4.2.5/1, ff. 1r-16v Sefer Sha‘are ha-Tzedeq we-darke ha-Qodesh le-Rav ha-gadol ha-Ramban z’’l; scrittura sefardita, sec. XV.
Ms. Escorial, Biblioteca de San Lorenzo de El Escorial G-III-11/13, ff. 143v-153r Iggeret ha-Qodesh; copiato da Qalonimos ben Azariel Yitzchaq ben Qalonimos; scrittura ashkenazita, Portogruaro 1501.
Ms. Cambridge, University Library Dd.10.11,2/1, ff. 2r-17v Iggeret ha-Qodesh; copiato da Mordekai ben Shelomoh Qafruti (?); scrittura bizantina, sec. XV-XVI.
Ms. London, British Library, Or. 14056, Sassoon 596/6, ff. 46-62 Sha‘are ha-Qedushah; scrittura sefardita, secc. XV-XVI.
Ms. Paris, Bibliothèque Nationale héb. 782, anciens fonds 113, ff. 234r-235r Iggeret ha-qodesh (solo parte iniziale); scrittura sefardita, secc. XV-XVI.
Ms. Roma, Biblioteca Casanatense 2747/7 (Cat. Sacerdote 169), ff. 80v-84v Sha‘are ha-Tzedeq le-ha-Ramban; scrittura italiana, secc. XV-XVI.
Ms. Vaticano, Biblioteca Apostolica ebr. 231/3, ff. 18r-26v Sefer ha-Qedushah me-ha-Ramban; scrittura ashkenazita, secc. XV-XVI.
Ms. Paris, Bibliothèque Nationale héb. 769, anciens fonds 272, ff. 238v-248v Sefer qedushah; copiata da Yitzchaq ibn Shoshan a Tunisi, dove si trovava esule dalla Spagna dopo l’espulsione del 1492; scrittura sefardita, secc. XV-XVI.
Ms. Oxford, Bodleian Library MS Mich. 283 (Neubauer 847/3), ff. 81v-90r Sod ha-chibbur le-ha-Ramban; censure di Alex[and]ro de Cari 1559 (227v), An[ton]io di Medicis 1629; scrittura italiana, Rimini 1527-28.
Ms. Vaticano, Biblioteca Apostolica ebr. 504/4, ff. 267r-275r Sod ha-Chibbur le-ha-Ramban; scrittura italiana, 1528.
Ms. Cambridge, University Library Add. 505,3, ff. 7, col titolo Sha‘are ha-Tzedeq scrittura ashkenazita, 1529.
Ms. London, British Library Add. 27080 (Margoliouth 815/2), ff. 105r-122v; scrittura italiana secc. XVII-XVIII. Copia dell’editio princeps di Roma del 1546. Ms. Muenchen, Bayerische Staatsbibliothek, Cod. hebr. 47, ff. 310v-322r ‘Inyan chibbur ha-Adam el ishto; scrittura shkenazita, Venezia 1551.
Ms. New York, Jewish Theological Seminary 1665, ff. 16, Iggeret ha-Qodesh; copiato per proprio uso da Avraham ben David Provenzali, scrittura italiana, Rodigo (Mantova) 1556.
Ms. Budapest, Orszagos Rabbinkepzo Intezet Konyvtara K 53, ff. 91r-101r Iggeret ha-qodesh; note di possesso di Yechiel Chayyim Viterbo ed Eliezer ben Shelomoh da Camerino. Alla fine nota di Censura di Camillo Jaghel del 1615; scrittura italiana, sec. XVI.
Ms. New York, Jewish Theological Seminary, Ms. 2140/1, ff. 1v-9r Iggeret ha-Qodesh …be-‘inyan chibbur ha-Adam el ishto (non è indicata tipo di scrittura e data).
Ms. New York, Jewish Theological Seminary 1731/4, ff. 78v-87v, Sha‘are ha-Tzedeq, scrittura italiana, sec. XVI.
Ms. Oxford, Bodleian Library Hunt. 352, ff. 1r-12v col titolo Sha‘are tzedeq attribuita ad Abraham ben David, scrittura sefardita, sec. XVI.
Ms. Oxford, Bodleian Library Laud. Or. 220, ff. 278r-285v Sha‘are ha-Tzedeq, scrittura orientale, sec. XVI.
Ms. Oxford, Bodleian Library MS Opp. 332 (Neubauer 861/4), ff. 137r-144r Iggeret ha-Qodesh, scrittura ashkenazita, sec. XVI.
Ms. Jerusalem, Ben Zvi Institute, 240/10, ff. 52v-55v Sha‘are ha-Tzedeq; scrittura italiana, sec. XVI.
Ms. St. Petersburg, Russian National Library Evr. I 518, Chibbur ish we-ishto, attribuita qui a Shemaryah ben Neryah Iqriti; scrittura bizantina sec. XVI.
Ms. Mosca, Russian State Library, Ms. Guenzburg 320/21, ff. 340v-347r Sefer ha-Qodesh; note di possesso di Avraham ben Shelomoh da Fano e di Shelomoh Refa’el ben Avraham da Fano; censura di Camillo Jaghel 1611, in Lugo; scrittura italiana sec. XVI.
Ms. St. Petersburg, Russian National Library Evr. II A 492, Iggeret ha-qodesh, ff. 9; scrittura orientale, sec. XVI.
Ms. New York, Jewish Theological Seminary ms. 1990/21, ff. 171r-178r ‘Inyan chibbur ish we-ishto; censura di Luigi da Bologna; scrittura italiana, sec. XVI.
Ms. Mosca, Russian State Library, Ms. Guenzburg 1168/1, ff. 3r-15v Sefer Sha‘are ha-Tzedeq le-ha-Ramban; scrittura italiana, secc. XVI-XVII.
Ms. New York, Jewish Theological Seminary 2406, Iggeret ha-Qodesh …be-‘inyan chibbur ha-Adam el ishto; scrittura italiana, Fiorenzuola 1739.
Quanto alle edizioni a stampa, la Lettera vide l’editio princeps a Roma nel 1546, e successive tirature nelle seguenti città: Basilea 1580, Cracovia 1594, Salonicco 1595, Altona 1789, Berlino 1793, Lemberg 1858, Amsterdam 1928, Gerusalemme 1930. Recentemente è stata ripubblicata da Ch. D. Chavel (Gerusalemme 1963 assieme agli scritti di Nachmanide a cui l’editore continua ad attribuirla), da I. Zelig Margaliot e B. Klatzkin (Gerusalemme 1971), mentre una pregevole edizione critica è stata curata da S.J. Cohen (New York 1976). L’operetta è stata tradotta in latino, inglese, tedesco, yiddish, francese e italiano (vedi in segito). I primi cabalisti a citare la lettera sono Menachem Recanati, vissuto in Italia centrale tra la fine del sec. XIII e la prima metà del XIV, e Yeoshua‘ ibn Shuaib (prima metà del sec. XIV). Molte sono le fonti dirette e indirette dell’opera. Le concezioni della medicina ippocratea, e quelle aristoteliche relative all’origine del seme maschile, assieme a quelle di Galeno sui processi digestivi, erano diffuse nel Medioevo dopo la riscoperta dei classici e sono riprese anche dall’autore della Lettera. Molte sono, naturalmente, anche le fonti rabbiniche, dai testi talmudici e halakici, ai grandi medievali, fra cui Maimonide, il cui pensiero, pur essendo aspramente criticato su alcuni punti dal nostro autore, costituisce parte integrante della sua visione del mondo e del giudaismo. Molti sono anche gli influssi di opere specificamente cabalistiche fra cui quelle di Ezra e Ariel da Gerona, Nachmanide, Mosè da Burgos, Yaaqov ha-Kohen da Soria, Todros Abulafia, Mosè de Leon, mentre, com’è ovvio, ci sono molti punti di convergenza fra la Lettera e le opere di Yosef Gikatilla, che ne è l’autore. Venendo più particolarmente al rapporto sessuale, che ovviamente è sempre inteso fra due persone sposate, occorre dire che Nachmanide – e questa è una ulteriore prova del fatto che non può esserne lui l’autore – afferma che esso è tollerato solo come mezzo necessario alla procreazione, mostrandosi in questo ancor più rigorista di Maimonide, che nell’atto sessuale vede anche uno scopo terapeutico di scarica della tensione istintuale dell’uomo. Nel suo commento a Levitico XVIII,6 così scrive il maestro di Gerona: "Sappi che il rapporto sessuale è cosa considerata sconveniente e disprezzata dalla Torah, salvo che per perpetuare la specie, per cui il rapporto da cui non nasce nulla è proibito allo stesso modo di quello che non è in grado di procreare e non raggiunge il suo scopo: essi sono proibiti dalla Torah". A differenza di questa concezione riduttiva, i cabalisti in genere insistono non tanto sul valore procreativo dell’atto sessuale, quanto piuttosto sulla sua capacità di accrescere l’immagine di Dio sulla terra e di attrarre su di essa la presenza divina... [Il seguito dell'articolo, che esamina singolarmente i sei capitoli della lettera, è inserito nelle sue parti di riferimento, come preambolo ai capitoli stessi] |
|