Il documento che segue è
opera d'ingegno di
©
Sergio Magaldi
La libera circolazione del documento in rete è subordinata alla citazione della fonte (completa di Link) e dell'autore.
Il tuo browser non supporta il tag embed per questo motivo non senti alcuna musica
In Archivio un altro documento:
Il senza Limiti
Nel suo stile stringato ed essenziale, il Sepher
Yeẓirah (1) costituisce per così dire il “nucleo metafisico”
della Qabalah. Il Sepher Yeẓirah si ispira al Ma'aseh Berešith
(2) della tradizione talmudica (3), essendo sostanzialmente un
commento del I° Capitolo del Genesi. Non c'è testo della
complessa letteratura cabalistica, dal Sepher Bahir (4) al
Sepher ha Zohar (5) che non ne abbia ripreso i concetti sotto
forma di commentari o di opere più originali. Ciò ha comportato
spesso uno stravolgimento di senso, con interpolazioni
dottrinarie suggerite dalle condizioni storiche e ambientali,
senza riuscire, tuttavia, ad intaccare quello che appare come il
nucleo essenziale della Qabalah. Guardando a questo nucleo e ai
suoi svolgimenti più maturi contenuti nello Zohar, ci si accorge
dell'infondatezza della tesi condivisa da autorevoli studiosi
contemporanei quali, per esempio, Gershom Scholem e Isaia Tishby.
La tesi è quella di una sostanziale ispirazione della Qabalah
ora al pensiero mitopoietico degli gnostici ora al
neoplatonismo, con conseguente allontanamento dalla più
autentica tradizione ebraica, fondata sulla Torah (6) e sul
Talmud. Esaminerò il Sepher Yeẓirah o 'Libro della formazione'
senza tuttavia avere la pretesa di tentarne una trattazione ben
più ampia di quella che ci si propone in tale contesto.
“L’indicibile”, colui del quale non è dato pronunciare il nome,
neppure nella forma del tetragramma (7), ha creato tutto con il
numero, con la lettera e con la parola (8). Egli ha innanzi
tutto creato le condizioni del molteplice che si fonda sui primi
dieci numeri. Sephiroth (9) o numeri “beli-mah”(10) cioè
autosufficienti per produrre il molteplice e l'uno viene
dall'altro ma è in sé autosufficiente. Il dieci è l'ultima delle
condizioni possibili del molteplice. In realtà, tali condizioni
sono già esaurite con il numero nove, il dieci altro non essendo
che la riproposizione dell'unità colta non più come unità di
misura - fonte di ogni possibile numero - bensì come la forma
estrema in cui è dato cogliere il molteplice. Non a caso, nel
dieci, all'uno si affianca lo zero, cioè il termine delle
possibili radici della molteplicità. D’altra parte, dopo il
dieci noi possiamo seguitare a contare all’infinito, perché
infinito è il molteplice, anche se le forme della
manife-stazione sono finite: i numeri che servono per contare
all'infinito sono solo i primi dieci e nel numero dieci, insieme
alla riproposizione dell'unità, appare lo zero come
nullificazione contin-gente dei fenomeni. Lo zero-nulla, dunque,
non e il presupposto dell’esserci dell'Essere, perché, al
contrario, è a partire dall'Essere che il nulla può
manifestarsi, almeno a quanto è dato saperne.
Se entro in una stanza e dico: 'Non c’è nessuno' è perché mi
aspetto di trovarci qualcuno e, invece, proprio sullo sfondo di
chi dovrebbe esserci, mi si manifesta la negazione come
nullificazione contingente della presenza. In un certo senso,
allora, il nulla è contenuto nell'essere come possibilità
contingente del suo manifestarsi. Il concetto si trova espresso
in L'être et le néant di Jean Paul Sartre:
“[...] il non-essere non è il contrario dell'essere, è la sua
contraddizione. Ciò implica una posterità logica del nulla nei
confronti dell'essere, perché esso è l'essere prima posto, poi
negato” (op.cit., trad.it., I1 Saggiatore, Milano, 1964,
p.50).
La polemica di Sartre è soprattutto diretta contro Hegel per il
quale il puro essere e il puro nulla coincidono, la concretezza
risiedendo nel divenire. Hegel - osserva Sartre - non solo
difende Eraclito contro Parmenide, ma implicitamente combatte
tutti coloro che fanno del nulla il vuoto dell’essere. Di contro
a Parmenide e agli eleatici, Hegel sostiene che è impossibile
che l'essere sia. Il puro essere è l'indeterminato e come tale
non è che vuota astrazione, astrazione, d'altronde, è anche il
puro nulla. La soluzione di Hegel non solo non è diversa da
quella di Eraclito, ma ricorda anche le conclusioni paradossali
del sofista Gorgia per il quale non solo non esiste il
non-essere, ma non esiste neppure l'essere (Cfr., I Sofisti,
frammenti e testimonianze, Laterza 2.a ed., Bari,1954, pp.57 e
ss.). Vale forse la pena di riportare di seguito il noto passo
hegeliano della Scienza della Logica (Laterza, Bari, I968, t.I,Lib.I,Sez.I,cap.I,
pp. 70-7I):
“A) ESSERE. Essere, puro essere, senza nessun'altra
determinazione. Nella sua indeterminata immediatezza esso è
simile soltanto a se stesso, ed anche non dissimile di fronte ad
altro; non ha alcuna diversità né dentro di sé, né all’esterno.
Con qualche determinazione o contenuto, che fosse diverso da
lui, o per cui esso fosse posto come diverso da un altro,
l'essere non sarebbe fissato nella sua purezza. Esso è la pura
indeterminatezza e il puro vuoto.
Nell'essere non v'è nulla da intuire, se qui si può parlare di
intuire, ovvero esso è questo puro, vuoto intuire stesso. Così
non vi è nemmeno qualcosa da pensare, ovvero l'essere non è,
anche qui, che questo vuoto pensare. L'essere, l'indeterminato
immediato, nel fatto è n u l l a né più né meno che nulla.
B) NULLA. Nulla, il puro nulla. È semplice somiglianza
con sé, completa vuotezza, assenza di determinazione e di
contenuto; indistinzione in se stesso. - Per quanto si può qui
parlare di un intuire o di un pensare, si considera come
differente, che s'intuisca o si pensi qualcosa oppure nulla.
Intuire o pensare nulla, ha dunque un significato. I due si
distinguono; dunque il nulla è (esiste) nel nostro intuire o
pensare, o piuttosto è lo stesso vuoto intuire o pensare ch'era
il puro essere, - Il nulla è così la stessa determinazione o
meglio assenza di determinazione, è però in generale lo stesso
che il puro essere.
C) DIVENIRE. Unità di essere e nulla. Il puro essere e il
puro nulla son dunque lo stesso. Il vero non è né l'essere
né il nulla, ma che l'essere - non passa - ma è passato, nel
nulla, e il nulla nell'essere. In pari tempo però il vero non è
la loro differenza, la loro indistinzione, ma è anzi ch’essi non
son lo stesso, ch'essi sono assolutamente diversi, ma insieme
anche inseparati e inseparabili, e che immediatamente ciascuno
di essi sparisce nel suo opposto. La verità dell'essere e del
nulla è pertanto questo movimento consistente nell’immediato
sparire dell'uno di essi nell’altro: il divenire : movimento in
cui l'essere e il nulla son differenti, ma di una differenza che
si è in pari tempo immediatamente risoluta”.
In conclusione, dunque, per Sartre non solo essere e nulla non
coincidono ma c’è addirittura una priorità ontica dell'essere
sul nulla. Non si può porre, dunque, il nulla come “l'abisso
originario donde l'essere nascerebbe” (cit.p.51). Interessante
notare che L'être et le néant di Sartre appare per la prima
volta in libreria nel 1945 circondato di una fascia
pubblicitaria sulla quale era scritto: Ce qui compte dans un
vase, c'est le vide du milieu (“Ciò che conta in un vaso, è il
vuoto del mezzo”). L'espressione è in realtà di Lao Tze e la
troviamo nel Tao-Tê-Ching: “Trenta raggi convergono nel mezzo.
Ma è il vuoto del mozzo l'essenziale della ruota. I vasi son
fatti di argilla. Ma è il vuoto interno che fa l'essenza del
vaso. Mura con finestre e porte formano una casa. Ma è il vuoto
di essi che ne fa l’essenza. In genere: l'essere serve come
mezzo utile. Nel non-essere (nel vuoto) sta l'essenza” (Cfr.Lao
Tze, Il libro del principio e della sua azione, trad.it.,Ceschina,
Milano, I959, p.62). Per Sartre 'questo vuoto' è l'uomo, il solo
che, nella sua libertà, è in grado di interrogarsi sull'essere
al di dentro dell'essere stesso. L'ontologia di Sartre, del
resto, segue da presso l'ontolo-gia di Heidegger. In Was ist
Metaphysik? (Frankfurt, l929), il filosofo tedesco si occupa
principalmente del problema del nulla e dell'analisi
dell'angoscia rivelatrice di questo nulla: il nulla non è il di
fuori dell'essere, ma la condizione che rende possibile, al di
dentro dell'essere, la rivelazione dell'essere stesso. In
Einfuhrung in die Metaphysik (Tubingen, I953), scritto che
racco-glie le lezioni tenute presso l'Università di Friburgo nel
I935, il filosofo tedesco traccia in quattro capitoli la storia
della metafisica, rilevando come la metafisica classica,
tralasciando deliberatamente il problema del nulla con la
motivazione che il nulla n o n è semplicemente, abbia finito con
l'occuparsi esclusivamente di ciò che è, snaturando il problema
dell'essere in generale, sino a determinarne gradatamente
l'oblio e facendo dell'essere niente altro che una nozione ovvia
e una parola vuota. Questo oblio del senso dell'essere
costituisce il nostro destino e si comprende alla luce del
nostro essere nel mondo: l'essere umano non è altro che
un'apertura in direzione di tutto ciò che è. Come si vede,
Sartre, pur partendo dai presupposti della metafisica orientale
(taoismo), perviene, rovesciando il senso dell'affermazione di
Lao Tze, alle conclusioni della metafisica occidentale
(eleatismo).
Quando parliamo del nulla, dunque, lo facciamo sempre con
riferimento all’esperienza sensibile dell’assenza, della
mancanza, dell'annientamento. Di esso possiamo dire soltanto che
rappresenta una breve interruzione nel flusso dell’essere:
quella stanza che ho trovato vuota, presto tornerà ad animarsi
di presenze. Di un altro nulla, non siamo autorizzati a parlare,
perché non ne sappiamo niente e, di tutto ciò che non si sa,
conviene tacere - ammonisce Wittgenstein - (11). Ecco, persino
quando dico: “del nulla non so niente”, mi accorgo come il nulla
si riveli alla superficie dell'essere: non so nulla, cioè, di
ciò che dovrei sapere. A tale proposito molto chiaramente si
esprime lo Yeẓirah: “E prima dell'uno che numero puoi tu
contare?” (12), si chiede polemicamente al presuntuoso lettore
che intendesse iniziare a contare dallo zero. In conclusione,
dunque, lo zero-nulla non è né fine né principio. In successivi
testi cabalistici questo zero-nulla diviene l’ “En” di “En-Soph
”, concetto, questo, spesso erroneamente assimilato all'
“Apeiron” di Anassimandro. In realtà, l’a-peiron del pensatore
ionico è il “senza-limite”, dall'alfa privativo greco che indica
la negazione, ed esprime il caos originario della materia, la
mescolanza primigenia di tutte le cose. L’"En" ebraico, composto
dalle lettere Alef-Yud-Nun, invece, non è privativo di qualità
ma di luogo: “En-Soph” indica perciò l'impossibilità di cogliere
l'origine e il fine, oltre ciò che è manifesto (il 'fenomeno'
kantiano), e ha solo la funzione di far desistere il pensiero
dalla pretesa prometeica di voler essere dappertutto e tutto
risolvere in se stesso. “En-Soph” nel suo significato originario
ed essenziale ricorda il 'noumeno' di Kant. La fine è
impossibile da cogliere: i fenomeni che derivano dai primi dieci
numeri sono infiniti. Il principio è ugualmente fuori portata.
Non solo perché non è lecito iniziare a contare dallo zero, ma
anche perché, come vedremo più avanti, 'In principio è il due'.
Il Sepher Yeẓirah esprime questo concetto in tre punti: “Dieci
Sephiroth beli mah, la loro qualità è dieci e non hanno fine”
(13). “Dieci Sephiroth beli mah, il loro aspetto e l’aspetto
della folgore e la loro direzione non ha fine” (14). “Dieci
Sephiroth beli mah”, è insita la loro fine nel loro principio ed
il loro principio nella loro fine” (15).
La letteratura cabalistica ha finito talora col sostanzializzare
la semplice impossibilità logica di cogliere la fine e il
principio, sostenuta nel primo capitolo del Sepher Yeẓirah.
Così facendo, ha facilitato l'interpretazione gnostica e
dualistica della Qabalah. Da una parte 'En-Soph' divenuto il
‘Deus abscondidus', dall'altra il Demiurgo dell'universo, oppure
ha reso possibile l'interpretazione neoplatonica del pensiero
cabalistico: ‘En-Soph’ diventa l'ineffabile Uno di Plotino e si
svela mediante l'estasi o, meglio, si rivela a chi, librandosi
sul fango della materia e ripercorrendo a ritroso il cammino
emanativo, giunge infine a immedesimarsi con Lui:
“Tutti gli uomini sin dalla nascita fanno uso dei sensi prima
che dell'intelletto e incontrando, dapprima, di necessità le
cose sensibili, gli uni, fermi in esse, trascorrono la loro vita
nelle credenze che esse siano le prime e le ultime cose, e
sostengono che quanto v’è in esse di doloroso e di piacevole,
sia rispettivamente il male e il bene: così, pensando di averne
abbastanza passano la vita perseguendo l'uno o l'altro, lontani
dal loro tetto. E chi tra loro si atteggia a filosofo pre-tende
persino che sia qui la sapienza. Somiglian, costoro, ad uccelli
pesanti e che hanno preso molto dalla terra, e, appesantiti
così, non riescono a volare in alto, per quanto dotati di ali
dalla natura. Altri si sollevano un po’ dalla bassura, perché la
parte più nobile dell'anima loro li sospinge dal piacere alla
bellezza; ma poiché non riescono a vedere le altezze, privi di
altro sostegno cui appoggiarsi, precipitano in basso, insieme
con la loro decantata 'virtù’ dell'agire pratico, cioè alla
scelta, tra le cose vili e basse donde prima avevano tentato di
sollevarsi.
V’è, infine, una terza schiera: uomini divini di più forte
vigore e di sguardo più acuto che san vedere, come per suprema
intensità visiva, lo splendore superno, e s'innalzano fin lassù,
quasi al di sopra delle nubi, e deliziandosi di quel luogo, bene
verace e avito; come un uomo che dopo vagabondaggio abbia fatto
ritorno alla patria sua retta da buone leggi.” [Plotino,
Enneadi, V.9.I. , trad.it. di V.Cilento].
Lo Scholem, al quale va peraltro riconosciuto gran merito negli
studi cabalistici, ha oscillato tra le due interpretazioni.
Nello scritto del 1941, Le grandi correnti della mistica
ebraica, identifica esplicitamente 'En-Soph' con il 'Dio
nascosto’. In Origini della Kabbalah del ‘62, pur non
tralasciando di sottolineare, soprattutto nell'analisi del
Sepher ha Bahir, le influenze gnostiche sul corpo della Qabalah,
sembra inclinare verso un’interpretazione in chiave neoplatonica
di 'En-Soph'.
Se, nell'intento di verificare quel 'nucleo essenziale’ della
Qabalah, di cui si parlava sopra, esaminiamo ora lo Zohar, ci
accorgiamo che il significato dato dallo Yeẓirah a un concetto
ancora embrionale di 'En-Soph', non ne risulta affatto
stravolto, ma addirittura rafforzato: “En-Soph, infinito: in lui
non c'è alcuna apertura, ogni interrogativo è vano, come ogni
idea per le possibilità dal pensiero” (16). Più avanti
‘En-Soph,’ è detto “Chiusura inaccessibile e sconosciuta [...]
resiste ad ogni possibile conoscenza e non se ne può fare né una
fine né un principio” (17). C'è di più: non solo 'En-Soph' non è
il principio, non lo è neanche l’uno. Il principio è il due,
come attesta la nostra esperienza, come sostenevano gli antichi
pitagorici, com’è scritto nello Zohar:
“E’ scritto: ‘In principio’ (Berešith), ma è la lettera behth
che si trova all’inizio, ella che è il due, la seconda lettera
dell'alfabeto. Perché il due e chiamato 'principio’, allorché la
Corona suprema (l'uno), benché sia la prima, si ritrae. Poiché
ella non si mette in Questione, è il due che è il principio’”
(18). La spiegazione rimanda alle prime parole del Genesi, come
chiarisce un altro passo dello Zohar: “In principio. Rabbi
Amnouna l'anziano disse: incontriamo nelle prime parole del
Genesi una inversione nell'ordine alfabetico delle lettere:
prima una behth seguita da un'altra behth in 'Berešith barah'
('In principio creò'), poi soltanto una Áleph seguita da
un'altra Áleph in 'Élohïm-eth’ ('Il Signore') ”(19).
Il racconto del Rabbi Amnouna prosegue poi con la storia assai
nota delle ventidue lettere che, cominciando dall'ultima, la Taw,
si presentano davanti al Signore per chiedergli di cominciare la
creazione a partire da ognuna di loro. Il Signore, sottolineando
vizi e virtù di ciascuna, le respinge benevolmente una dopo
l'altra, finché non si presenta la behth, che viene, infine,
prescelta per dare inizio alla creazione del mondo. Unica
lettera a non presentarsi è Áleph, allora il Signore così le si
rivolge:
“Áleph, Áleph perché non ti presenti davanti a me come tutte le
altre lettere? La Áleph rispose: Signore dell'universo, ho visto
tutte le lettere comparirti davanti senza alcun risultato,
dovrei fare anch'io la stessa cosa? Inoltre tu hai già accordato
questo dono prezioso alla lettera beth, e, certo, non conviene
al Re supremo di ritirare il dono che ha appena fatto a un
servitore per accordarlo a un altro servitore. Il Santo,
benedetto egli sia, così le rispose: Áleph, Áleph, anche se
creerò il mondo con la lettera behth, tu sarai la prima di tutte
le lettere dell'alfabeto. Io non avrò unità che in te, tu sarai
il coronamento di tutti i disegni e di tutte le opere del mondo.
Ogni unificazione risiederà unicamente nella lettera Áleph”
(20).
La stessa narrazione si incontra in un altro testo della
letteratura zoharica, il Midrash-ha-Ne'elam su Ruth. Il racconto
è più o meno lo stesso, più sintetico dell'altro ci permette
tuttavia, di apprendere altre 'qualità' di ciascuna delle
lettere dell'alfabeto “sacro” (21). Differisce solo nel finale,
allorché il Signore dice ad Áleph: “Attraverso te io mi esalterò
quando il mio nome sarà reso con te, Uno.” (22).
Dall'esame dei passi citati emergono due considerazioni
essenziali. La prima è che ‘in principio’ è il due. Non a caso,
le lettere del tetragramma corrispondono rispettivamente alla
seconda, alla terza, alla sesta e alla decima sephirâ: Yud-
H'cmâ, il padre; He-Binâ, la madre; Waw-Thiphereth, il figlio;
seconda He-Malcouth, la figlia o la sposa (23). La seconda
considerazione, di non minore importanza, è che l'uno in sé è
'En'-Nulla. Ciò che noi conosciamo, infatti, non è l'uno, ma
l'unificato, il coronamento. L'estasi plotiniana che di fatto
implica l'assimilazione nell'Uno è per principio fuori portata.
Proprio perché in principio è il due, l'uno possiamo conoscerlo
solo unificando la diade. Tale unificazione è possibile grazie a
un elemento in grado di equilibrare ciascun polo della diade: il
tre, come ancora ci mostra un passo dello Zohar:
“Tre sorge dall'uno, l'uno nel tre prende consistenza: egli
penetra in due e due abbevera l'uno, l'uno abbevera la
molteplicità, allora tutto è uno. Com'è scritto: ‘Fu sera, fu
mattina, un solo giorno’ (Genesi I-1). Giorno, dove sera e
mattina si abbracciano nell'unità: questo è il segreto
dell'alleanza tra il giorno e la notte, e in lui tutto è uno.”
(24).
E ancora: in Binâ, la terza sephirâ (il tre), che è composta
dalle lettere Behth, Yud, Nun, He' , c'è il principio (Behth),
il padre (Yud), la madre (He). La lettera Nun, tra lo Yud e la
He, rappresenta allora l'equilibrio tra i due, tra il padre e la
madre, il maschio e la femmina.
In conclusione, dunque, l'uno, per ciò che si rivela è due, per
ciò che si conosce è tre, per ciò che si ritira è il nulla e si
rivolge verso 'En-Soph'. In un commento del Sepher Yeẓirah,
Isacco il cieco, il grande maestro cabalista vissuto tra il XIl
e il XIlI secolo, elimina 'En-Soph' da ogni speculazione del
mistico e si rivolge verso la Corona o Kether, prima sephirâ,
che chiama 'En-Soph’ e alla quale dichiara che intende
abbeverarsi (25). In tale contesto, 'En-Soph', lungi dall'essere
il 'Deus abscondidus’ o l’Uno dell'estasi plotiniana, altro non
è che la pensabilità della negazione della fine e del principio.
Così, se l'uno, come tale, si ritrae, e se non è possibile
alcuna speculazione su 'En-Soph’, non resta che aspirare
all'unificazione; cogliere, cioè, l'uno nella sola forma in cui
si rivela, nell'unificato. Si comprende allora come
l'unificazione più alta sia quella tra l’uomo e la donna, la
diade originaria, il principio. Si comprendono, altresì, nella
tradizione ebraica, sacralità e fortuna dello Shirah- Shirim o
“Cantico dei Cantici”.
Al di là delle molteplici chiavi interpretative del Cantico
(26), se utilizziamo il 'Pardes' (27), otteniamo quattro
possibili modalità di lettura di questo testo, con riferimento
alla Qabalah e all'albero sephirotico: Pesah, o interpretazione
letterale, per una rappresentazione dell'unione dell'uomo e
della donna, del re e della regina (Thiphereth - Malcouth)
mediante i tabernacoli, cioè mediante gli organi sessuali (Yesod);
Remez, o interpretazione allegorica, per simboleggiare l'unione
completa di Thiphereth e di Malcouth attraverso tutte le membra,
cioè per mezzo dei cinque Sephiroth del piano inferiore; Derash,
o interpretazione anagogica, a significare un’ascesa, mediante
l'unificazione dei Sephiroth del piano inferiore con Binâ e
H'cmâ, sino alla conoscenza superiore di Da'ath (28); Sod, o
interpretazione segreta, per elevarsi nella direzione di
‘En-Soph’ tramite la triade superiore Binâ-H'cmâ -Kether. Sod e
'segreto indicibile' proprio perché attiene ai rapporti di Binâ
e di H'cmâ con la Corona (Kether), con quell'uno che si ritrae
in 'En-Soph' e si rivela in H'cmâ, cioè nella diade come
principio. Si legge, in un passo dello Zohar, a proposito
dell'unione tra l'uomo e la donna: “Qui la donna si unisce al
suo sposo. E quando si siano stretti l'un l'altro in un
abbraccio, allora bisogna che le loro membra siano aderenti e i
loro tabernacoli congiunti, come se fossero uno, e che la loro
comunione si diffonda in ogni parte di loro secondo il desiderio
del cuore, per potersi elevare nella direzione di 'En-Soph',
affinché tutto si unisca laggiù per fare di quelli dell'alto e
di quelli del basso un desiderio solo”.
Cosa s’intende con “essere come uno” e con l’elevarsi nella
direzione di 'En-Soph'? Essere come uno non significa divenire
uno, bensì cogliersi nella diade originaria o principio.
Elevarsi nella direzione di 'En-Soph' non significa
partecipazione mistica della medesimezza con l'uno, bensì
l'intenzione verso quella “trascendenza indicibile”, pensabile
solo come negazione del principio e della fine, allorché si
realizzi l'uno nella sola forma possibile, quella
dell’unificato. Si spiega, così, perché nel Sanhedrin talmudico
è scritto che “colui che legge un versetto del Cantico dei
Cantici e lo considera come un canto erotico, attira la sciagura
sul mondo” (29). Altrettanto errato è fare dell'unione dell'uomo
e della donna una sorta di ierogamia finalizzata alla
dissoluzione della diade nell'androgino originario, archetipo
antropomorfico dell'Uno-Dio. La sacralità dell'unione tra l'uomo
e la donna è altrove, è nella riproposizione senza limiti del
principio e della fine. Del principio che è due (il 'Berešith
Bara Élohïm' del Genesi) e della fine che, ogni volta, torna ad
essere principio. Altrimenti detto, quando l'uomo e la donna si
uniscono il principio e la fine sono sempre altrove, non lì dove
ci aspetteremmo di trovarli, sono En-Soph. La trascendenza è
sempre al di là, come ‘indicibile lontananza’ si offre alla
‘Kavanah’ (intenzione) e alla ‘Devekùth’ (comunione) attraverso
l'unificazione dei Sephiroth. Scrive in proposito lo Scholem:
“Devekùth non è dunque ‘unio’, ma ‘communio’. Nel senso che il
temine ha nel vocabolario dei cabalisti, esso richiede sempre,
malgrado il suo carattere d'intimità, un elemento di distanza.
La "Kavanah" è lo strumento di questo processo. Isacco e i suoi
allievi non parlano di un'estasi, di un atto unico che fa uscire
da se stessi, nel quale si annulla la coscienza umana. La
‘Devekùth’ non consiste nel penetrare impetuosamente in Dio e
nell' assorbirsi in lui; è uno stato costante, che s'alimenta
con la meditazione e che per mezzo suo si rinnova.
Contrariamente a numerose altre scuole più recenti, quella degli
antichi cabalisti non è andata più lontano; in ciò essa non
rinnega per niente il suo carattere teista-ebraico” (30).
Non a caso Hegel rivendica il primato della religione cristiana
su quella ebraica, facendo di Cristo il simbolo della mediazione
tra l'umano e il divino che, nell'ebraismo, rimane, a suo
giudizio, irrisolta. Non partecipe della natura divina, l'uomo
Mosè sottolinea, al contrario, l'infinita distanza che c'è tra
l'uomo e Dio, la sua stessa pretesa di contemplare Dio 'faccia a
faccia' è destinata allo scacco. Hegel, tutto intento a seguire
il cammino dello Spirito nella storia e nel destino
dell'Occidente, non ha visto ciò che, a mio giudizio, è invece
peculiare e forse esclusivo della religione ebraica: la capacità
di riuscire a dispiegare la ragione sino alle sue estreme
conseguenze, lasciando intatto ‘il distante’, quella
trascendenza indicibile che rifiuta di arrendersi alle
aspirazioni prometeiche del pensiero.
Ne consegue che, nella tradizione ebraico-cabalistica, l’unica
modalità di rapportarsi all’Uno è l’Unificato e che questa
unificazione è possibile attraverso l’unione dell’uomo e della
donna, la preghiera, la meditazione e lo studio [Ma’asè Merkabah,
‘Opera del Carro’ e Ma’asè Berešith, ‘Opera della Creazione’].
“In principio è il due”: di qui derivano notevoli implicazioni
di carattere ontologico. Se la donna è nel principio, così come
l'uomo, non c’è nessun primato che l'uomo possa rivendicare
sulla donna. Neppure c'è, d'altra parte, un primato femminile,
perché, se è vero - come sostengono i testi cabalistici - che la
donna è ‘la sorgente del desiderio’ che permette di realizzare
l'uno nella forma dell'unificato, è altrettanto vero che occorre
un 'desiderante' che si abbeveri a quella sorgente affinché si
realizzi la comunione e, con essa, quel desiderio del cuore che
si eleva nella direzione di ‘En-Soph’.
Nella dualità maschio-femmina è contenuto il dualismo di tutto
ciò che è. L’essere, dunque, non è “la pura indeterminatezza e
il puro vuoto”, contrapposto e tuttavia identico al nulla e
neppure insieme al nulla è destinato a scomparire nella
concretezza del divenire [Hegel]. L’Essere non è il noumeno
contrapposto al fenomeno [Kant], né l’eterno e immobile presente
[Parmenide]. Il nulla come interrogazione sull’essere al di
dentro dell’essere stesso [Sartre] o come trascendenza
imperscrutabile [Qabalah] non si contrappone all’essere ma ne è
la naturale conseguenza. In altre parole, l’essere è la
manifestazione della dualità, ma la polarità non è rappresentata
dal nulla, perché il nulla è semplicemente contenuto in lui e/o
è fuori di lui come ciò che non può essere detto ma che può
essere pensato nella forma dell’unità. L’errore delle religioni
è quello di dare voce a questo uno-nulla, di per sé indicibile.
Ecco perché la Qabalah storica delle origini [Isacco il Cieco],
pur ispirandosi al monoteismo ebraico, raccomanda di tenersi
lontano dalle speculazioni su En-Soph, inteso come Unità e Nulla
Infinito. La dualità della Manifestazione [il solo Essere che ci
è dato conoscere] non può essere ricomposta semplicemente
annullando le differenze della dualità radicale, nell’illusione
che ci spinge a saltare il fosso nel tentativo impossibile di
incontrare l’Uno. Né, d’altra parte, tale dualità può essere
accettata fatalmente, al modo degli gnostici, come inevitabile
conseguenza del nostro essere nel mondo. Il lavoro per l’essere
umano sembra piuttosto quello di unificare ciò che è diviso, con
la consapevolezza - come ammonisce lo Zohar - di poter conoscere
l’Uno nella sola forma possibile che è quella dell’Unificato.
(1) Libro della Creazione. Per
la bibliografia e per la data di composizione che, secondo gli
studiosi, oscilla tra il Il e il VI secolo d.G. , cfr.
G.C.Scholem Le Origini della Kabbalà, Bologna,1990, pp.32-44.
Per i contenuti si rinvia allo stesso volume nonché a G.C.
Scholem, La Cabala, Roma,1989, pp.14, 30-61,70-72, 96, 101 e ss.
(2) Opera della Creazione. Cosmologia mistica dell'epoca della
creazione il cui insegnamento era riservato solo a pochi eletti.
(3) Talmud , “insegnamento”. Raccolta enciclopedica della
tradizione giudaica, compilata durante un periodo di circa
ottocento anni, dal 300 a.C. al 500 d.C. , in Palestina e in
Babilonia. Si compo-ne di norme legali (Halakhah) e di materiale
narrativo di vario genere (Haggadah).
(4) Libro Fulgido. Opera che secondo molti autori rovescia la
tesi dello Scholem circa la derivazione della tradizione
ebraico-cabalistica dallo Gnosticismo, testimoniando piuttosto
come il pensiero gnostico nasca dalle “sette ebree” [Esseni,
Samaritani, Elkesaiti ecc…] che si distaccarono dall’ebraismo
con violente polemiche.
(5) Libro dello Splendore. Opera centrale e vastissima della
letteratura cabalistica. Si compone di 24 sezioni e di pagine
sciolte.
(6) La tradizione distingue una Torah scritta formata dai libri
del Pentateuco [Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio]
da una Torah orale tramandata dalla “ecclesia” di Israele come
necessaria integrazione e concretizzazione della Torah scritta.
(7) Indicibile nome di Dio nella manifestazione. Si compone
della decima, quinta, sesta e ancora quinta delle lettere
dell’alfabeto ebraico.
(8) Cfr., Sepher Yeẓirah, cap.I-1°
(9) Tradotto spesso con “emanazioni”, facendolo derivare dal
greco. Ciò che confermerebbe l'influenza del neoplatonismo sulla
Qabalah. In realtà il termine viene dall’ebraico “sphr”,
contare. Cfr. Sepher Yeẓirah, a cura di G.Toaff, Carucci, Roma,
1988, Cap. 1-2, p. 34, nota 5.
La letteratura cabalistica colloca i dieci Sephiroth sui tre
pilastri dell'albero della vita. Ad ogni sephirâ o forma del
molteplice è attribuito un nome.
(10) Nel significato letterale, dall'ebraico beli, senza, e mah,
cosa. È un chiaro riferimento all'astrattezza dei Sephiroth, al
loro essere mere forme e niente altro.
(11) 'Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò, di cui non
si può parlare, si deve tacere'. (Cfr.L.Wittgenstein, Tractatus
logico-philosophicus, cap.I )
(12) Sepher Yeẓirah, cit., cap.1-7, p.39, nota 20 compresa
(13) Ibid., cap. 1-5, p.37
(14) Ibid., cap. 1-6, p.38
(15) Ibid., cap. 1-7, p.39
(16) Sepher ha Zohar, cit., I, 2Ia. La
traduzione del brano, come degli altri che seguono, è mia.
(17) Ibid., Il,239a
(18) Ibid., I,31b
(19) Ibid., I,2b
(20) Ibid., I-3a
(21) La tradizione attesta della sacralità attribuita a gran
parte degli alfabeti antichi, in quanto si riteneva che la
divinità avesse creato il mondo con la parola. Le lettere erano
lo strumento per trasmettere la conoscenza della realtà. Nella
tradizione indiana, la dea Kâlì è rappresentata con una collana
di teschi, ciascuno a simboleggiare una lettera dell'alfabeto
sanscrito; cioè, la totalità delle conoscenze da trasmettere
agli uomini nel corso della loro esistenza. Per certi aspetti,
la dea Kâlì ricorda la sephirâ Binâ e il Kronos-Saturno della
tradizione occidentale.
(22) Midrash-ha-Neelam,88d
(23) Midrash-ha-Heelam,75a; Idra Zuta Qadusha, Zohar IlI,291a
(24) Zohar, I-32a
(25) G. Scholem, Le Origini della Kabbala, cit., cfr.,
soprattutto le pp.336-340
(26) Per l'interpretazione di senso alchemico dello
Shirah-Shirin, oltre alla vasta letteratura sull'argomento,
cfr., soprattutto: Cantico dei Cantici, I-5, I-6, Il-4, Il-7,
Il-I2, IlI-1, IlI-6, IV-16, V-9, V-14, VI-7, VIlI-4, VIlI-8. Per
l'interpretazione cabalistica occorre riferirsi all'intero corpo
della letteratura zoharica. Per una prima introduzione, cfr.
Zohar, ed.cit.,vol.I,t.Il,p.I28, note 456-7; p.I7I,n.22; p.I72,
nn.29-30; p.246,n.40; p.274,n.204; p.328,n.257;p. 394,n. 876;
p.395,nn.877 e 880; p.396,n.895; p.429,nn.98-9; p.49I,n.35
(27) 'Pardes' si compone delle iniziali delle parole Pesah (Phe
– Šin -Taw), Remez (Reš – Mem - Zàyin), Derash (Dàleth - Reš
-Šin) e Sod (Sàmekh - Waw - Dàleth) = PRDS. Com’è noto,
nell'alfabeto ebraico, mancano le lettere per le vocali,
introdotte, sotto forma di punti e lineette, solo verso il
VIl-sec. d.C. dai ‘naqdanim' o 'puntatori' allo scopo di
facilitare la lettura dei libri sacri. 'Pardes' è dunque 'Notarikon'
di quattro parole. Il ‘Notarikon’ fa parte, insieme alla 'ghimatriah'
(valore numerico delle parole) e alla 'Themurah' (permutazione
delle lettere), della Qabalah cosiddetta letterale e consiste,
come abbiamo visto, nel formare una nuova parola con le iniziali
di altre parole. Oltre alla Qabalah letterale, si suole
distinguere una Qabalah dogmatica, una Qabalah pratica e una
Qabalah orale.
(28) Da'ath-Conoscenza, sephirâ occulta. Si trova nella colonna
centrale, nascosta tra i Sephiroth Thiphereth e Kether
(29) Cfr. Rabbi Issa’char Baer, Commentaire sur le Cantique des
Cantiques, 1979, p.10
(30) Cfr. G. Scholem, Le Origini della Kabbah, cit., p.374
|