Come in tutti i sistemi di misticismo, l'anima
ha una parte importantissima nella teologia
dello
Zohar. Il centro di gravità del misticismo
sta nella stretta parentela fra l'umano e il
divino; e la sola via per la quale questa
parentela può divenire reale per noi è quella
dell'anima. L'anima, come entità spirituale che
ha la parte più alta nei rapporti fra l'uomo e
l'invisibile, non forma affatto un elemento
cospicuo né dell'Antico Testamento né degli
scritti Talmudici e Midrashici; ed i critici del
Giudaismo hanno buon gioco nell'esprimersi
aspramente a carico di quella religione per la
sua deficienza a questo riguardo. Tale mancanza
è però ampiamente compensata dalla larga parte
che si assegna alle funzioni dell'anima in tutti
i rami della Qabalah medioevale.
Che lo Zohar derivi il suo contenuto da una
doppia sorgente - gli insegnamenti Talmudici e
quelli Neoplatonici - risulta evidente dal modo
come tratta l'argomento dell'anima.
Un passaggio del Talmud suona così: «Come
l'anima riempie il corpo, così Iddio riempie il
mondo. Come l'anima sostiene il corpo, così
Iddio sopporta il mondo. Come l'anima vede ma
non è veduta, così Iddio vede ma non è veduto.
Come l'anima nutre il corpo [s'intende
spiritualmente, intellettualmente], così Dio dà
nutrimento al mondo» (T. B. Berachoth, 10
a).
La predominante influenza dell'anima sul corpo e
la compenetrazione del corpo, in ogni sua parte,
e la sua dipendenza dall'anima come sorgente di
vita sono concetti impliciti nel brano citato, e
costituiscono il substrata delle idee dello
Zohar sull'anima.
Il Neoplatonismo diede a sua volta l'idea
dell'anima come emanazione della «Superanima»
dell'universo.
V'era in origine un'«Anima universale» o
«Superanima» la quale si frammentò
imprigionandosi in corpi individuali. Tutte le
anime individuali sono, quindi, frammenti
dell'«Anima universale», così che, sebbene esse
siano distinte l'una dall'altra, risultano in
realtà tutte una sola.
Lo Zohar dice infatti: «Al tempo in cui Dio
desiderò di creare l'universo, questo si formò
nella sua volontà dinanzi a lui, ed Egli formò
tutte le anime che furono destinate ad esser
distribuite ai figli degli uomini. Le anime
stettero tutte davanti a lui nelle forme ch'era
loro destino di assumere poi entro il corpo
umano. Dio le guardò una per una e vide che
molte di loro avrebbero agito corrottamente nel
mondo.
Quando venne il momento di ciascuna, essa fu
chiamata innanzi a Dio, che le disse: "Va in
quella parte dell'universo e racchiuditi in quel
corpo". Ma l'anima replicò: "Oh sovrano
dell'universo, io sono felice nel mondo
presente, e non desidero di lasciarlo per
qualche altro luogo in cui sarò fatta schiava e
mi macchierò". Allora il Santo (ch'Egli sia
benedetto) soggiunse: "Dal giorno della tua
creazione tu non hai avuto altro destino che
quello di andare nell'universo là dove io ti
mando". L'anima, vedendo che doveva obbedire,
prese dolorosamente la via della terra e discese
ad abitare in mezzo a noi» (II, 96).
In questo tratto dello Zohar si ritrova più di
un'eco di
Plotino, la mente maestra del Neoplatonismo.
Il mondo, che si formò nella volontà di Dio
dinanzi a Lui, risponde all'insegnamento di
Plotino sulla Divinità che pensa i modelli
originari di tutte le cose, essendo il pensiero
la prima manifestazione di Dio. La frase «le
anime stettero tutte davanti a lui nelle forme
ch'era loro destino di assumere poi» è una
chiara allusione al frammentarsi dell'«anima
universale» in guisa che i frammenti
s'incorporassero negli individui - appunto come
insegnava Plotino.
Ma, sebbene lo Zohar, come Plotino, faccia una
distinzione fra anime inferiori (quelle che
avrebbero agito corrottamente nel mondo) e anime
superiori, fa poi, a differenza da Plotino, che
ogni anima abbia a discendere in qualche corpo.
E qui Plotino dà un insegnamento affatto
diverso: «L'anima inferiore desidera un corpo
e vive nello stato sensibile... L'anima
superiore, invece, trascende il corpo, cavalca
su di esso, come il pesce vive nel mare o la
pianta nell'aria. Quest'anima superiore non
abbandona mai assolutamente la sua dimora,
poiché la sua essenza non è qui, ma "al di là" o
- con le parole di Plotino - "l'anima lascia
sempre qualche cosa di sé in alto"» (Rufus
M. JONES: Studies in Mystical Religion, pag.
74).
Secondo lo Zohar, mentre v'è una distinzione fra
le anime superiori e le inferiori - come lo
mostra il fatto di appartenere ad una Sephirâ
più alta o più bassa esse debbono tutte
discendere in terra ed unirsi al corpo,
ritornando poi tutte, dopo la morte, alla loro
unica sorgente: Dio..
Lo Zohar, dopo tutto, non è che un commentario
della Bibbia ebraica, e per quanto possa a volte
trascurare le vie tradizionali del Giudaismo in
favore di altre filosofie, mantiene il suo
carattere strettamente conservatore là ove si
tratta degli assiomi fondamentali della fede
ebraica. Che ogni corpo possegga un'anima, la
quale è «pura» nella sua forma primitiva; e che
in un'altra vita l'attenda una ricompensa
commisurata ai suoi meriti, sono dogmi
inespugnabili del Giudaismo.
E lo Zohar, per quanto divaghi, deve
necessariamente ritornare a queste idee
centrali.
L'anima è una trinità. Essa comprende tre
elementi, e cioè:
a) Neshâmâh, l'elemento razionale, che è
l'aspetto più alto dell'esistenza;
b) Ruah, l'elemento morale, la sede del
bene e del male, le qualità etiche;
c) Nephesh, l'aspetto grossolano dello
spirito, l'elemento vitale che è in rapporto col
corpo, e la sorgente principale di tutti i
movimenti, gli istinti e le brame della vita
fisica.
In questa triplice divisione dei poteri
dell'anima si trova un forte riflesso di
psicologia Platonica. Numerosi teologi ebrei
medioevali s'ispirarono a Platone, e con ogni
probabilità a loro appunto deve lo Zohar il suo
contenuto.
Le tre divisioni dell'anima sono emanazioni
dalle Sephiroth. Neshâmâh, che, come si è detto,
è l'anima nel senso più elevato e sublime, emana
dalla Sephirâ della Sapienza. Ruah, che denota
l'anima nel suo aspetto etico, emana dalla
Sephirâ della Bellezza. Nephesh, che è l'aspetto
animale dell'anima, è una emanazione dalla
Sephirâ del Fondamento, quell'elemento della
divinità che viene più di ogni altro in contatto
con le forze materiali della terra.
Riassumendo il concetto in un linguaggio
generale e non tecnico, può dirsi che le tre
divisioni o i tre aspetti dell'anima umana
rendono l'uomo capace di adattarsi al piano e
alla tessitura del cosmo, e gli danno il potere
di compiere i suoi molteplici doveri verso le
varie parti del mondo - mondo il quale è una
manifestazione del pensiero di Dio, una copia
dell'universo celeste, una emanazione del
divino. Lo Zohar si esprime poeticamente così:
«In queste tre [ Neshâmâh, Ruah e Nephesh]
noi troviamo una esatta immagine (diyûkna) di
ciò che è in alto, nel mondo celeste. Poiché
tutte e tre formano una anima sola, un essere,
dove tutto è uno. Nephesh [cioè l'aspetto più
basso dell'anima] non possiede alcuna luce in se
stessa. È perciò ch'essa è così strettamente
congiunta al corpo cui procura i piaceri e gli
alimenti dei quali ha bisogno. Di essa dicono i
saggi: "Dà carne alla famiglia e assegna i loro
compiti alle fantesche" (Proverbi, XXXI, 15).
"La famiglia" significa il corpo, che viene
nutrito. "Le fantesche" sono le membra che
obbediscono agli ordini del corpo. Al di sopra
di Nephesh v'è Ruah [l'anima morale] che domina
Nephesh, le impone leggi e la illumina per
quanta la sua natura lo richiede. E poi in alto
al di sopra di Ruah v'è Neshâmâh, che a sua
volta dirige Ruah e spande sovr'essa la luce di
vita. Ruah è illuminata da questa luce e
interamente ne dipende. Dopo morta Ruah non ha
riposo. Le porte del paradiso (Eden) non si
aprono a lei fino al momento in cui Neshâmâh è
risalita fino alla sua sorgente, all'Antico
essere fra gli antichi, allo scopo di esser
riempita da Lui per tutta l'eternità. Neshâmâh
infatti risale sempre indietro verso la sua
sorgente» (II, 142).
Da questo passaggio, come da molti altri che si
potrebbero utilmente riportare se lo spazio lo
permettesse, si può trarre la conclusione che
Neshâmâh si realizza solo dopo la morte e che
solo allora l'uomo ne diviene cosciente.
Un'intera vita è necessaria (e in alcuni casi
più di una vita, come vedremo) allo scopo di far
sì che Neshâmâh si renda capace di risalire
ancora verso l'infinita sorgente da cui emanò.
Ed è destino inevitabile di Neshâmâh quello di
risalire indietro e di unificarsi con l'«Antico
degli antichi».
Ma se Neshâmâh è così alta e sacrosanta, perché
dovrebbe essere stata emanata dalla sua fonte
immacolata, per imbrattarsi nella terra? Lo
Zohar prevede la domanda e vi risponde in questo
modo:
«Se tu domandi perché essa [cioè l'anima]
discenda nel mondo d'a un così eccelso luogo e
si allontani di tanto dalla sua sorgente, io
rispondo così: si può fare il paragone di una
monarca della terra a cui sia nato un figliolo.
Il monarca fa portare il bambino in campagna,
dove deve esser nutrito e allevato finché abbia
raggiunto l'età sufficiente per abituarsi al
palazzo di suo padre. Quando il padre viene
informato che l'educazione di suo figlio è
completa, che cosa fa nel suo amore per lui? Per
celebrare il suo arriva manda a chiamare la
regina, madre del ragazzo; la conduce nel
palazzo e si rallegra con lei per tutto il
giorno [la regina è la
Shechinah, la Presenza divina].
Così fa il Santo (ch'Egli sia benedetto).
Anch'egli ha un figlio dalla regina. Questo
figlio è l'anima alta e santa. Egli la conduce
in campagna, cioè nel mondo, perché ivi cresca e
apprenda i costumi del palazzo reale. Quando il
Re divino scorge che l'anima ha completato il
suo sviluppo, ed il tempo è maturo per
richiamarla a sé, che fa egli nel suo amore per
lei? Manda a cercare la regina, la porta nel
palazzo e vi porta anche l'anima. Questa, in
verità, non abbandona la sua abitazione
terrestre prima che la regina sia venuta ad
unirsi con lei, e a condurla nell'appartamento
in cui dovrà viver per sempre.
E la gente del mondo è solita a piangere quando
il figlio [cioè l'anima] prende commiato. Ma se
v'è un saggio fra loro, li interroga: Perché
piangete? Non è egli il figlio del Re? Non è
naturale che egli ci lasci per andar a vivere
nel palazzo di suo padre? Fu per questo che
Mosè, che conosceva la verità, vedendo gli
abitanti della terra pianger per i morti
esclamò: "Voi siete i figli del Signore vostro
Dio; non feritevi né percuotetevi fra gli occhi
per cagion dei morti" (Deut., XIV, 1). Se tutti
gli uomini buoni questo sapessero, saluterebbero
con gioia il giorno in cui dovessero dire addio
al mondo. Non è per loro la gloria più alta
quella per cui la regina (cioè la Shechinah, la
Presenza divina) scende in mezzo a loro per
condurli nel palazzo del Re a goderne per sempre
le gioie?» (I, 245).
È da notarsi, a questo proposito, che vi sono
molti esempi nella letteratura Talmudica, di
uomini che vedono la Shechinah nell'ora della
morte. È il segnale del ritorno di Neshâmâh alla
propria casa, l'«Anima universale» di cui essa
non è che un perduto frammento; ed il ritorno
può incominciare soltanto dopo che essa ha
completato la sua educazione nei limiti vitali
di un corpo terrestre.
Come corollario naturale della dottrina
suesposta sembra si possa arguire che lo Zohar
deve sostenere la teoria della trasmigrazione
delle anime.
Se Neshâmâh deve necessariamente risalire di
nuovo verso l'Anima universale per unirsi con
essa, e se, per realizzare questo fine, deve
prima aver raggiunto l'apice della purezza e
della perfezione, allora è chiaro che il suo
soggiorno entro i limiti di un corpo può a volte
riuscire insufficiente a consentirle di
raggiungere quest'alta e difficile condizione.
Deve perciò provare altri corpi e ripetere la
prova fino a che non si sia elevata e
perfezionata al punto da potersi unificar
nuovamente con la fonte da cui emanò. Lo Zohar
contiene in realtà alcune dottrine di questo
genere, per quanto la trattazione sistematica
dell'argomento non si ritrovi che negli
scrittori cabalisti che costruirono sulle basi
dello Zohar.
Lo Zohar si esprime così:
«Tutte le anime debbono essere soggette alla
trasmigrazione; e gli uomini non comprendono le
vie di Dio (ch'Egli sia benedetto). Essi non
sanno che vengono portati innanzi al tribunale
prima di entrare in questo mondo e dopo averlo
lasciato. Essi non sanno le molte trasmigrazioni
e le prove nascoste che devono subire, né
conoscono il numero delle anime e degli spiriti
(Ruah e Nephesh) che entrano nel mondo e che non
ritornano al palazzo dei re dei cieli. Gli
uomini non sanno come le anime evolvano simili a
pietre lanciate da una fionda. Ma il tempo si
avvicina in cui queste cose nascoste saranno
rivelate» (II, 99).
Per la mente dei Cabalisti la trasmigrazione
delle anime è una necessità non solo sulla base
della loro particolare teologia, per cui l'anima
deve raggiungere il più alto stadio della sua
evoluzione prima di poter esser ricevuta ancora
nella sua eterna dimora, ma anche per motivi di
ordine morale.
È una giustificazione della giustizia divina di
fronte all'umanità. Risolve la domanda
tormentosa che tutte le epoche si sono proposta:
Perché Iddio permette ai malvagi di fiorire come
il lauro sempreverde, mentre ai giusti non è
concesso di maturare che dolore ed insuccesso?
La sola via per riconciliare il fatto orribile
della sofferenza infantile con la credenza di un
Dio buono è quella di ammettere che il dolore è
per l'anima una retribuzione di peccati commessi
in una o più delle precedenti esistenze.
Come già si è detto, la letteratura ebraica su
questo argomento della trasmigrazione è
straordinariamente ricca. Ma lo studio di essa
va oltre lo scopo del presente lavoro.
Lo Zohar non insegna soltanto, come abbiamo
visto, l'emanazione di una triplice anima, ma
propone anche una curiosa teoria sulla
emanazione di una preesistente forma o tipo
corporeo, che, per ciascuno di noi, serve ad
unire l'anima col corpo. È questo uno degli
elementi più strani della psicologia Zoarica; il
suo scopo è probabilmente quello di render
ragione, su di una base unica, delle varie
caratteristiche fisiche e psichiche insite in
ciascuno di noi fin dalla nascita.
Il passaggio in questione suona così:
«Al momento in cui avviene l'unione terrestre
(il matrimonio), Iddio (che Egli sia benedetto)
manda in terra una forma (o immagine) che
rassomiglia ad un uomo e porta su di sé il
divino sigillo. Quest'immagine è presente al
momento ora indicato e se l'occhio potesse
vedere quel che avviene allora, scorgerebbe
sopra le teste (dell'uomo e della donna) una
immagine simile ad una faccia umana; e questa
immagine è il modello sul quale noi siamo
foggiati... È questa immagine che ci riceve al
nostro arrivo in questo mondo. Essa cresce in
noi a misura che noi cresciamo e ci lascia
quando lasciamo il mondo. Questa immagine viene
dall'alto. Quando le anime stanno per
abbandonare la loro celeste dimora, appaiono una
per una innanzi a Dio (ch'Egli sia benedetto)
rivestite di uno splendido modello (o immagine o
forma) in cui sono scolpite le fattezze che
ognuna porterà quaggiù» (III, 107).
Ma di importanza assai maggiore nel misticismo
ebraico è la posizione dominante assegnata dallo
Zohar all'idea dell'Amore. Invero il misticismo
giudaico non fa che riflettere in questo la
natura del misticismo vivente in tutte le altre
religioni. La qualità più visibile, tangibile e
sensibile dell'anima è l'amore. L'anima è la
radice dell'amore. L'amore è il simbolo
dell'anima.
«L'amore mistico», dice Evelina Underhill, «è
la produzione della Venere celeste; il desiderio
profondo e la tendenza dell'anima verso la sua
sorgente».
L'anima, dice il mistico d'ogni epoca, cerca di
entrare coscientemente alla presenza di Dio. Ed
essa può farlo soltanto sotto lo sprone di una
soverchiante emozione estatica chiamata amore.
Sebbene, secondo lo Zohar, l'anima nel suo stato
più alto, come Neshâmâh, possa goder l'amore che
deriva dalla riunione con la sua sorgente solo
dopo di essersi liberata dalla contaminazione
dei corpi terrestri, ciò non di meno è
possibile, in certe condizioni, di realizzare
questo amore estatico mentre l'anima è nel corpo
vivente di un individuo. Una di queste
condizioni è l'atto di servire Iddio, che ha per
principale azione esterna concomitante la
preghiera.
«Chiunque serve Iddio per amore», dice lo
Zohar, «si mette in unione (itdabak) col
luogo dell'Altissimo, ed entra in unione anche
con la santità del mondo che verrà» (II,
216). Ciò significa che il servizio di Dio,
quando è fatto con amore, conduce l'anima ad
unirsi col luogo della origine sua, e le
consente di pregustare la felicità ineffabile
che l'attende nella sua più elevata condizione,
come Neshâmâh.
Il verso: «Odi, Israele, il Signore Iddio
nostro, il Signore è uno» (Deut., VI, 14)
accenna, dice lo Zohar, a questa fusione
dell'anima in una unità.
Per questo lato del suo insegnamento lo Zohar
non ha certamente fatto ricorso né al
Neoplatonismo né ad altro sistema esotico. Esso
gli deriva dai suoi predecessori ebraici - gli
autori delle omelie Midrasciche che arricchirono
la letteratura giudaica dei primi secoli
dell'èra cristiana con le loro interpretazioni
mistiche del
Cantico dei Cantici. Versi come questo: ««Io
sono del mio amato, ed il mio amato è mio» (VI,
3) servirono loro come punto di partenza per i
loro sermoni sulla vicinanza dell'uomo e di Dio
derivante dal legame d'amore.
Quando l'anima ha completato il ciclo della sua
carriera terrestre e si affretta a tornare ad
unirsi con l'Anima universale tripudia in estasi
d'amore che lo Zohar descrive con ricchezza di
fraseologia poetica. L'anima è ricevuta in quel
che è chiamato un «tesoro di vita», o talvolta
un tempio d'amore», ed una delle sue gioie
culminanti è quella di contemplare la divina
Presenza in uno «specchio scintillante».
I rabbini del Talmud e della Midrashim usarono
la stessa frase. Così suona infatti un passaggio
del Leviticus Rabba, I, 14: «Tutti gli altri
profeti videro Iddio attraverso nove specchi
splendenti, ma Mosè lo vide in uno specchio
solo. Tutti gli altri profeti videro Iddio in
uno specchio sporco, ma Mosè lo vide in uno
specchio limpido». Il che significa che Mosè
ebbe una visione della Divinità più chiara ed
immediata di quella degli altri profeti.
E leggiamo altrove: «Mirate! Quando le anime
hanno raggiunto il tesoro di vita godono lo
splendore dello specchio brillante il cui fuoco
è nei cieli. Ed è tale la luce che ne emana che
le anime non potrebbero sopportarla se non
fossero coperte di una veste di luce. Anche Mosè
non poté avvicinarsi finché non si fu spogliato
del suo tegumento terrestre» (I, 66). E
ancora: «In una delle parti più misteriose ed
alte del cielo v'è un palazzo chiamato il
Palazzo d'amore. Profondi misteri vi si
compiono: ivi si raccolgono insieme tutte le
anime predilette del Re celeste; colà il Re dei
cieli, il Santissimo (ch'egli sia benedetto),
vive insieme con queste anime sante e si unisce
a loro con baci d'amore» (II, 97.
I rabbini del Talmud descrivevano il modo col
quale la morte sopravviene ai giusti come «morte
per un bacio». Lo Zohar definisce questo
«bacio» come «l'unione dell'anima con la Sua
radice» (I, 168). V'è dunque nello Zohar un
alto grado di ottimismo circa il destino
dell'anima.
Se la teologia delle scuole rabbiniche primitive
di Palestina e di Babilonia erra, a dire dei
critici, nel senso di fare del Giudaismo una
troppo rigida disciplina, una legge troppo
costrittiva basata sulla obbedienza esterna
piuttosto che sul sentimento interiore,
l'equilibrio è ristabilito dalla teologia dello
Zohar, che ammettendo l'anima, alla fine della
sua opera terrestre, a partecipare in così
grande misura all'amore divino, intensifica la
profonda spiritualità insita nel Giudaismo,
l'elemento emozionale che evoca in coloro i
quali mettono in pratica con rettitudine e
giusta proporzione i suoi insegnamenti. Essa
porta così una nuova luce nella vita dell'ebreo;
ispira in lui la convinzione che un alto destino
lo attende nell'al di là; fa ch'egli ammetta un
premio alla virtù, e lo incoraggia ad elevarsi
alle vette più sublimi dei valori morali e
religiosi. Finché la dottrina del divino amore
qual è formulata nello Zohar formerà parte
integrante del Giudaismo, questo non potrà mai
essere per il suo seguace un mero formalismo
senz'anima. Tale realtà è attestata dal seguente
brano dello Zohar:
«Quando Adamo nostro primo padre dimorava nel
giardino dell'Eden, era vestito, come lo sono
gli uomini in cielo, della luce divina. Quando
fu scacciato dal
Seder Gan Eden per fare l'ordinario lavoro
della terra, allora la Santa Scrittura ci dice
che "il Signore Iddio fece per Adamo e per sua
moglie vestiti di pelle, e li rivestì". Poiché,
fino allora, essi portavano vesti di luce, di
quella luce che appartiene all'Eden. Le buone
azioni dell'uomo sulla terra portano giù su di
lui una parte della luce più alta che illumina
il cielo. È questa luce che lo copre come una
veste quand'egli entra nel mondo futuro e appare
dinanzi al suo fattore, il Santissimo (ch'Egli
sia benedetto). Per mezzo di questo rivestimento
può gustare le gioie degli eletti e guardare in
faccia "lo specchio scintillante". E così
l'anima, allo scopo di diventare perfetta sotto
ogni aspetto, deve avere una veste diversa per
ciascuno dei due mondi che ha da abitare, l'una
per il mondo terrestre, e l'altra per il mondo
superiore» (II, 229).
Questa ridente concezione dell'anima è un
incitamento a più nobili sforzi, non solo per
l'ebreo come individuo, ma anche come unità di
una razza che, secondo la prescrizione delle
scritture, pregusta la sua più alta evoluzione
nell'arrivo di un Messia. Lo Zohar, in verità,
passa questo tema sotto relativo silenzio. Ma il
famoso Cabalista e mistico, Isaac Luria, che è
il principale interprete e commentatore dello
Zohar, e che portò molti dei suoi dogmi non
sviluppati alle loro logiche conclusioni, ha
elaborato questo punto in modo singolarmente
ingegnoso e originale. Egli propugna una
speciale teoria sulla trasmigrazione delle anime
ed insieme un concetto che può sembrare a taluni
molto simile all'insegnamento cristiano sulla
verità del peccato originale.
In armonia con lo Zohar, Luria sostiene che
l'uomo, per mezzo dell'anima sua, unisce il
mondo superiore a quello inferiore. Ma egli
afferma inoltre che con la creazione di Adamo
furono create allo stesso tempo tutte le anime
di tutte le razze del genere umano. Così come
esistono variazioni nelle qualità fisiche degli
uomini, vi sono variazioni corrispondenti nelle
anime loro. Vi sono quindi anime buone, anime
cattive ed anime che presentano tutte le
sfumature di valori che intercedono fra questi
due estremi.
Quando Adamo peccò, sorse confusione in tutte
queste classi di anime. Le buone si macchiarono
di un po' del male ch'era inerente alle anime
cattive, e queste ricevettero molte miscele di
bontà dalle anime superiori.
Ma che cosa provenne dagli strati inferiori di
anime? Secondo Luria, il mondo pagano. Israele
invece derivò dalle anime superiori. Tuttavia,
poiché le anime buone non sono completamente
tali, né assolutamente cattive le altre, per la
confusione che derivò dalla caduta di Adamo, ne
consegue che non vi può essere alcun bene
assoluto nel mondo. Qualche macchia di male si
ritrova sempre dappertutto. Una perfetta
condizione di cose si avrà soltanto coll'avvento
del Messia. Fino allora, perciò, tutte le anime,
macchiate di peccato, come inevitabilmente sono,
debbono, per mezzo di una catena di
trasmigrazioni dall'uno all'altro corpo,
liberarsi sempre più delle scorie che a loro
aderiscono, fino a raggiungere quel sommo di
purezza e di perfezione in cui, come Neshâmâh,
potranno ritrovare la via per tornare ad unirsi
con l'Infinita sorgente, l'Anima universale.
Per tale motivo l'individuo, intensificando lo
sviluppo della propria anima, promuove anche in
realtà il benessere collettivo della sua razza.
Dal bene o dal male dell'anima sua dipende il
bene o il male del popolo d'Israele.
Le argomentazioni del Luria, se riportate per
esteso, hanno in sé qualche cosa di decisamente
fantasioso. Tuttavia, che la sua conclusione sia
sana e valevole nessuno può metterlo in dubbio.
Egli incoraggia l'ebreo a perseguire un alto
ideale comune e nazionale. Gli ricorda altresì
la necessità imperiosa della solidarietà in
Israele. Poiché infatti l'israelita, fondandosi
su molti testi del Vecchio Testamento, ha sempre
sentito che il suo pensiero e l'opera sua non
debbono esser limitati a lui solo. La sua
preghiera si è sempre volta al bene d'Israele
piuttosto che al suo bene individuale.
Ciò ch'egli conta al cospetto di Dio come entità
separata è ben poco a confronto di quel che vale
come unità inseparabile del compatto corpo
israelitico. In questo sommergersi volontario ed
altruistico dei minori interessi della parte nei
più grandi interessi del tutto sta gran parte
del segreto della lunga teoria di santi, di
eroi, di martiri e di mistici d'Israele.