Agostino Depretis L'Uomo |
A fine agosto nel 1887 la "Rivista della Massoneria Italiana" pubblicò lo "stato di servizio massonico dell'Illustre Fratello Agostino Depretis 33°" morto a Stradella il 29 luglio dello stesso anno. Iniziato nella R.L. "Dante Alighieri" di Torino il 22 dicembre 1864, promosso Compagno e Maestro il 21 gennaio 1865, secondo l'informata rivista ufficiosa del Grande Oriente d'Italia, su proposta dei massone generale Federico Pescetto, il 21 gennaio 1868 Depretis venne affiliato alla "Universo", all'Oriente di Firenze, che raccoglieva un cospicuo numero di parlamentari e notabili in quegli anni durante i quali la capitale del regno era "parcheggiata" sulle rive dell'Arno in attesa dei riscatto di Roma. Le notizie su Agostino Depretis sono tratte da "Hiram" n. 11 - novembre 1987 - Editrice Società Erasmo da un articolo a firma di A. A. M.
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A fine agosto nel 1887 la "Rivista della Massoneria Italiana" pubblicò lo "stato di servizio massonico dell'Illustre Fratello Agostino Depretis 33°" morto a Stradella il 29 luglio dello stesso anno.(1) Iniziato nella R.L. "Dante Alighieri" di Torino il 22 dicembre 1864, promosso Compagno e Maestro il 21 gennaio 1865, secondo l'informata rivista ufficiosa del Grande Oriente d'Italia, su proposta dei massone generale Federico Pescetto, il 21 gennaio 1868 Depretis venne affiliato alla "Universo", all'Oriente di Firenze, che raccoglieva un cospicuo numero di parlamentari e notabili in quegli anni durante i quali la capitale del regno era "parcheggiata" sulle rive dell'Arno in attesa dei riscatto di Roma. Incorporato in un'Officina di Rito Scozzese Antico e Accettato, Depretis percorse la scala rituale sino al conferimento del grado di 33°, il 14 gennaio 1877. Nel 1882 venne incluso nel Supremo Consiglio del Rito, presieduto da Tamaio e nel quale figuravano Giuseppe Petroni, Giuseppe Garibaldi, Federico Campanella, Ariodante Fabretti, Adriano Lemmi, Giovanni Nicotera, Camillo Finocchiaro Aprile, Antonio Mordini, Luigi Orlando, Luigi Castellazzo e altri insigni protagonisti delle battaglie risorgimentali. Di certo Depretis fu tra i più autorevoli massoni presenti all'Assemblea Costituente dell'Ordine tenuta a Firenze nel 1869; ma per lungo tempo il suo nome comparve ripetutamente tra quelli degli alti dignitari della Comunione italiana, nel Consiglio dell'Ordine o con altri incarichi eminenti. Nella celebre lettera ad Alberi Goodal, pubblicata in Firenze il 7 luglio 1871, (uno fra i documenti "più preziosi" della vita massonica italiana anche a giudizio dell'informatissimo Ulisse Bacci), Ludovico Frapolli retrodatò l'iniziativa massonica di Depretis se, a suo dire - ma senza conferma documentaria -, Depretis, "allora 18° già nel maggio 1863 compariva nel novero dei Fratelli decisi a trasformare il Grande Oriente Italiano "in una gran Comunione massonica con libertà di Riti". Nell'appassionato volume Carboneria e Massoneria nel Risorgimento italiano Giuseppe Leti andò oltre, tantoché, a proposito della formazione del governo succeduto al ministero Ricasoli, vi si legge che il nuovo presidente del Consiglio, Urbano Rattazzi, in odore di massonismo, si premurò d'assicurarsi la presenza d'un Fratello: Depretis, appunto, il quale riuscì a inalveare il garibaldinismo nella Società Emancipatrice. Del pari, a proposito del rovente dibattito che a fine giugno del 1862 auspicò il coronamento dell'unificazione nazionale e preluse alla spedizione naufragata ad Aspromonte, Leti ricorda che intervennero Conforti, Bixio, Sineo, Friscia, Ricciardi, Depretis, La Farina, Mordini, Saffi, Crispi, Miceli, "tutti massoni". Ma davvero Depretis era già iniziato nel 1862 o nel maggio 1863? In realtà il suo nome non compare in nessuno dei piedilista a noi noti di logge torinesi tra il 1860-1864, quand'egli operava nella capitale subalpina, né, aggiungiamo, nella matricola generale redatta dopo il 1874. In ogni modo occorre guardarsi dalla un tempo consueta dilatazione del massonismo dall'iniziazione all'intera vita dei diversi personaggi storici: la cautela è d'obbligo per valutare l'opera degli uomini politici, la cui militanza subì spesso altre e più condizionanti influenze e vale sia per il talvolta lungo percorso compiuto prima dell'iniziazione e sia per il talora non meno ampio periodo da essi trascorso "in sonno", più o meno esplicitamente dichiarato. Ricorderemo, anzi, che le notizie sullo "stato di servizio massonico del presidente del consiglio da poco passato all'Oriente Eterno vennero pubblicate dalla "Rivista della massoneria Italiana"proprio perché la clericale "Voce della Verità" aveva affermato che Depretis da tempo era ormai estraneo all'Ordine e anzi contrario alle sue direttive e che i suoi più accaniti avversari andavano cercati proprio nelle logge. "Morì fido nelle sue convinzioni massoniche" ribatté il portavoce ufficioso del Grande Oriente d'Italia. E aggiunse: "il giorno dei suoi funerali a Stradella, lo stendardo dell'Ordine apparve abbrunato a mezz'asta al balcone della sede del Grande Oriente e del Supremo Consiglio". Da parte sua il Gran Maestro e Delegato S.G.C., Lemmi, espresse alla vedova, donna Amalia, Collaressa dell'Annunziata, il cordoglio della Comunione. Il messaggio del Gran Maestro risulta tanto più significativo perché almeno due volte proprio Lemmi aveva guidato la ferma protesta della sinistra italiana contro Depretis. La prima volta, nel 1881, con Garibaldi, Saffi, Carducci e altri egli aveva fustigato la debolezza del governo dinanzi alla tracotanza della Francia, che aveva imposto il suo protettorato sulla Tunisia, in spregio delle aspirazioni italiane colà rappresentate da una numerosa colonia di emigrati. Poco attratto dalla politica estera, Depretis non ne aveva fatto gran caso; ma era poi dovuto ricorrere ai ripari sottoscrivendo la Triplice Alleanza, tenuta ben segreta per quasi un anno nel timore d'una nuova più aspra insorgenza della Sinistra garibaldina: e non è certo un caso che nulla ne fosse trapelato sino a molto dopo l'inumazione dell'Eroe a Caprera. La seconda volta, il fatidico bruniano 17 febbraio 1886, il Gran Maestro aveva intimato:" In nome dei Liberi Muratori italiani chieggo al governo che intorno ai gravi indizi di cospirazione clericale contro la patria, denunciati da quasi tutta la stampa, sia fatta, senza indugio, o piena luce o intiera giustizia". (2) Era trapelato qualche indizio di "conciliazione", avviata a passi felpati dal presidente del consiglio, pensoso sul futuro delle istituzioni mentre alle schiere, via via più folte, di radicali e democratici s'aggiungevano le prime organizzazioni socialiste, da quattro anni rappresentate alla Camera da Andrea Costa, la cui "pericolosità", agli occhi di Depretis, non era sminuita, dal fatto che si trattasse, ancora una volta, d'un massone. Per qualche mese la "conciliazione" fu la testa di turco della "Rivista della Massoneria Italiana" e dei più autorevoli esponenti dell'Ordine. Ne scrisse, tra gli altri, Giovanni Bovio (1887, pp. 181-83), in. termini netti: "0 il Papa vuol fare il prete, e non ha bisogno di conciliarsi con lo Stato italiano; o vuol fare il re, e non può conciliarsi col potere civile [ ... ] A chi porterà bene, se mai, questa conciliazione? All'Italia No. Il Papa, per generoso ed arrendevole che si mostri da prima, finirà, come è costume della Chiesa, per abboccare anima e corpo. Vorrà scuole, poi entrerà nei municipi e nelle cose dello Stato [...] dopo pochi anni di questa educazione l'Italia sarebbe cadavere [...] Per l'Italia una quistione romana non c'è. Il Vaticano tenterà sempre riaprirla; per l'Italia è chiusa. Un governo che la discutesse sarebbe scoperto a tutti i sospetti". Era anche una risposta a padre Luigi Tosti che da Monte Cassino aveva affacciato l'auspicio d'un clima nuovo e d'una pacificazione a un quarto di secolo dall'avvento del regno e a tre lustri da Porta Pia. (3) Il 1° luglio 1887 la "R.M.I. "pubblicò per esteso l'interrogazione parlamentare di Bovio al governo, Depretis sulle persistenti voci di conciliazione e le risposte dei ministri Crispi e Zanardelli, presentati senza meno come Fratelli. In apertura la Rivista sentenziava:" Lo Stato Italiano rimane qual è di fronte al papato, col suo organismo, con le sue leggi e quel che più importa con le sue fatali aspirazioni verso una libertà, una civiltà ed una indipendenza sempre maggiori. Che senso ha dunque la parola conciliazione? Questo solo, che il papato, vedendosi, malgrado effimere e parziali vittorie, diminuire ogni giorno i mezzi materiali e morali per continuare una lotta impossibile, fa atto di pentimento ed accetta le condizioni di vita che gli ha concesse l'Italia", cioè le "guarentigie". "Non si tratta insomma di due nemici che si conciliano, ma di una istituzione che dichiara, dopo molte e lunghe e sfatate macchinazioni, di accettare le leggi dello Stato nel quale vuol vivere ed esercitare il suo ministero". In quell'occasione Bovio pronunziò la frase famosa: "Quando in questa città (Roma) vidi nel medesimo giorno re Vittorio Emanuele al Quirinale, Pio IX al Vaticano e Giuseppe Garibaldi in una villa modesta, e vidi tre popoli diversi, senza offendersi, senza urtarsi, trarre a questi tre numi del tempo, ecco, dissi, la città pantheon, la città universale, ove l'Iddio e i popoli si conciliano nell'unità del diritto, che è l'unità di libertà per tutti innanzi alla sovranità unica dello Stato". Bovio non voleva poi riuscir sarcastico affermando: "Una conciliazione veramente necessita! Ma la si ha da fare in altro modo. Il prete si riconcilii con la religione", ché subito aggiunse: "Noi dobbiamo conciliarci col nostro diritto pubblico troncato o deviato nella sua evoluzione". Da canto loro, Zanardelli e Crispi assentirono. Il primo negò che un qualsiasi atto del governo giustificasse i timori di Bovio ("Il governo, come è alieno da ogni persecuzione e animato dal più grande spirito di tolleranza, così è mosso da una cura vigile e continua per la incolumità dello Stato e le necessità della Patria"). Il secondo - non meno di Depretis sospettato a sua volta di sotterranei contatti oltre Tevere - asserì con forza: "Non cerchiamo conciliazioni, perché lo Stato non è in guerra con nessuno. Noi non vogliamo sapere quello che accade in Vaticano, ove impera il pontefice, che non è un uomo ordinario qualunque. I tempi maturano; possono anche maturare i ravvicinamenti! Ma da parte nostra nulla sarà toccato al diritto nazionale sancito dai plebisciti! L'Italia appartiene a se stessa. L'Italia ha un solo capo: il re!". A sua volta Depretis invitò la Camera a ritenere come sue proprie le díchiarazioni dei due ministri, forza e ornamento dell'ultimo governo da lui presieduto. Così, con la proverbiale pacatezza, il Fratello Depretis, nato a Mezzana Corti Bottarone il lontano 13 gennaio 1813, nel 1834 implicato in una cospirazione mazziniana, eletto il 26 giugno 1848 al Parlamento Subalpino pel mandamento di Broni e sempre riconfermato, fondatore di più giornali (tra i quali "Il Progresso"), governatore di Brescia su mandato di Cavour nel 1859, nel 1860 prodittatore in Sicilia con Garibaldi (al quale si contrappose sul nodo dell'immediata annessione dell'isola al Piemonte), ministro dei Lavori Pubblici con Rattazzi nel 1862, della Marina ancora con Rattazzi nel 1866 e delle Finanze l'anno seguente con Ricasoli, capo riconosciuto della Sinistra dalla morte di Rattazzi (1873) e presidente del consiglio per la Sinistra storica dal marzo 1876 alla morte, col breve intervallo di tre governi Cairoli, suggellava mezzo secolo di laicismo. Egli esprimeva la sobrietà propria di chi sentiva d'aver vinto la partita fondamentale: la fondazione della nazione, la costruzione d'uno Stato non più esposto a ventate emotive e pertanto capace di reggere, senza danni, al sopraggiungere di nubi che sembravan foriere di rovinose tempeste e invece eran solo gonfie delle effimere parole di giornali e comizi. Il mazziniano divenuto ministro del re era anche l'uomo che, col Fratello Coppino, aveva assicurato agl'Italiani l'istruzione elementare obbligatoria, gratuita e laica, aveva portato gli elettori da 500.000 a oltre tre milioni ed era riuscito a far dell'Italia un Paese rispettato: la più piccola delle grandi potenze, come sarcasticamente taluno diceva, ma tuttavia una realtà che nessuno più avrebbe potuto ignorare nel "concerto" delle diplomazie. Coronando le speranze di Cavour, agl'Italiani Depretis assicurò uno Stato. Non il migliore degli Stati possibili, s'intende, ma quanto bastava per garantire la vita nazionale, nel segno della tolleranza all'interno e della collaborazione nella comunità internazionale. Nel gradualismo delle conquiste e nell'esser riuscito a inalveare nello Stato, la grande casa di tutti gli Italiani, le forze vive sorgenti dalla società - frutto di autoeducazione e diffusione della scienza - si può cogliere il tratto eminentemente massonico della costruzione cui pose mano per tanti decenni l'insigne statista morto nella quiete di Stradella: tratto rivelatore, anche questo, della sua forte e serena misura umana.
1) Per un suggestivo profilo dello statista subalpino v. GIOVANNI SPADOLINI (a cura di), Agostino Depretis, in "Nuova Antologia", luglio-sett. 1987, fasc. 2163, pp. 432-55. [Torna al Testo] 2) Le preoccupazioni della Massoneria vennero ribadite dal Gran Maestro nella Balaustra del 28 aprile 1886 sulla condotta da tenere nelle elezioni politiche generali (per la cui 'preparazione' furono costituite apposite commissioni in ciascuna loggia e una commissione centrale presso il Grande Oriente d'Italia). Il 15 giugno 1887 Lemmi tornò a invocare l'unione della Famiglia dinanzi ai nemici esterni, nell'interesse dello Stato (v. A. A. MOLA, Adriano Lemmi, Gran Maestro della nuova Italia, 1885-1896, pref. di Armando Corona, Roma, Erasmo, 1985 pp. 34 e ss. e XXIX e ss.). [Torna al Testo] 3) Nello stesso 1887 comparve, com'è noto, il celebre opuscolo di padre Luigi Tosti, La Conciliazione (Roma). Ma sullo stesso tema son da vedere altresì La conciliazione tra l'Italia e il Papato nelle lettere dei P. Luigi Tosti e del senatore Gabrio Carati,a cura di F. Quintavalle, Milano, 1907 e G. PALADINO, Il Padre Tosti in alcune sue nuove lettere,"Rassegna storica del Rinascimento", 1920, pp.597-628. Sulla questione, oltre a F. SALATA, Per la storia diplomatica della questione romana, Milano,1929 e V FEDELE, Leone XIII e l'abate Tosti (in documenti inediti), "Nuova Antologia", 16 aprile 1934, pp. 562-78, è da vedere A.C. JEMOLO, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1948 e ss. Le negative reazioni di Leone XIII e dello stesso Crispi alle sue aperture e proposte costrinsero l'abate Tosti alla ritrattazione, seguita, dieci anni dopo, dalla morte. Negli ultimi anni di vita l'abate pubblicò l'emblematica Vita di San Benedetto (1892). Non meno importante l'evoluzione seguita dal gesuita Carlo Maria Curci, sul quale v. l'eccellente lavoro di GIANDOMENICO MUCCI, Il primo direttore della "Civiltà Cattolica ". C M. C. tra cultura dell'immobilismo e la cultura della storicità, Roma, Edizioni "La Civiltà Cattolica", presentazione di Giovanni Spadolini, 1986, soprattutto alle pp. 23-25 e 218-26. [Torna al Testo] |
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