Il 29 luglio 1900 a Monza l’anarchico Gaetano Bresci uccise a colpi di pistola il re Umberto I, già scampato agli attentati del Passanante (1878) e dell’Acciarito (1897). II drammatico episodio segnò, per molti versi, la fine di un’epoca: il ‘re buono’ usciva dalla scena recando con sé tutto lo strascico di scandali, disastrose avventure militari, oscure vicende politiche e iniziative liberticide che avevano portato l’ancor giovane Italia alle soglie di una crisi senza precedenti. Al suo posto saliva al trono Vittorio Emanuele III, figlio dello scomparso, sul quale istintivamente si appuntarono le speranze di rinnovamento. Come sempre accade in queste occasioni, la cronaca degli eventi è quanto mai complessa e contraddittoria: dietro al gesto di Bresci si cercarono le tracce di un complotto eversivo; anche allora si batté la strada di autorevoli favoreggiamenti all’autore del misfatto; la teoria del cui bono fu il principio ispiratore delle indagini. Tuttavia, soprattutto nelle prime fasi, la polizia non riuscì ad approdare a risultati soddisfacenti, mentre tra l’opinione pubblica si diffuse la voce che i servizi segreti già da tempo fossero stati al corrente della minaccia di un attentato e - per inefficienza o deliberatamente - non fossero intervenuti. Soprattutto su questo particolare si appuntò, in quei giorni, la satira feroce della stampa, che non poteva accettare l’impotenza della polizia: questa vignetta del "Pasquino" ne è una testimonianza più che eloquente. Il 29 agosto, dopo un processo celebrato alle Assise di Milano, Gaetano Bresci, riconosciuto il principale responsabile e l’esecutore materiale dell’attentato, fu condannato all’ergastolo. Trasferito nel penitenziario di Santo Stefano, vi morì poco dopo in circostanze da alcuni ritenute oscure. "Pasquino", 12 agosto 1900
|