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Gli antecedenti storici della Leggenda
Dopo le spiegazioni ora date, non c'è motivo d'essere sorpresi se un mistero di tal genere si rintraccia in tutte le grandi religioni mitologiche. Mi si permetterà di citarne qui i principali esempi, non foss'altro che per confermare una volta di più l'unità dei processi dello spirito umano, anche in una liturgia come la nostra, che ha preso posto al di fuori dei culti propriamente detti. In Mesopotamia, dei testi cuneiformi, che datano forse da sette ad ottomila anni, riferiscono che Dummouzi, l'amante della grande dea Istar, era stato inghiottito nel mondo sotterraneo, nel regno dei morti, «il paese d'onde non c'è più ritorno, la dimora dell'oscurità, dove le ombre dei mortali errano come degli uccelli notturni, nutrendosi di polvere e di fango», Istar, «la vedova del Figlio della vita», tenta di liberarlo e di ricondurlo all'esistenza. Dopo avere traversato il fiume che circonda la dimora dei viventi, ella bussa ad una porta di bronzo. Un guardiano le domanda chi è e quel che vuole; poi se ne va a portare la sua risposta alla regina degli Inferni, la truce Nin-Ki-gal, per sapere se può lasciar passare l'estranea: «Lasciala entrare, risponde Nin-Ki-gal; lasciala venire a piangere sugli sposi che hanno abbandonato le loro spose; sulle donne che si sono staccate dai loro mariti; sulla gioiosa gioventù ch'è morta d'una fine prematura». Dopo aver superata la porta, la dea deve attraversare sette recinti. In ciascuno, il genio che è posto a guardia, le pone le stesse domande e, dopo aver ricevuto le sue spiegazioni, la spoglia rispettivamente d'uno dei suoi abiti o d'uno dei suoi ornamenti, cosicché ella è completamente nuda, quando giunge alla presenza della temibile sovrana. Questa riduce la nuova venuta all'impotenza, togliendole l'uso delle sue membra. In altri termini, ella le toglie la vita. Tuttavia l'assenza della dea della natura ha colpito la terra di sterilità, e gli Dei del cielo mandano a Nin-Ki-gal l'ordine di lasciar andare Istar. Questa è allora condotta alla sorgente della vita, che sgorga nelle profondità, gelosamente custodita dagli Anounkas o geni sotterranei. Dopo esservisi bagnata (o dissetata) ella riprende il cammino della luce, ricuperando ad ogni recinto l'ornamento che aveva dovuto lasciarvi (1). É molto probabile che qui si abbia la descrizione d'una scena d'iniziazione. Una tavoletta, tradotta dal Sayce, parla d'una imitazione del mondo sotterraneo, attraverso la quale si faceva passare un indovino durante la sua iniziazione (2). la Questa cerimonia simbolica, scrive inoltre François Lenormant, si rappresentava nei templi, come una specie di mistero» (3). Viaggiando verso occidente, il mito d'Istar e di Tammuz diventa, presso i Fenici, il mito, che ci è già più familiare, di Astarte e di Adone. Adone sembra aver personificato il cielo primaverile (4). Egli è ucciso da un cinghiale. Questo simboleggia il Cielo ardente dell'estate, che, nel clima della Siria, brucia ed isterilisce la terra. Adone è l'amante della natura, vale a dire d'Astarte che piange la sua morte e finisce col risuscitarlo. Ecco come C.P. Tiele ha descritto i misteri che portavano nella scena il mito: «La primavera è, nella Palestina e nella Siria, l'epoca delle primizie delle messi e delle greggi. Quando questa bella stagione volgeva alla fine, e già cominciava a farsi sentire il calore opprimente dell'estate, si celebrava a Byblos una solennità d'un carattere cupo. Era una festa funebre. Delle lamentazioni, dei canti queruli risuonavano nelle vie e nei templi, accompagnati dagli acuti suoni del flauto di lutto. Delle donne, con i capelli sparsi; altre rasate; altre che si battevano il petto; tutte, con gli abiti lacerati e con i segni della maggiore costernazione, erravano come cercando qualcuno o restavano nei templi, sedute in cerchio attorno ad un catafalco. Su questo catafalco era un sarcofago destinato a ricevere il corpo, statua di legno che dapprima si nascondeva, poi che si cercava e che si finiva per trovare e che si poneva nella bara. Verso la fine dell'anno, in autunno la festa era rinnovata, ma con una differenza importante. Si celebrava di nuovo, durante sette giorni, la festa; ma, l'ottavo, il lutto ed i pianti lasciavano posto ad una gioia disordinata. Questo perché si diceva che il Dio era risuscitato e salito al cielo. Alla continenza dei giorni precedenti succedeva una sfrenata licenza» (5). Tiele aggiunge che si riteneva la celebrazione di queste feste come indispensabile per assicurare la fecondità dei campi, del bestiame e degli armenti. Tuttavia riferisce anche che si usava celebrare le feste d'Adone dopo la morte dei giovani notevoli pei loro talenti, le loro virtù o semplicemente oggetto d'una tenera affezione. Non era più il dio; erano dei mortali di cui si piangeva così il trapasso e di cui si celebrava in seguito l'ingresso nella vita eterna L'Adone della Frigia si chiamava Attis o Papas, il divino pastore che era ritenuto come lo sposo di Cibele o Mâ, la Dea della terra. «Il culto di Cibele, riferisce un erudito belga che ha studiato in modo speciale i culti dell'Asia Minore, comportava fin da un'epoca remota dei misteri i cui iniziati si riconoscevano per mezzo di segni segreti e dove si rivelava a gradi una sapienza divina (6). Trasportati a Roma sulla fine delle guerre puniche, questi misteri vi furono celebrati con una voga crescente durante seicento anni. All'equinozio di primavera la confraternita dei Dendofori o «Porta-Alberi» abbatteva solennemente un pino che poi trasportava, avvolto in benderelle come un cadavere, nel tempio di Cibele, sul Palatino, dove era raffigurata la tomba di Attis. Là aveva luogo una scena che uno scrittore cristiano del IV sec., Firmico Materno, così riferisce: «Si simulava il dio disteso sul suo letto funebre; si piangeva la sua morte con amare lamentazioni, poi si faceva penetrare la luce e lo jerofante, dopo aver asperso gli assistenti, cantava lentamente il seguente distico: Coraggio, mysti ora che il dio è salvato, anche per noi, dopo le nostre prove, verrà la salvezza» (7). Allora cominciava la festa esuberante delle Hilarie. Non c'è dubbio che questa iniziazione non avesse per scopo garantire al neofita la vita futura. Si sono trovate frequentemente, nelle tombe dell'epoca, delle statuette che rappresentano Attis nell'aspetto d'un giovane pastore. Questa stessa immagine s'è ugualmente rinvenuta su alcune pietre tombali ritrovate in Germania, e perfino il Cristo, in una pittura delle catacombe, viene simboleggiato nella rappresentazione di Attis appoggiato al suo vincastro e ricoperto col berretto frigio, Ancora nel V sec. sant'Agostino riferisce, non senza indignazione, questa frase forse ironica, d'un sacerdote di Attis: «Et ipse Pileatus christianus est (Il dio dal berretto è, anche lui, cristiano)» (8). Se ora passiamo in Egitto, vi troviamo il culto della triade formata da Osiride, sua moglie Iside, che era nello stesso tempo la sua sorella, e suo figlio Oro. Si ammette generalmente che Osiride sia il sole nascente, il sole del giorno che contrasta col sole della vigilia. La leggenda riferisce che Osiride era stato ucciso da suo fratello Set o Tifone, il dio dell'oscurità; ciò che, in questa interpretazione, è molto esatto. Set aveva tagliato il corpo della sua vittima in innumerevoli pezzi che aveva dispersi sulla superficie dell'Egitto. Tuttavia Iside s'è messa alla ricerca di questi frammenti ed è riuscita a raccoglierli eccetto il fallo. Oro, allora dopo una lotta energica, immola a sua volta Tifone ed Osiride, richiamato all'esistenza, va a regnare sull'impero dei morti. Seguendo altri autori, Osiride era stato inizialmente un dio della vegetazione, ciò che spiega molti particolari della sua leggenda e del suo rituale, É certo ch'egli fu in relazione col destino delle messi ed il rinnovarsi periodico della vita vegetale. L'immagine di Osiride, talvolta la sua bara, erano rappresentati come racchiusi nel tronco di un tamarindo. Talvolta sono delle spighe che germogliano dalla sua mummia; talaltra è la sua anima che si nasconde sotto l'aspetto d'un uccello tra i rami di un sicomoro che fanno ombra alla sua tomba (9). Altrove ancora, è un sarcofago da cui esce un ramo d'acacia con questa iscrizione significativa: «Osiride si slancia » (10). Erodoto riferisce che si celebravano a Sais, nel tempio d'Iside, dei misteri notturni sulla tomba di un dio e Plutarco, più esplicito, descrive dettagliatamente l'annua cerimonia che gli Egiziani chiamavano la «Resurrezione di Osiride». Il rituale ha potuto essere ricostituito grazie alle recenti scoperte.
Ecco come lo riassume un autore che è estraneo alla Libera Muratòria, Franz Cumont: «Fino dall'epoca della XII dinastia, si celebrava ad Abydos ed altrove una rappresentazione sacra, analoga ai misteri del medioevo, che riproduceva le peripezie della passione e della resurrezione di Osiride. Ce ne è stato conservato il rituale: il dio, uscendo dal tempio, cadeva sotto i colpi di Set. Intorno al suo corpo si simulavano delle lamentazioni funebri, lo si seppelliva secondo i riti; poi Set era vinto da Oro, ed Osiride, al quale la vita veniva restituita, rientrava nel suo tempio, dopo aver trionfato della morte. Era lo stesso mito che, ogni anno, al principio di novembre, era rappresentato a Roma quasi nello stesso modo. Iside, accasciata per il dolore, cercava, fra i desolati lamenti dei sacerdoti e dei fedeli, il corpo divino d'Osiride, le cui membra erano state disperse da Tifone. Poi, ritrovato il cadavere, ricostituito, rianimato, v'era una grande esplosione di gioia, un giubilo esuberante di cui risuonavano i templi e le vie, al punto d'importunare i passanti (11). Qualunque sia stato il primo significato di questo rito, fu molto per tempo per gli Egiziani, il simbolo del destino umano e la garanzia della vita oltre la tomba. Il defunto diventava un Osiride, come ne fa’ testimonianza il Libro dei Morti, vero rituale d'iniziazione di cui si poneva un esemplare nelle tombe, a lato del defunto, per munirlo delle formule magiche e delle parole di passo che dovevano permettergli di oltrepassare le diverse regioni del mondo sotterranea e di raggiungere il battello del sole levante, la barca della resurrezione. «Com'è vero, dice un testo, che Osiride vive, il defunto, lui pure, vivrà; anche lui non è annientato». Malgrado la resistenza dei vecchi Romani, i misteri d'Iside non tardarono a propagarsi per tutto l'impero, all'epoca in cui la preoccupazione dominante era di trovare il mezzo di vincere la morte.
Apuleio, raccontando con parole velate la sua iniziazione ai misteri isiaci, si esprime in questo modo: «Mi sono avvicinato ai confini della morte ed, avendo calcata la soglia di Proserpina, ne sono ritornato traversando gli elementi. A mezzanotte, ho veduto il sole brillare in tutto il suo splendore» (12). D'altronde i Greci, avevano, anche loro, i loro misteri autoctoni, tagliati sullo stesso modello. I più celebri furono quelli di Eleusi, dove si rappresentano le avventure di Proserpina o Core, rapita a sua madre Cerere da Plutone, il re degl'Inferi; poi ricondotta alla luce e che riprende, per lo meno durante l'estate, il suo posto nell'assemblea degli dei. Originariamente destinati a celebrare - e forse ad assicurare - la fecondità delle messi nell'Attica, questi misteri erano divenuti rapidamente una chiave della vita futura. Il ratto ed il ritorno di Core rappresentavano non più i destini della semente nascosta nel suolo, ma la sorte riservata agli iniziati, che, nel corso della cerimonia, erano condotti successivamente negli Inferi e nei Campi Elisi (13). Altri misteri ancora davano soddisfazione alle aspirazioni mistiche dei Greci e dei Romani. I più importanti erano quelli dei Cabiri, di Dioniso e, più tardi, di Mithra. Secondo gli scrittori del tempo, essi avevano egualmente rapporto con i destini dell'anima dopo la morte e comportavano la rappresentazione d'una morte seguita da una resurrezione. Nei misteri dei Cabiri, a Samotracia, si metteva in scena la storia tragica di tre fratelli Axieros, Axiokersos ed Axiokersa. Secondo la versione della leggenda che riferisce Firmico Materno, due dei Cabiri uccidevano il terzo e lo seppellivano alle falde del monte Olimpo; egli era poi ricondotto alla vita da Hermes. La decorazione di taluni specchi etruschi rappresenta le scene successive di questo dramma. In una, si vede Axieros preso dai suoi fratelli, davanti due colonne dal capitello corintio. In un'altra, Hermes, accompagnato da due satiri che gli servono da accoliti, si avvicina al corpo e cerca di resuscitarlo con la sua bacchetta magica (14). La somiglianza di questa scena con un preciso episodio dello svolgimento del nostro rituale non può mancare di colpire tutti quelli che sono stati iniziati al terzo grado della Loggia simbolica. Non so se si è già fatto risaltare questa curiosa coincidenza: che i Cabiri sono, come Hiram, di origine fenicia. Nei Misteri di Mithra, si simulava d'immolare il recipiendario. Un giorno che l'imperatore Commodo rivestiva le funzioni di mistagogo, prese la finzione sul serio e, secondo Lampridio, causò uno scandalo uccidendo realmente il disgraziato neofita (15). Questi stessi misteri comportavano una scena di risurrezione, imaginem resurrectionis, scrive Tertulliano (16). I Misteri dionisiaci, che si celebrarono anch'essi fino al trionfo del cristianesimo, mettevano in scena Dioniso-Zagreo, il Bacco cretese, ucciso e dilaniato dai Titani, poi ricomposto e rianimato da Zeus. Gli adepti piangevano la sua morte, poi si rallegravano della sua risurrezione, Scrive Girard nel suo libro sul Sentimento religioso presso Greci, a proposito di questa passione di Dioniso (p. 205): «Ecco che si stabilisce una comunicazione intima tra gli uomini ed un dio che soffre e che fruisce d'una potenza di sensazione alla quale li fa’ partecipare. La scossa che ne ricevono esalta la loro immaginazione e fa’ nascere in essi un'emozione drammatica e profonda che dà ai fatti della leggenda un valore spirituale. La passione di Bacco non si distingue più dalle sofferenze dell'umanità; essa ne è simbolo, e gl'impeti d'afflizione che provoca negli adoratori del dio, come i trasporti di gioia che celebrano la sua resurrezione ed il suo trionfo, sono delle effusioni della natura umana che si ristora nel seno d'un' illusione religiosa e patetica». I cristiani non mancarono di denunciare e di proscrivere questi riti come abominevoli superstizioni dell'idolatria: «Anche il diavolo ha i suoi cristi» esclama a questo proposito il buon Materno (Habet ergo diabolus christos suos). I pagani avrebbero potuto ritorcere il complimento e dire: Il cristianesimo possiede, anche lui, il suo Attis, il suo Dioniso od il suo Osiride, che si dipinge come immolato, sepolto, disceso nel limbo e risuscitato al termine di tre giorni! Questo dramma mistico è rappresentato simbolicamente nel sacramento della messa e letteralmente dalle cerimonie della settimana santa. In numerose località, tra le popolazioni cattoliche, si raffigura ancora Gesù per mezzo di un fedele; questi si presta a riprodurre tutti gli episodi della Passione in cortei od anche in rappresentazioni che continuano i Misteri religiosi del medioevo, e, anche qui, la resurrezione del dio è rappresentata come garanzia delta vita futura riservata ai fedeli. É da rilevare che il personaggio del dramma non è sempre un dio della natura. I riti sopravvivono quasi sempre ai miti che li hanno generati. Quando scompaiono le vecchie divinità, i popoli continuano spesso a praticare le cerimonie del culto che rendevano loro; solamente vi legano un nuovo significato o più semplicemente le trasportano sui nuovi oggetti della loro venerazione. La messa in scena di cui ci occupiamo può essere adattata - e lo è stata più d'una volta - alle avventure di santi o di eroi che incarnano le vicissitudini d'una razza, d'un'epoca, oppure d'un semplice aggruppamento religioso o sociale. Un curioso esempio di trasposizione o piuttosto di sopravvivenza è riferito nelle memorie d'uno scrittore arabo che fu prigioniero nell'isola di Malta alla fine del XVI sec. Egli racconta che la festa di San Giovanni vi coincideva con la fioritura delle fave. I monaci nascondevano la statua del santo sotto dei rami di fave in fiore. Lo si piangeva come se fosse morto; si portava il suo lutto; poi, al termine di tre giorni, si festeggiava il suo ritorno, si scopriva la sua statua e la si riconduceva processionalmente nella cappella (17). Non è difficile indovinare che San Giovanni aveva molto semplicemente preso qui il posto di Dioniso. Le fave avevano una grande importanza nei misteri di Bacco e di Adone; esse erano considerate come prodotte dal sangue del dio. Non è del resto il solo punto del globo dove San Giovanni, secondo l'espressione del Frazer, abbia calzato le pantofole di Adone (18).
1. - A. H. Sayce, Religion of Ancient Babyloniens, Londra, 1887, pp. 220 sqq. 2. - Ibid., p. 240. 3. - Lenormant, Premières Civilisations, Parigi, 1874, t. II, p. 85. 4. - Numerosi mitologi sostengono che Adone «il signore» era originariamente una personificazione del sole (v. Carlo Vellay, Le Cule et les Fêtes d'Adonis Thammouz dans l'Orient antique, Parigi, 1904). Forse egli non ha assunto questo aspetto che in un'epoca ulteriore, quando tutti i grandi dei dell'Olimpo cominciarono a fondersi nel sincretismo solare. 5. - C. P. Tiele, , Histoire comparée des anciennes réligions de l’Egypte et des peuples sémitiques, trad. Collinss, Parigi, 1882, pp. 291-296. 6. - F. Cumont, Les Religions Orientales dans le paganisme Romain. Parigi, 1907, p. 63. 7. – Julius Firmicus Maters, De errore prophanarum religionum, ediz. Migne, t. XII, p. 1002. 8. - Revue d'histoire et de littérature religieuse, t- VIII, 1903, pp. 422, sqq. 9. - Cfr. Frazer, Adonis, Attis, Osiris, pp. 275. sqq. 10. – Brugsh, Religion und Mythologie der Alten, Egypter, p. 621. 11. - F. Cumont, Les Religions orientales dans le paganisme Romain, p. 119. 12. – Apuleio, Metamorfosi, XI, 23. 13. - Goblet D’Alviella, Eleusinia, Parigi, 1903, p. 71. 14. – Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités, s. v. Cabires. 15. - Lamprid , Commodus, c. 9. 16. – Tertulliano, De praescript. haeret., 40 (vedi per questi misteri, la grande opera di Franz Cumont, Textes et documents figurés relatifs aux Mystères de Mithra, Bruxélles, 2 voll.). 17. – Richard Wunsch, Das Frühlingsfest der Insel Malta (ap. Revue de l'histoire des Religions, ottobre 1902). 18. - J. G. Frazer, Studies in Oriental religion. Adonis, Aitis, Osiris, Londra, 1 vol., 1906, p. 149. |
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