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Non c'era Paese, in Europa, in cui la guerra non avesse lasciato strascichi drammatici sia dal punto di vista economico sia da quello sociale.
In Italia essi erano particolarmente sentiti, e per contro la classe dirigente, invecchiata nei leaders e nella mentalità di governo, non riuscì a trovare quella fiducia in se stessa che le avrebbe permesso di mettere sotto controllo la situazione.
Molti erano i motivi di tensione: dalla disillusione postbellica per la frode che, a detta dei nazionalisti oltranzisti, il nostro Paese aveva subito a Versailles, all'inflazione che, minacciando la stabilità economica dei ceti medi, disgregò quella pace sociale che l'abilità politica di Giolitti aveva creato nell'anteguerra.
L'attenzione e il favore delle masse popolari si concentravano sui socialisti, nei quali era riposta ogni speranza di rigenerazione sociale: 200.000 iscritti al partito, 300.000 lettori dell'"Avantil", 2.000.000 di iscritti al sindacato rappresentavano una forza d'urto di primissimo ordine, cui si contrapponeva una destra reazionaria che riuscì a coagulare tutte le forze conservatrici del Paese.
Negli anni 1919-1920 i momenti di tensione furono moltissimi, causati dalla debolezza e dall'impreparazione del gruppo dirigente socialista, dalla fragilità del governo Nitti e dalle esordienti violenze dei fascisti di Mussolini.
La lotta politica anche in parlamento ebbe fasi drammatiche, soprattutto per l'impossibilità da parte delle compagini istituzionali di dar vita a maggioranze stabili e consistenti.
Progressisti e conservatori, reazione e rivoluzione sembravano, agli occhi dell'opinione pubblica, guardarsi in cagnesco senza avere la forza effettiva di imporre le proprie ragioni, in una situazione di stallo che impedì al Paese il rapido avvio della ricostruzione postbellica e la possibilità di saldi governi democratici.


Numero", 30 maggio 1920