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La vignetta, quasi asettica, del "Don Pirloncino" introduce con sufficiente realismo con quale stato d’incertezza e d’attesa l’opinione pubblica italiana, e non certo il governo, guardasse al congresso di Berlino (13 giugno -13 luglio 1878) convocato per la revisione del trattato di Santo Stefano del 3 marzo dello stesso anno. L’esito del congresso produsse un senso di umiliazione in Italia e ne fece le spese il gabinetto presieduto da Cairoli. In realtà il conte Luigi Corti, il nostro delegato ai lavori del congresso, un ambasciatore di carriera informato e prudente, era il primo a riconoscere, e non da allora, che l’Italia non aveva alcuna possibilità di azione diplomatica e non pensava minimamente di ottenere, come molti si erano illusi, la cessione del Trentino dall’Austria-Ungheria. D’altronde per gli Italiani non era facile ammettere di essere considerati, in campo internazionale, una nazione di secondo rango, poco ascoltata nel consesso delle potenze europee.
L’avventura di Berlino, cominciata dunque per l’Italia con vaghe aspirazioni e conclusasi con le ‘mani nette’ del niente di fatto, ebbe un’appendice piuttosto sconcertante. li Paese fu travolto da una poderosa campagna di stampa degli oppositori vecchi e nuovi. Sul Corti piovvero implacabili accuse denigratorie che lo costrinsero alle dimissioni e con lui, così allora sembrava, cadde ogni ambizione dell’irredentismo.


"Don Pirloncino", 28 giugno 1878