L'Alchimia nella terra delle Piramidi Al di là della tradizione, che ha sempre considerato il Regno dei Faraoni come la culla dell'alchimia, fino a che punto la religione e la scienza dell'antico Egitto contribuirono a determinare i principi dell'Arte alchemica? Parallela, speculare alla civiltà dell'Eufrate, sorge, altrettanto improvvisa e splendida, quella del Nilo. I due fiumi scorrono l'uno in senso inverso all'altro. Quello egizio da meridione a settentrione, caratteristica singolare, fonte di curiosa meraviglia ed ammirazione per il mondo antico. Erodoto, affascinante pettegolo della storia, non mancò di considerarne le conseguenze sul carattere e la vita, in una pagina famosa di cui citiamo solo alcuni brani: «...Gli Egiziani.. in generale hanno adottato usi e costumi tutti contrari a quelli degli altri uomini... Gli uomini portano i carichi sulla testa, le donne sulle spalle. Le donne orinano in piedi, gli uomini stando accucciati... non vi è donna che faccia da sacerdotessa ad alcuna divinità, sia maschile o femminile; sono gli uomini che esercitano il sacerdozio per tutti gli dei e tutte le dee... i sacerdoti degli dei, nelle altre nazioni, coltivano la chioma, in Egitto invece se la tagliano...» (1). Notiamo noi, ora, di questa inversione, che se i mesopotamici volsero l'attenzione al cielo con un affetto tutto particolare per il culto astrale, l'egiziano spostò lo sguardo verso la terra, anzi nella profondità di questa. Sull'Eufrate il cielo è maschio, femmina la terra. Per i nilotici, maschia è la terra, femmineo il cielo, non per contraddire, ma per opporre sullo stesso fondamento, una via di ricerca alternativa e simile. Non a caso, il testo più interessante che ci ha lasciato questa civiltà, descrive dettagliatamente il mondo infernale e sotterraneo. Potremmo quasi dire, avessimo prove certe per i tempi più antichi, che ai Babilonesi fu congeniale, dei due principi ermetici, il mercuriale; agli Egizi il sulfureo. Tuttavia ammettiamo che i dati di cui disponiamo sono pochi, o, per meglio dire, che i tanti sono ambigui, di varia interpretazione, mai diretti. Mancano informazioni precise su conoscenze scientifiche egizie, anche se piramidi, templi, gestione del territorio, oggetti d'uso, calendari ed altro ancora, stanno a testimoniarne l'esistenza certa, di tale valore da stupire i contemporanei e ancora le civiltà più tarde. Resta qualche ricetta, qualche tecnica di costruzione, qualche trattato medico. In questi leggiamo che i più antichi sapevano l'uso dei punti, delle filacce, del cauterio, delle stecche a sistemare fratture, di alcune operazioni chirurgiche anche complesse. Notiamo che la cosiddetta «magia» in realtà pare, da questi documenti, avere avuto valore affatto secondario. Si parla piuttosto di applicazioni di unguenti, di decotti di piante, di cure dietetiche, che non di scongiuri e simili (2). Colpisce un atteggiamento sostanzialmente laico, che, di fronte a manifestazioni morbose non facilmente diagnosticabili, mostra una pregevole prudenza, senza proporre spiegazioni demoniche o paranormali. Così come illustra bene una singolare affermazione che qui riferiamo: «Il calcolo accurato: la porta di accesso alla conoscenza di tutte le cose ed agli oscuri misteri» (3). In altro campo, è evidente che gli antichi egizi ebbero buone conoscenze astronomiche. Restano diagrammi celesti sin dall'inizio del III millennio. Era noto il fenomeno equinoziale. È indiscutibile, dai resti templari e dalle rivelazioni delle piramidi, l'abilità nello stabilire orientamenti mirati a certe culminazioni stellari o eliache. Restò famoso, sino ad epoca rinascimentale, il sistema di 36 Decani, almeno della III Dinastia, con la divisione dell'anno nel corretto numero di giorni, che Cesare trasferì nel mondo romano, e noi usiamo ora con poche correzioni. È scontato, non fosse che per gli scambi commerciali, che le conoscenze e le arti che abbiamo già citato per il mondo più antico e per Babilonia in particolare, fossero condivise (4). Anche se, lo ripetiamo, in Egitto appare minore l'influenza di un pensiero magico che deformi le esperienze acquisite. Isidoro di Siviglia pone gli Egiziani a fondamento dell'astronomia e i Caldei dell'astrologia, distinguendole già come noi oggi facciamo (5). In questo senso l'Egizio più antico parrebbe davvero «ermetico», nel suo essere più un «fisico» che un «mistico», volendo qui definire in qualche modo impreciso questi due fraterni punti di prospettiva. Un alchimista bizantino, su cui dovremmo tornare per l'importanza dei testi che ha lasciato, descrive questi due mondi spirituali, attribuendone uno ad Ermete, per l'Egitto, l'altro a Zoroastro, in cui riassume tutta la tradizione irano-mesopotamica: «Ermete e Zoroastro hanno detto che la razza dei filosofi era al di sopra della Fatalità poiché essi né si rallegrano della felicità che essa porta... né sono colpiti dai mali che essa invia... Zoroastro dichiara non senza pretenzione, che grazie alla conoscenza di tutti gli esseri dell'alto e la virtù magica dei suoni corporei, si allontanano da sé tutti i mali della Fatalità, sia quelli particolari che quelli universali. Ermete al contrario... attacca la stessa magia, perché egli dice che non bisogna che l'uomo spirituale, quello che riconosce sé stesso, raddrizzi qualcosa per mezzo della magia, anche se lo giudica un bene, né che faccia violenza alla Necessità. ma che la lasci agire secondo la sua natura e la sua scelta; che progredisca con la sola ricerca di se stesso... e lasci che la Fatalità tratti a suo modo questo fango che le appartiene, cioè il corpo...» (6). A conferma, Cheremone, sacerdote egizio di epoca tarda (7), riferisce costumi templari che non abbiamo motivo di ritenere fossero molto mutati nel tempo: «...le loro (dei sacerdoti) notti sono consacrate ad osservare le cose celesti, talvolta persino a compiere qualche funzione santa, i loro giorni al servizio divino.. Passano il resto del loro tempo su degli studi di aritmetica e di geometria; li si vede sempre al lavoro ed a fare qualche ricerca…» Resta dunque l'immagine di un mondo di sapienti studiosi, che poco divulgavano e malvolentieri, preferendo mantenere nell'intima sicurezza del tempio il sapere acquisito. Immagine già fissa e diffusa all'inizio della nostra civiltà. È un luogo comune, infatti, negli scritti greci, il pellegrinaggio in Egitto e l'apprendistato dei più grandi filosofi presso i templi. Cosicché secondo Diodoro Siculo, i sacerdoti egiziani trovavano nei loro registri la notizia che Orfeo, Museo, Melampo, Dedalo, Omero, Licurgo, Solone, Platone, Pitagora, Eudosso, Democrito, erano venuti come discepoli sulle rive del Nilo (8). Plutarco dava informazioni precise su luoghi e docenti: «... i più sapienti tra i greci: Solone, Talete, Platone, Eudosso, Pitagora e anche Licurgo... vennero in Egitto e si incontrarono con i sacerdoti. Dicono che Eudosso fu discepolo di Chnufis di Menfi, Solone di Sonchis di Sais, Pitagora di Enufis di Heliopolis. Pare che soprattutto Pitagora sia rimasto così colpito e tanto abbia ammirato quegli uomini, da trasfondere la loro tensione simbolica e misterica nelle sue dottrine adattandole ad una forma enigmatica». (9). Confermava Giamblico, citando Ermete a maestro: «..le antiche stele di Hermes, che già per l 'innanzi Platone e Pitagora accuratamente studiarono e ne costituirono la loro filosofia ...» (10). Su Pitagora in particolare questa tradizione era molto radicata, ne testimonia Isocrate, accennando alla religiosità egizia: «Se non avessi fretta, direi molte meravigliose cose della loro pietà (scil. degli Egiziani) Né io sono il solo o il primo che le scorga; ma molti già l'hanno conosciuta, sia uomini di oggi che uomini del passato. Tra questi è Pitagora di Samo, il quale andato in Egitto e fattosi loro discepolo, portò in Grecia per primo lo studio di ogni genere di filosofia e più degli altri si prese cura dei sacrifici e delle cerimonie religiose» (11). Potremmo moltiplicare le citazioni, a prova che il mito, la leggenda, la tradizione, o comunque lo si voglia chiamare, di un Egitto depositario di tutti i culti e di tutte le scienze era già ben solido ai primordi della nostra era, per proseguire nel tempo sino ad anni vicinissimi ai nostri (12). Contrastato, certo, da un mito più robusto e più fortemente diffuso, anche se non meno improbabile, che vuole l'intelletto umano svilupparsi e uscir dalle tenebre in Grecia, intorno al V° secolo a.C., e da li diffondere, come un «lògos spermatikós» di incredibile fecondità, arte scienza filosofica e ragione nell'universo. Non commenteremo né l'uno né l'altro, tanto sono privi entrambi di consistenza, legati a visioni parziali di ottiche più o meno estese, ma non perciò meno ristrette. Entrambi hanno, sotto un certo aspetto, connesso alla teoria dei cicli (13) una loro limitata validità ermeneutica. Non possiamo però non constatare che il primo ha almeno il pregio di non aver prodotto generazioni mostruose. Pensiamo qui a presunte superiorità di bionde razze occhicerulee a assurde contrapposizioni di culti solari a lunari, paterni a materni, virili a femminei, razionali a ossessivi, che oscure divagazioni di deboli menti malaticce hanno creato per la gioia di tristi individui. Confessiamo quindi che dovendo fare una scelta, siamo attratti dall'immagine di un deposito di conoscenze sacrali, cui basta lasciar filtrare un sospiro a generare ricchezza di arte e pensiero. Questo sarebbe allora il mistero davvero impenetrabile di un Egitto che non fu mai svelato e che resta intangibile nei millenni? Nasce, ovvia, l'obiezione, un po' ironica, che dopo la decifrazione di Champollion e dei suoi successori, il mistero, che già all'inizio della nostra era affascinava Greci e Romani, è ormai risolto con piena soddisfazione degli studiosi. E che esso si mostra, con generale sollievo, non meno squallido e banale di ogni altra produzione dell'intelletto umano. In effetti noi leggiamo i geroglifici, la «scrittura sacra», usata ininterrottamente e con lievissime modifiche dall'inizio del III° millennio al primo secolo a.C. Leggiamo, o meglio, decifriamo, perché non ci è nota la vocalizzazione dell'antico popolo che abitò quella terra che i Greci chiamarono «Aigyptos», dall'egiziano HUT-KA-PTAH, la sede del «Ka» di Ptah (14). Li decifriamo con disagio, perché ci basta approfondire appena i testi per scoprire che non li capiamo, tanto sono alieni dal nostro comune pensare. Basti, a primo esempio, il fatto che nella lingua di quel popolo che tutti descrissero come religiosissimo, non si è trovata parola per significare «religione» o «devozione» o «fede» L'uso, tratto dal copto, di tradurre con «dio» o «dea» la parola NETER (15) sembra anch'esso molto discutibile: gli studiosi hanno dovuto ammettere che questo termine probabilmente non corrisponde affatto all'immagine o all'emozione che esso suscita in noi. Notiamo che il segno pittorico che lo rappresenta è una scure, forse di pietra, infilata in un lungo manico di legno. I colori mostrano che essa era fissata con corregge di pelle o di corde. Appare come un'arma dall'indiscutibile aspetto distruttivo e minaccioso. Forse proprio «potenza» è la sua più verosimile significanza, ad indicare in quello che noi ora chiamiamo «dio», una forma particolare di quel potere universale, eterno ed invincibile, sempre terribile, che è alla stessa base della manifestazione. Resta il fatto curioso, in un universo simbolico che pare molto costante nel tempo, che i più antichi Filosofi ermetici, sino ad epoca medioevale, rappresentassero con la stessa scure il loro «fuoco segreto» principale strumento dell'Arte Alchemica, ma anche corporificazione particolare ed essenziale dello Spirito. Questa analogia renderebbe forse meno astrusi o incomprensibili certi testi liturgici dei templi egizi, in cui si danno istruzioni dettagliate su una forma di «fabbricazione degli dei», che devono essere attratti dal cielo sulla terra in un supporto materiale inevitabile e conveniente. Cosicché al mattino, ad esempio, il sacerdote doveva «rendere al dio la sua anima», cioè fissarla in certi modi nella statua o nella raffigurazione prescelta. Qui, ancora, «anima» per BA è traduzione forzata e maldestra, ove si consideri che si tratta di una facoltà che non hanno se non «morti» e «dèi», e che pare una loro funzione di corporificazione. Si noti che in antico egizio non esisteva la vocale «e»; essa è introdotta per facilitare la pronunzia di vocaboli di cui non è nota la vocalizzazione. Cosicché vien dato, al plurale, lo stesso nome ai libri sacri delle biblioteche o dei templi, nei quali si trovano descritti i riti o i miti in cui gli aspetti immaginari sono resi visibili (16). Anche il «fuoco segreto» deve essere «fabbricato» dall'Artista nelle sue prime operazioni. Lo si rappresenta talvolta con un angelo il simbolo dell'apostolo Matteo cui dobbiamo il Vangelo della Scienza, di Maat, l'ordine-verità-giustizia che si oppone al caos. Figlia del demiurgo, gli dèi la amano e vivono in lei. Insieme alla Vita, al cui simbolo è spesso correlata (17), rappresenta l'elemento della conservazione, quello che soprattutto va mantenuto perché il resto continui a durare. In ermetismo diremmo che essa rappresenta il principio salino, fonte di ogni possibile corporificazione, e il cristallo, ordine per eccellenza in natura. Il glifo della dea la mostra accosciata: dette origine nel tempo al simbolo astrologico della Vergine, segno di terra. Nella composizione del vocabolo MAAT appare il «cubito», lo strumento impiegato per misurare. Così come i gradi del fuoco vanno attentamente, «geometricamente» dicevano gli antichi testi alchemici, misurati per non guastare l'Opera. Il quella Grecia che non avrebbe appreso nulla dall'Egitto, a Maat riconduceva l'etimo di vocaboli che comportano idee di ragione e misura: «mâthéma», disciplina, scienza; «mathèmatikós», matematico; «mathèsis», atto d'imparare: «mathétéuo», istruisco: «métron», misura. Fantasie che mal si accomodano ad un mistero scomparso. Insegnava Tat, che i Greci chiamarono Ermete Trismegisto: «Ignori dunque, o Asclepio, che l'Egitto è la copia del cielo, o, per meglio dire, il luogo in cui si trasferiscono e si proiettano qui in basso tutte le operazioni che governano e mettono in opera le forze celesti? Anzi, per dire proprio la verità, la nostra terra è il tempio di tutto il mondo. E tuttavia, dato che conviene ai saggi prevedere tutte le cose future, ve n 'è una che bisogna che voi sappiate. Verrà un tempo in cui sembrerà che gli Egizi abbiano onorato invano i loro dèi, nella pietà del loro cuore, con un culto assiduo... Gli dèi, abbandonando la terra, ritorneranno in cielo: essi abbandoneranno L'Egitto, questa terra, che fu sede delle sante liturgie, oramai vedova dei suoi dèi, non godrà più della loro presenza.. ...Allora questa terra santissima, sede di santuari e di templi, sarà tutta ricoperta di sepolcri e di morti. O Egitto, Egitto, dei tuoi culti non resteranno che favole, e quelle stesse sembreranno incredibili ai tuoi posteri, e sole sopravvivranno le parole incise su pietra a narrare i tuoi atti di pietà..» (18). Solo «favole» dunque, e parole su pietra» restano a narrare l'ambigua sapienza egizia. Miti e simboli, iconografie incomprese, conservate per vie misteriose, trasmesse a sensi colmi di paziente insipienza, proposte ad increduli passanti che li scambiano per ingenui prodotti dell'arte, o per giochi di carte. Splendide pareti di pinte, papiri immaginifici, descrizioni infernali, che leggiamo interdetti, come le facciate di certe cattedrali che si commentano male nella loro ipotetica ed insignificante ripetizione di vizi, virtù e mestieri. Il turista ammira la fatica artigiana, l'erudito cerca affannosamente fonti banali che diano pace alla mente, il costruttore si nega le domande più ovvie, e l'ecclesiastico, custode invidioso di palazzi che non gli appartengono, li deforma ai suoi dogmi morali. Eppure qualcosa trapela. Rapporti mirati, orientamenti precisi, colori inquietanti, prospettive curiose, racconti trasparenti, creano ragionevoli dubbi. Cosicché onesti studiosi infine ammettano per questi insopportabili Egizi almeno un talento mitopoietico singolare. Una curiosa facoltà che permise, sin dai primordi, un'indiscutibile unità tra ciò che noi, oggi, chiamiamo «religione» e scienze fisiche o scienze della natura. Tanto interconnessi appaiono i fenomeni ai miti, alle liturgie, a quelli che, per comodità di linguaggio, continueremo a chiamare «dèi». Infine si afferma: «... i documenti religiosi si riferivano ad una rappresentazione dell'universo talmente minuziosa e dettagliata, che la religione doveva essere una vera e propria fisica teorica, avente in sé tutti gli elementi di una cosmologia, che tendeva a diventare cosmogonia in seguito alla concezione ciclica dell'universo...» (19). Manca solo, a questi studiosi, un ultimo passo che sostituisca all'immagine di scienza profana, quella di una «fisica sacra», perché si ritrovino concordi e coerenti con Dom Pernety quando scriveva: «I Filosofi ermetici dicono che bisogna intendere tutte le favole degli Egiziani in un senso ben differente da quello che esse presentano di primo acchito alla mente. Essi non avevano inventato tutti questi nomi e queste favole, che per nascondere al volgo la vera maniera di fare l'oro e la medicina universale...» (20). La conclusione del «religioso benedettino della congregazione di San Mauro», appare un po' troppo spagirica e limitata. Preferiamo una descrizione più corretta e completa della pratica alchemica. così come la definì per noi una volta, magistralmente, Eugène Canseliet: Metafisica sperimentale. Una cosmologia o cosmogonia, allora, può ben provenire dalla visione empirica, e non solo mentale, di un microcosmo minerale e metallico soggetto a tutti i cicli della Natura, a volontà dell'Artista. Cosicché poi egli possa narrare, insegnare, trasformare in mito, leggenda e favola, non il prodotto della fantasia umana, ma precisamente quello che vide. I nostri contemporanei, ridotti in balia di fumose divagazioni di psichismi più o meno acuti e percettivi, cui si dà il nome di «filosofie», non dovrebbero generalizzare le proprie disgrazie: potrebbero essere esistite età più felici, in cui popoli fortunati poggiavano le loro convinzioni profonde su «fatti» e non su opinioni. «... nel suo Regno (del Solfo) sta uno specchio nel quale si vede il Mondo intero. Chiunque guardi in quello specchio può vedervi e apprendervi le tre parti della sapienza di tutto il Mondo, cosicché diventi sapientissimo in questi tre Regni; quali furono Aristotele e Avicenna e molti altri che. come quelli delle età precedenti, videro in questo specchio anche come è stato creato il Mondo...» (21). Così insegnava Michele Sendivogio, in una favola più recente, ma non meno «incredibile», di quelle egizie. Sullo stesso parallelo di Babilonia (22) sorge Heliopolis, in egizio IUN-U, antichissimo santuario del culto solare. Qui, sin da tempi pre-dinastici, si narrava di come il Sole, RA, unendosi a se stesso, creò SHU, l'aria, e TEFNUT. l'umido. Essi a loro volta generarono GEB. la terra maschio, e NUT, la dea cielo, ma così interconnessi che l'aria dovette intervenire per separarli. Da questi nacquero quattro figli, accoppiati a due a due: Osiride, Iside, Seth e Neftys. Questa è la grande Enneade di Heliopolis, la prima «favola» genesiaca che originò un mito che ancora non cessa di affascinare: è la storia di Osiride, della sua morte e resurrezione. È anche la storia di un amore che va al di là della morte, perché non si può parlare di Osiride senza la sua amata, Iside. La versione più completa è di un greco, di alta casta sacerdotale, tanto gli Egizi mantennero pietosamente celati i propri misteri. Plutarco, in un lungo monologo (23), ci narra la leggenda, con tutte le spiegazioni che può dare, avendo premesso una dichiarazione che ci sembra meriti di essere citata: «... Barba e mantello non bastano a fare il filosofo… (lo) è soltanto chi abbia compreso, attraverso una norma severa, le cose che vengono rivelate e compiute riguardo a questi dèi, analizzandole razionalmente e meditando sulle verità in esse contenute…». Con questo spirito, leggiamo i passi principali del racconto che il filosofo greco ci ha trasmesso: «Osiride nacque dal Sole… Iside da Hermes, Neftys e Tifone da Crono… dicono poi che Neftys sposò Tifone: che Iside e Osiride erano innamorati al punto di unirsi nell'oscurità del grembo materno ancor prima di nascere... quando Osiride fu di ritorno (Tifone) ordì contro di lui un'insidia. raccogliendo 72 congiurati… Tifone prese di nascosto le misure del corpo di Osiride, costruì un'arca di quelle dimensioni. molto bella e con splendidi ornamenti, e poi la portò nella sala del banchetto. Tutti la guardarono ammirati, e allora Tifone promise, come in un bel gioco, che l'avrebbe data in dono a quello che ci stesse dentro sdraiato proprio di misura. Uno dopo l'altro provarono tutti, ma nessuno ci entrava davvero esattamente: venne poi il turno di Osiride, e quando si sdraiò dentro, subito i congiurati si precipitarono a chiudere il coperchio, e lo saldarono all'esterno con i chiodi e ci versarono sopra piombo fuso. Poi trasportarono l'arca al fiume e la abbandonarono alla corrente perché arrivasse al mare… Quando Iside fu informata … indossò una veste di lutto… Iside da quel giorno vagabondò senza meta, senza saper dove cercare, chiedendo notizie a tutti quelli che incontrava… poi tenne a sapere che Osiride si era unito alla sorella Neftys si mise allora a cercare il bambino nato da loro… lo trovò guidata da una muta di cani e lo allevò, e il ragazzo diventò la sua guardia e il suo fedele compagno. Fu chiamato col nome di Anubis e si dice che faccia la guardia agli dèi, come i cani la fanno agli uomini. Di conseguenza Iside venne a sapere che la bara, sospinta fuori dal mare... era dolcemente approdata in un prato di erica, l'erica poi… si abbarbicò alla bara e si avvolse intorno ad essa, nascondendola completamente al suo interno... la dea… sfrondò i rami di erica… (poi recuperata e lasciata in un luogo sicuro la bara, ripartì). Ma Tifone, mentre andava a caccia di notte, la scoprì per caso, illuminato dalla luna: riconosciuto il corpo di Osiride, lo fece in 14 pezzi e lo disperse. Quando lo venne a sapere Iside si mise di nuoto a cercare qua e là, attraversando le paludi, su una zattera di papiro… l'unica parte del corpo di Osiride, che Iside non riuscì a trovare, fu il membro virile, perché era stato gettato per primo nel fiume, e lì l'avevano mangiato il lepidoto, il fagro e l’ossirinco». Il racconto si dilata in un viaggio di Osiride all'inizio del suo regno e nella sua installazione finale quale re e giudice infero. Altri particolari, lo stesso Plutarco li accenna soltanto o li evita, come certe versioni della generazione di Horo, che completa la Triade divina in una specie di Sacra Famiglia, forse già paradigma per religioni successive. Resta comunque una splendida favola. ricca di suggestioni ermetiche, in cui abbiamo sottolineato le parole e le frasi capitali, a guidare un'eventuale caccia al tesoro alchemica. Non ripeteremo però l'orrendo delitto di Tifone, frantumandola con analitica voluttà distruttiva, in una lenta, minuziosa, paziente opera di soluzione enigmatica, che traduca in «ricette» i simboli così sapientemente velati e raccolti. Ne confermava la possibilità il Pernety, che si sforzò di farlo in un testo non del tutto originale, già tardo epigono di una lunga successione di autori che si erano inoltrati sulla medesima strada. Diceva. tra l'altro: «Iside ed Osiride sono... l'agente ed il paziente in uno stesso soggetto… Le due opere che sono l'oggetto di quest’arte, sono comprese, la prima nella spedizione di Osiride, e la seconda nella morte ed apoteosi dello stesso. Con la prima si fa la pietra, con la seconda si forma l'Elisir...». (24). Anche Michele Maier, con più autorevolezza, aveva affrontato e risolto soddisfacentemente il problema, di cui dissertò in più punti dei suoi scritti. In uno in particolare (25), dopo aver citato il famosissimo passo della «Visione di Arisleo»: «Congiungi dunque il tuo figlio Gabricio, a te più diletto di tutti i tuoi figli, con sua sorella Beia…». Commenta: «… ma va considerato che la madre, cioè Iside, non è la causa primaria delta morte, di Osiride, bensì Tifone, che come furioso turbine, lo uccide e lo divide in più parti… una sola e medesima cosa sono infatti Osiride e Adone, cioè il sole, non celeste… ma filosofico…» (26). Dove notiamo, con un certo stupore, la coerenza con una versione più antica del mito (27), secondo la quale è la madre NUT che interviene a ricomporre il corpo di Osiride, sostituendosi alla figlia, sorella, sposa, Iside. Constatiamo un insieme simbolico che pare mantenersi costante nei secoli. Anubis, il fedele compagno dalla testa di cane, così simile a certe rappresentazioni medioevali del mercurio comune, il «leale servitore». La cassa che galleggia, di cui abbiamo già parlato. L'erba sempreverde che l'avvolge. La separazione in più parti del cadavere del Re, che si ritrova sino in una famosa stampa del Trismosin. Per concludere col pesce che ingoia il potere fecondante del dio, tanto simile alla «remora» di Sendivogio e di Fulcanelli. Permane il fatto che le spiegazioni dei Filosofi ermetici non sono molto illuminanti, quando traducono in un linguaggio altrettanto misterioso questi simboli, di cui si appropriano con una dichiarazione di possesso totale. Forse i motivi di tanta segretezza sono quelli stessi che Maier elenca, numerandoli diligentemente, e che fanno ormai parte di una lunga tradizione scritta. Li accettiamo inevitabilmente, ripetendo qui il 6°, che ci pare giustificazione particolarmente amabile nella sua apparente, ingannevole, umiltà: «perché se (i filosofi Ermetici) non avessero usato innumerevoli nomi, gli stessi fanciulli iriderebbero della loro sapienza» (28). Anche se riteniamo che il vero motivo consista in una sostanziale, dannosa, inutilità di qualsiasi tentativo di divulgazione, che voglia trasformare in ricettario di cucina qualcosa di più profondo. Ricordiamo qui un'affermazione poco nota di Canseliet, che merita un'attenta, cauta. lettura: «L'Alchimia è una costante purificazione. Bisogna che l’artista sia al diapason con i suoi materiali; senza questo si ha rottura, la comunicazione scompare, il contatto cessa. Se non si è pronti, non ci si deve, ad esempio, dedicare ad una separazione un po' importante. Bisogna saperla dominare. È quanto meno pericoloso. Questa semplice separazione, un chimico sperimentato la tenterà, io gli darò gli stessi materiali, gli stessi crogioli, e la fallirà perché non la può fare. Tuttavia i suoi gesti saranno sicuri...». (29). Note: 1- Erodoto. «Le Storie, libro II», Milano 1963. 2- Stiamo evidentemente parlando del periodo anteriore all'occupazione persiana. Vedi in particolare il famoso papiro medico Smith, all'incirca dell'età degli Hyksos. - Scamuzzi, Letteratura egizia, Milano 1969. S.Curto, Egittologia, Torino 1961. 3- Papiro Rhind. Citato da B. de Rachewiltz, Egitto magico-religioso, Torino 1961. 4- Per quanto riguarda la metallurgia, da reperti archeologici si nota che l'Egitto, sin dalla più remota antichità, aveva raggiunto un elevato livello tecnico nella lavorazione dei metalli preziosi. Questa lunga pratica artigiana fu dapprima esclusivamente riservata alle officine regali e sacerdotali. Sin dalla I° Dinastia si ha notizia dello sfruttamento di miniere nel Sinai. Vedi Curto, op. cit. 5- Isidori Hispalensis Episcopi Etimologiarum sive originum Libri XX, Oxford 1985 Libro III, 25: «Astronomiam primi Aegypti invenerunt. Astrologiam vero et nativitates observantiam Chaldaei primi docuerunt». id., 27: «lnter Astronomiam autem et Astrologiam aliquid differt. Nam Astronomiam caeliconversionem, ortus, obitus motusque siderum continet, vel qua ex causa ita vocentur. Astrologia vero partim naturalis, partim superstitiosa est». 6- Zosimo di Panopoli. Alch. Grec. 226, 18. Commentato in R.P.Festugière, la Révélation d'Hermès Trismégiste, tomo I°, Paris 1981. 7- Età di Nerone. Vedi Festugière, op. cit. 8- Diodoro è del I° secolo a.C., ma la sua fonte è Ecateo di Abdera, della fine del IV° secolo, che soggiornò in Egitto sotto Tolomeo I. 9- Iside ed Osiride, Adelphi. Milano 1958. 10- I misteri egiziani, Milano 1984. 11- Citato ne I Pitagorici, a cura di A. Maddalena. Bari 1954. 12- Per la persistenza, o la rinascita, del mito egizio. vedi: J. Baltruaitis, La ricerca di Iside, Milano 1985. 13- Per quanto riguarda questo insegnamento tradizionale, vedi quanto volle pubblicare Fulcanelli a conclusione de Les Demeures Philosophales. L'Adepto decise di distruggere un terzo libro, particolarmente dedicato a questo punto di dottrina. 14- Il nome greco deriva, in realtà, dell'accadico HIKUPTAH, a sua volta derivato dall'egizio. Si noti che questa perifrasi indicava nei testi cuneiformi l'intero Egitto, mentre in origine essa alludeva al tempio di Ptah che sorgeva in Menfi, e quindi a Menfi stessa. I testi accadici però designano nella maggioranza dei casi l'Egitto con il toponimo MI-IS-RI-I ripetuto nell'ebraico e nell'arabo MISR. Vedi: Scamuzzi, op.cit.; e E.Wallis Budge, Egyptian Language, London 1973. 15- Vedi: La religione egizia, di P.Derchain, in Storia delle Religioni, a cura di H.C.Puech, vol.I Laterza Bari1976. Vedi anche l'introduzione di D. Del Corno a Iside ed Osiride op.cit. e di Wallis Budge Egyptian religion London 1980. 16- Vedi Derchain. op. cit. 17- Ad esempio, nel tempio di Edfu si trova da un lato Maat, e dall'altro la Vita, offerte ad alcune divinità. 18- Corpus Hermeticum, Texte établi par A.D.Nock et traduit par A.J.Festugière, Paris 1973. Tomo II: Di Ermete Trismegisto. Libro sacro dedicato ad Asclepio. Segue una triste descrizione della vecchiaia del mondo. che converrebbe leggere per la sua apparente, impressionante attualità. 19- Derchain, op.cit. 20- Dictionnaire Mytho Hermetique, par D.Antoine‑Joseph Pernety. Paris MDCCLVIII. 21- Novi Lumini Chemici Tractatus alius De Sulphure, in J.J.Mangeti Biblioteca Chemica Curiosa, Lib. III, sect. II, subsect. XI. 22- È curiosa la stretta striscia che va dal 30° al 33° parallelo settentrionale. Sembra una zona predestinata. 23- Iside ed Osiride op.cit. Si noti che i Greci chiamavano Seth, Tifone. Ricordiamo qui un passo di Fulcanelli (Les Demeures Philosophales, Paris 1965,tomo II, pag.153): «dal greco Typhaón, termine poetico di «typhon» o « typhós» – il Tifone greco – significa «riempire di fumo, accendere, infuocare». 24- Les fables égyptiennes et grecques dévoilées. 2 voll. Berlino 1758. Il Pernety, tra l'altro, riprese lo studio di un dotto ermetista tedesco: J.Tollii; Fortuita… in quibus… tota Fabularis Historia, Graeca. Phoenicia, Aegyptiaca ad Chemiam pertinere asseritur, Amstelaedami. M DC LXXXVII. 25- M.Maier. Symbola Aura Mensae Duodecim Nationum. Francofurti M DC XVII. 26- Symbola op. cit . Liber XI. Melchiori Cibinensis ungari Symbolum. 27- Testi delle Piramidi, VI° Dinastia. 28- Symbola op. cit. Liber V. Avicennae Arabis symbolum. 29- La Tourbe de Philosophes. n2. trim. 1958. Paris.
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