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Pietro Negri
Vari anni or sono Luigi Valli dava alle stampe: «La Chiave
della Divina Commedia» in cui, procedendo felicemente lungo la linea
interpretativa divinata dal Foscolo e poi seguita da Gabriele Rossetti, dal
Perez, dal Pascoli e da qualche altro, riusciva a porre in evidenza trenta
armonie tra l’Aquila e la Croce nel poema sacro, ed a rintracciare, almeno in
parte la dottrina nascosta sotto il velame delli versi strani. Il pensiero
esposto e simultaneamente occultato da Dante sarebbe, molto sinteticamente
questo: La Croce si è mostrata impotente a redimere di fatto l’umanità e non può
redimerla da sola. Occorre il concorso dell’Aquila, ossia dell’autorità e della
giustizia imperiale, occorre ristabilire l’Impero, ritogliere alla Chiesa
l’infausta dote (falsa) datale da Costantino; avrà allora fine senz’altro la
corruzione della Chiesa e l’umanità, grazie alla doppia virtù della Croce e
dell’Aquila, potrà effettivamente salvarsi. Dante proclamava apertamente che
sulla cattedra di San Pietro stavano degli indegni usurpatori, dei predicatori
di ciancie, che non possedevano il verace intendimento dato da Cristo al suo
primo convento; e sotto il velo aggiungeva che sul carro della Chiesa stava
seduta la meretrice apocalittica, riconosceva il fallimento della predicazione
della Croce e la necessità dell’intervento dell’Aquila imperiale per salvare
l’umanità. Questa concezione ardita e per certo cattolicamente poco ortodossa
inspirava non soltanto gli scritti ma l’azione di Dante, intesa ad attuare il
suo programma mediante le armi dei Templari dapprima, e poi dell’Imperatore.
Seguendo logicamente il filo di questi studi Luigi Valli successivamente
pubblicava un poderoso volume, estremamente importante ed interessante,
intitolato:
«Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore». I primi
secoli della letteratura italiana e tutta la storia e le lotte di quei tempi
sono l’oggetto di questo studio, e si presentano sotto una luce ed un aspetto
dai più sino ad ora insospettato ed inaspettato. Con un lavoro paziente,
metodico, scientifico ed imponente il Valli, riprendendo l’opera incompresa e
negletta del Rossetti, appura e dimostra l’esistenza sin dagli inizi della
letteratura italiana di un linguaggio segreto, il gergo dei Fedeli di Amore; ne
decifra il senso, la molteplice allegoria dottrinale, settaria e politica, e
riporta alla luce tutto un grandioso movimento, inspirato dalla «tradizione
iniziatica» e nemico acerrimo della Chiesa di Roma.
Non potendo neppure succintamente assumere le vicende di questa grandiosa lotta
diremo solo come, attraverso questa comprensione, i poeti d’amore, gli scrittori
del «dolce stil novo», che sembravano stranamente perdersi a cantare di un loro
amore assurdo, manierato ed inconsistente, si trasfigurano in lottatori
formidabili, in ardenti paladini della loro Fede Santa. Grandeggiano
drammaticamente su tutti le nobilissime figure di Cecco d’Ascoli e di Dante
Alighieri, questi tanto più grande quanto più sia compreso. Noi esterniamo a
Luigi Valli la nostra ammirazione e la nostra riconoscenza; la sua opera
costituisce, come l’abbiamo intesa definire, uno «spezzone di gelatina», e per
quanto contro di essa si coalizzeranno il misoneismo miope e pigro della
«critica positiva» le vestali dell’estetica pura e gli accorgimenti degli
interessati, la luce è ormai fatta e finirà con l’imporsi.
L’amore di cui ardeva il cuore dei fedeli di Amore è affine all’amore mistico
della letteratura persiana ed a quello del «Cantico dei Cantici». Gabriele
Rossetti lo ricollegava senza altro all’amore platonico, il che darebbe
carattere pagano al movimento. Il Valli dimostra che la «rosa», il «fiore», la
«donna», è l’intelligenza attiva, che innamora di sé l’intelletto possibile
– (Per questi due termini bisogna riferirsi alle rielaborazioni arabe e
scolastiche della metafisica e della psicologia aristotelica. L’«intelligenza
attiva» è quella trascendente universale. Con «intelletto possibile» si intende
la capacità latente, in sé limitata e impedita, che ha l’intelletto umano di
attuarsi come quella intelligenza, con la quale sta appunto in un rapporto come
di «possibilità» ad «attualità».); è, come canta Dino Compagni:
L’amorosa Madonna Intelligenza
Che fa nell’alma la sua residenza
Che co’ la sua bieltà m’ha innamorato.
Al cumulo delle prove rinvenute in proposito, o riportate, dal Valli, se ne
potrebbero aggiungere altre assai; questa, p. e.: Dante sin dal principio della
«Commedia» parla delle
Divina potestate,
la somma sapienza e il primo amore,
ponendo il suo «amore» in una triade che corrisponde perfettamente – nella
Qabalah – alla triade delle più elevate sephiroth: Kether, H'cmâ, Binâ, ossia la
Corona, la Sapienza e l’Intelligenza – (Come la «rosa», che si ritrova nella
tradizione pagana – ognuno ricorda la «rosa» che, in Apuleio, è simbolo della
rigenerazione di chi è decaduto in «animale» - ha qui rispondenza col «loto»
delle tradizioni orientali (benché, tecnicamente, questo alluda ad un
«risveglio» alquanto diverso); così la «donna» dei Fedeli d’Amore si può mettere
in relazione con quella «Sophia» che produce «resurrezione» in un «nuovo corpo»,
di cui si è detto a proposito di Gichtel; con la «Diana», che nell’ermetismo
acquista un preciso significato tecnico; con la Cakti dell’induismo, principio
di cui abbisogna l’iniziato per la sua integrazione; con quella prajnâ o
prajnâpâramitâ (la sapienza trascendente) che nel buddhismo mahâyânico è
raffigurata come una donna celeste, a cui il Buddha si congiunge. Si potrebbe
anche dire su ciò che significa quel «matrimonio con gli spiriti femina» che, in
certe scuole arabe, gli iniziandi praticano in un periodo iniziale di assoluto
isolamento (talvolta sono murati per mesi in apposite nicchie).
Se questa è la donna, la domina, dei Fedeli d’Amore, è perfettamente logico che
Francesco da Barberino nei suoi «Documenti di Amore» ponga la docilitas, la
docilità (da docere, ammaestrare), per prima tra le dodici virtù, che l’Amore
deve risvegliare nei novizi. La tradizione che pone tra i primi requisiti
dell’iniziando questa docilità si è trasmessa sino a noi, come risulta ad
esempio da quanto dice e riporta A. Reghini a pag. 106-108 del suo libro sulle
«Parole sacre». Anche la parola disciplina ha il duplice senso di scienza e di
costrizione; ed il tedesco gelehring corrisponde per la sua polisemia al latino
docilis.
La trasmissione del linguaggio segreto dei Fedeli di Amore in quello di sette
movimenti posteriori è stata riconosciuta, oltreché dal Valli e prima di lui,
dal Rossetti e dall’Aroux, i quali anzi si spinsero troppo oltre su questa via e
furono talora fuorvianti dall’intento di volere riconoscere le concordanze tra i
vari gerghi settari; ma la concordanza esiste in parte indubbiamente, ed induce
a porre il problema della trasmissione, non del solo gergo settario, ma della
stessa dottrina tradizionale.
Anche noi, col Valli, riteniamo che il Rossetti, il primo sistematico scopritore
del gergo settario dei Fedeli di Amore, fu condotto alla sua interpretazione
dalla conoscenza di antiche tradizioni segrete. Se la memoria non ci inganna, il
suo «Mistero dell’Amor platonico nel Medio Evo» è dedicato a B.L., che è molto
verosimilmente Bulwer Lytton, l’autore di «Zanoni», che oltre ad avere una
profonda erudizione esoterica, era anche un esperto conoscitore della lingua e
della letteratura italiana. Si può forse pensare che il Rossetti sia stato
indotto ed avviato dal Bulwer Lytton allo studio sistematico del gergo settario
medioevale, studio felicemente ripreso dal Valli, che è pervenuto ad emendare,
estendere e completare i risultati conseguiti dal Rossetti nel secolo scorso.
Abbiamo veduto che l’Amore è l’«Intelligenza attiva», è, come dice Dante
nell’ultimo verso della Commedia, l’Amor che move il Sole e l’altre stelle.
Nell’intelletto possibile del Fedele di Amore questa intelligenza attiva è desta
ed attiva, nei profani è dormiente ed inoperosa. Coerentemente, secondo il
Valli, nel gergo settario dormire significa essere nell’errore, essere lontano
dalla verità, ed in particolare appartenere alla Chiesa di Roma. E’ il
simbolismo adoperato da Dante negli ultimi canti del Purgatorio, in cui
all’immersione nel fiume Lete, il fiume del sonno o dell’oblio, succede quella
nell’Eunoè, in virtù della quale come pianta novella (neo-fita) rinnovellata di
novella fronda, Dante diviene puro e disposto a salire alle stelle, ossia capace
di assurgere al «regno dei cieli». Come è noto, si tratta di un simbolismo
pagano, adoperato da Virgilio e da Platone, e che si ritrova sin nel più antico
orfismo e nei Misteri eleusini; ivi al fiume Lete, che travolge la coscienza
degli uomini, è contrapposta la fresca sorgente della Memoria o la virtù
mnemonica del melograno, che dona il risveglio e l’immortalità. L’anamnesi
platonica, il ricordo, si identifica alla conoscenza, e corrispondentemente la
verità, la a-leteia, è la negazione, il superamento del Lete. Il conseguimento
della verità è una conquista della coscienza sopra il sonno e la morte; occorre
giungere a mantenere la continuità della coscienza anche attraverso il sonno e
la morte.
L’Amore in senso iniziatico ha dunque la capacità di sottrarre al sonno ed alla
morte, dando al Fedele d’Amore una vita nuova. Ciò si raggiunge per gradi di
perfezionamento successivo.
Nei «Documenti di Amore» di Francesco da Barberino nei primi gradi il Fedele
d’Amore è rappresentato trafitto dal dardo di Amore, e negli ultimi è
rappresentato con delle rose in mano. L’analogia con le spine della rosa
ermetica è evidente. Del resto, in una delle dodici figure dell’«Azoth» di
Basilio Valentino si ritrova o anche il simbolismo del dardo. Ma l’affinità tra
il simbolismo d’amore e quello ermetico ed il legame tra due tradizioni
risultano ancor più manifesti per la presenza del Rebis ermetico in uno dei
disegni che illustrano i «Documenti di Amore» di Francesco da Barberino. Il
Rebis, o androgino ermetico, è un caratteristico ed importantissimo simbolo; la
figura del Rebis riprodotta dal Valli risale al tempo di Dante, ed è più antica
di alcuni secoli di quelle ce abbiamo rintracciato nei libri di ermetismo.
Altre concordanze col simbolismo e con la terminologia ermetica si trovano nei
versi di un oscuro poeta di amore, Nicolò dei Rossi, il quale in una sua canzone
esprima «i gradi e la virtù del vero amore». Questi gradi son quattro: il primo
si chiama liquefatio la quale si oppone – dica il Dei Rossi – alla congelazione.
Il secondo grado si chiama languor, il terzo zelus, nel quarto l’amore attinge
la somma gerarchica mediante l’estasi od excessus mentis. Si comprende dunque
come una delle più importanti opere della letteratura d’amore, il «Roman de la
Rose» (di cui il «Fiore» è la versione italiana dovuta ad un Durante fiorentino
che è quasi sicuramente Dante), tratti esplicitamente di alchimia e venga
catalogato nella letteratura alchemica. Questa rosa cantata con così commovente
accordo da tutti questi poeti, a cominciare da Ciullo d’Alcamo, la candida rosa
dantesca, è evidentemente affine, se non identica, alla rosa ermetica dei
Rosacroce.
Una importante conferma di questa assimilazione ed affinità tra ermetismo e
Fedeli di Amore ci è offerta dal quarto dei così detti «gradi templari» della
Massoneria sorti in Francia od in Germania verso la metà del 18° secolo. Si
tratta dei Princes de Mercy, detti anche Cavalieri del Delta sacro, e designati
anche in altro modo. Loro compito, dice il rituale, è «custodire con fedeltà il
tesoro della sapienza tradizionale, sempre velandolo a coloro che non sappiano
penetrare nel terzo cielo». Terzo cielo è il nome del loro tempio ed è, come
tutti sanno, il cielo di Venere. Notiamo per altro che nell’orfismo e nel
pitagoreismo il terzo cielo era l’ultimo. Filolao infatti dice che i cieli sono
tre: Urano, il cosmo, e l’Olimpo. Il terzo cielo, l’Olimpo, è la dimora degli
Dei, e San Paolo si riferiva a questa classificazione orfico-pitagorica dei
cieli quando raccontava di essere stato rapito al terzo cielo.
Ora l’«Intelligenza» di Gino Compagni, scrive il Valli, «sta in un palazzo dove
i diversi ambienti rappresentano probabilmente gradi di iniziazione, e in quel
palazzo il terzo loco è lo salutatorio … richiamandoci alle frequenti allusioni
al terzo cielo o al terzo grado, che nel cielo materiale è il cielo di Venere,
ma nel simbolo significò assai probabilmente la setta o grado superiore della
sua iniziazione».
I Principi di Mercede «pervengono mediante la loro triplice virtù a sollevare il
velo della verità»; e si chiamo perciò beni émeth,i figli della Verità. Tra i
simboli caratteristici del grado figura il Palladio dell’Ordine, ossia «la
statua della Verità, ignuda e coperta di un velo tricolore». Questi tre colori
che ricompaiono nella decorazione del Tempio ed in altri simboli del grado sono
il verde, il bianco ed il rosso, i tre colori ermetici, i tre colori di cui
Dante adorna la sua Beatrice (Purg. XXX, 31-33).
Il simbolismo numerico del grado si basa sul numero tre e le sue potenze; il
Delta sacro o Delta luminoso è uno dei suoi simboli principali. La parola émeth,
(tma)
verità, consta di tre lettere, la prima, la mediana, e l’ultima dell’alfabeto
ebraico. Il suo valore numerico e 441, ossia nove. Sul trono stanno nove luci.
Nel tempio stanno nove colonne ciascheduna delle quali porta un candelabro a
nove luci; ossia in tutto vi sono 81 luci. L’età di 81 anni è l’età rituale. Non
staremo a ricordare quale importanza annetta Dante al tre ed al nove, e con
quanta frequenza il numero nove ricorra nella «Vita Nuova»; il Valli riporta dei
versi in cui Jacopo da Lentini propone che «le mercé siano strette … né dagli
amadori chiamate infino che compie anni nove». E, quanto al numero 81, il Valli
ha già riportato il seguente strano ed ardito passo di Dante che nel «Convivio»
scrive precisamente così: «… Platone, del quale ottimamente si può dire che
fosse maturato … vivette ottantuno anno … E io credo che se Cristo fosse stato
non crucifisso, e fosse vissuto lo spazio che la sua vita poteva secondo natura
trapassare, elli sarebbe a li ottantuno anno di mortale corpo in eternale
trasmutato» (IV,XXXIV); ossia, se ecc. …, sarebbe giunto all’età rituale dei
Cavalieri del Delta sacro. Naturalmente Dante nella «Vita Nuova» fa morire
Beatrice nel nono giorno del mese di Giugno del 1281; ed ha cura di specificare
che in Siria il mese di Giugno è il nono, e che Beatrice era morta quando «lo
perfetto numero nove volte era compiuto» nel terzo decimo secolo, ossia nel
1281.
Tra i simboli di questo grado che si riconnettono al simbolismo dei «Fedeli di
Amore» notiamo ancora la freccia che sta sul trono dell’Eccellentissimo (il
presidente della camera), che è evidentemente il dardo che Francesco da
Barberino pone in mano di Amore nella prima figura dei suoi Documenti di Amore.
Questa freccia è di legno bianco ed ha le piume dipinte parte in verde e parte
in rosso, e la punta ha d’oro.
Altro simbolo del grado è costituito da due frecce, i due dardi d’Amore della
tradizione (cfr. Valli, p. 362), uno d’oro, l’altro di piombo; i due dardi della
canzone dantesca: «Tre donne intorno al cor mi son venute». Per più ampie
notizie sopra questo argomento rimandiamo al Manuale di Andres Cassard (New
York, 1871, 6a ed., pag.381 e segg.). ed infine occorre appena accennare come
l’unica Fenice, di cui si fa un continuo parlare nella poesia dei Fedeli di
Amore, e che, come mostra Valli, rappresenta l’organizzazione e la tradizione
iniziatica sempre rinascente di mezzo alle fiamme dei roghi, non sia altro che
uno dei più importanti simboli dell’ermetismo, il simbolo dell’opera al rosso.
La purpurea Fenice rinasce e vive tra le fiamme del «fuoco filosofico», come il
Fedele di Amore ardendo di santo zelo (lo zelus di Nicolò dei Rossi) rinasce
alla vita nuova mediante l’excessus mentis.
Altri numerosi raffronti si potrebbero stabilire tra il gergo settario decifrato
dal Valli ed il linguaggio simbolico degli ermetisti; tra il simbolismo della
dottrina d’amore e dei movimenti affini e derivati. Raffronti che costituiscono
un indizio e forse una prova della esistenza e della continuità di una
tradizione iniziatica che dal Medioevo giunge sino a noi. A differenza del
Valli, noi facciamo per altro molte riserve circa la purezza del carattere
cristiano di tale tradizione. Quando si incomincia a riconoscere la esistenza di
un «Falso sembiante», in una organizzazione segreta, procedente per gradi, è
lecito dubitare che se amor e cor gentile sono una cosa, la parola gentile possa
anche avere il senso che ha in latin sangue gentile; e che, se Dante prende da
Virgilio lo bello stile, Virgilio possa rappresentare anche l’iniziazione
pagana. Ma avremo occasione di ritornare su questi problemi; e per ora ci
limitiamo a notare come il Boccaccio, che il Valli ci mostra esaltatore dei
Templari, il Boccaccio autore di una «Genealogia degli Dei», nella decima
novella del Decamerone si faccia beffa della resurrezione della carne, proprio
cioè di quello stesso insegnamento di cui si federo beffe gli Ateniesi, dicendo
a San Paolo: «Su questo ti sentiremo un’altra volta». Non riportiamo il passo
perché le leggi ci impongono di rispettare la morale cristiana. Ricordiamo a
proposito del Boccaccio che nella sua terza novella egli fa dire a Melchisedech
che tra il giudaismo, il cristianesimo e l’islamismo «nessuno sa quale sia la
vera fede». Che il Boccaccio metta frasi di questo genere, proprio in bocca a
Melchisedech, che occupa una posizione di primo ordine nella tradizione e nella
gerarchia esoterica, è cosa che può fare riflettere assai e può far sospettare
quale fosse l’unica Fenice che con Sion congiunse l’Appennino, come dice un
sonetto che va sotto il nome Cine di Pistoia.
Un’ultima osservazione. In un nostro precedente scritto sulla «Conoscenza del
simbolo» avemmo occasione di citare un passo del Convivio, da cui risultava come
secondo Dante nel linguaggio allegorico i sensi da considerare fossero quattro,
corrispondenti forse ai quattro gradi del rito e della setta. Di questi quattro
sensi il più importante, per noi, è l’ultimo, ossia il senso anagogico.
Naturalmente questo senso spirituale, che si riferisce alla tecnica del
perfezionamento spirituale, non può essere inteso e talora semplicemente
intraveduto, senza la esperienza tecnica personale: intender non lo può chi non
lo prova, dice Dante. Ed è per questo che esso è sfuggito quasi sempre a coloro
che sino ad ora si sono occupati del linguaggio segreto dei Fedeli di Amore, a
differenza del senso che potremmo chiamare sinagogico. Per esempio dormire
significa allegoricamente vivere nell’ignoranza, nell’inerzia dell’intelletto,
moralmente significa non partecipare al lavoro della setta, anagogicamente la
incoscienza durante il sonno, l’incapacità a raggiungere la coscienza estatica.
Il Valli sostiene che, mentre la «Vita Nuova» è scritta in cifra, Dante ha
abbandonato nella «Commedia» il gergo settario; ma, se questo è vero, in parte
almeno, per il senso morale o politico, poiché nel poema scaro l’ostilità contro
la Chiesa è esplicita e addirittura violente, non è vero per il senso anagogico.
Questo senso è ancora necessariamente nascosto sotto il velo del simbolismo, e
per interpretarlo occorre possedere l’esperienza degli stadi di coscienza cui si
riferisce, e la conoscenza dei simboli tradizionalmente adoperati per indicarli.
Per questa ragione il vero e supremo significato del linguaggio segreto di Dante
e dei Fedeli d’Amore rimane e rimarrà sempre un mistero per tutti coloro che
dormono e seguiteranno a dormire.
Indice
Il Linguaggio segreto dei Fedeli d'Amore
Il
Linguaggio segreto dei Fedeli d'Amore (IL TESTO)
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