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Come puntualmente previsto fin dall’anno precedente, l’8 febbraio 1909 fu sciolta la Camera dei deputati e furono indette le elezioni per il 7 e 14 marzo.
Motivate esclusivamente dall’ambizione di Giolitti di rafforzare il proprio potere personale e non da oggettive esigenze di crisi politica, furono accolte dai più con insofferenza, dietro la quale serpeggiava malcelata una sempre più aperta ostilità nei confronti di un capo del governo che tendeva a presentarsi quasi come l’uomo designato dal destino.
Scaltrito inoltre da precedenti esperienze, l’elettorato non era affatto convinto della regolarità della tornata di votazioni cui si apprestava a partecipare e fin dall’inizio della campagna elettorale da più parti venne sollecitato un accurato controllo dell’attività dei seggi. L’opposizione insistette a lungo sul ‘gran pasticcio’ ideato e gestito abilmente dal ‘cuoco’ Giolitti e i risultati delle urne le diedero ragione: i deputati socialisti passarono da 26 a 42, i repubblicani da 20 a 23, i radicali da 36 a 49, i cattolici militanti da 5 a 34. Il socialista Andrea Costa fu addirittura chiamato alla vicepresidenza della Camera.
Per Giolitti si trattò di una battuta di arresto piuttosto brusca, che lo indusse dopo pochi mesi a rassegnare le dimissioni.


"L’Uomo di pietra", 6 marzo 1909