"I cattolici che, presa la croce, si armeranno per sterminare gli eretici, godano delle indulgenze e dei santi privilegi che sono concessi a quelli che vanno in aiuto della Terra Santa" (Concilio Lateranense IV, 1215).

La raccolta di strumenti di tortura che, dopo aver itinerato in numerosi Paesi, costituisce oggi il Museo di Criminologia Medioevale di San Gimignano fu presentata per la prima volta nel maggio 1983 a Firenze, dove recentemente è stata allestita anche una mostra promozionale del Museo. Nel pregevole testo di Robert Held “Inquisizione ed il crimine della pena di morte” (Avon & Arno Publishers, 1992), vengono esaminati una settantina dei mezzi di esecuzione capitale, pubblico vituperio e tortura esposti in questa collezione unica al mondo.

Spaccacrani, schiacciapollici, banco di stiramento, collare penale, straziatoio di seni, cilicio spinato, ruota per lo spezzamento, pinze roventi, pera orale, rettale o vaginale sono alcuni espliciti nomi dei ripugnanti congegni di tortura, utilizzati dall'Inquisizione, scrive Held, "per la persecuzione e lo sterminio di dissidenti, apostoli, eretici, ebrei, streghe, maghi, neoplatonisti e chiunque altro non godesse del beneplacito ecclesiastico" .
Una realtà storica aberrante e mostruosa, che non necessita di alcun commento.
Il periodo in cui più orribili sono state le procedure seguite dal Tribunale della Santa Inquisizione Spagnola per estorcere confessioni a presunti colpevoli di eresia è stato sicuramente il XVI secolo. Nella Spagna di quell'epoca non si parlava che di eretici, non si temevano che gli eretici, non si desiderava altro che la morte degli eretici.
La maggior parte delle volte un processo per eresia prendeva avvio da denunce anonime. La delazione era cosa degna di lode: infatti, sancito da un editto denominato "Editto di fede", era solenne obbligo di ogni buon cittadino segnalare al Tribunale del Sant'Uffizio chiunque fosse sospettato di essere venuto meno ai suoi doveri religiosi o di professare idee e teorie non conformi alla più rigorosa ortodossia cattolica.
Le informazioni acquisite tramite lettere anonime o per via di voce generale (diffamatio) venivano attentamente esaminate dai calificadores, esperti teologi del Tribunale, che esprimevano il loro parere favorevole o contrario a procedere.
L'arresto di un indiziato avveniva sempre quando questi meno se lo aspettava.
Di solito lo si prelevava dalla sua abitazione nel cuore della notte e, mentre era ancora in uno stato di smarrimento, lo si conduceva alle carceles secretas dell'Inquisizione, senza rivelargli il delitto di cui lo si accusava né l'identità del suo accusatore.

In celle di poco più di tre metri di lunghezza e due di larghezza, che prendevano luce da un piccolo foro praticato sul soffitto (per cui l'oscurità era quasi completa), e spesso infestate da vermi, venivano introdotti fino a sei detenuti, con il risultato che per qualcuno di loro era impossibile perfino sdraiarsi per dormire.
Per provvedere alle necessità fisiologiche avevano a disposizione in comune, in un angolo della cella, un vaso di argilla, che veniva svuotato una volta alla settimana.
Era assolutamente proibito lamentarsi e a chi lo faceva veniva messa per parecchi giorni una specie di museruola, detta briglia delle comari.
Coloro che si rendevano colpevoli di liti venivano fustigati. Il sesso o l'età dei prigionieri non era un'attenuante: tutti subivano lo stesso trattamento.
L'arrestato inoltre non poteva comunicare con l'esterno, né gli era consentito alcun conforto spirituale.
Addirittura prima di essere informato sulla natura delle accuse a suo carico potevano passare settimane, mesi, anni. Tutt'altro che rari erano in questo periodo i casi di suicidio.

Trascorso tale tempo lo si portava davanti al suo inquisitore, il quale per prima cosa gli faceva recitare delle preghiere, il Credo, l'Ave Maria, il Padre Nostro, per accertarsi, come si diceva allora, che le avesse succhiate con il latte materno. Quindi lo scongiurava di confessare spontaneamente tutte le colpe di cui la sua coscienza lo accusava, e ciò per ravvisare se tra esse vi fosse qualche indizio del reato che gli era stato contestato contro la religione.

L'indiziato era condotto di fronte all'inquisitore in più udienze e, se dopo ripetuti interrogatori non si decideva a dichiararsi reo confesso, veniva messa in moto la macchina processuale, "particolarmente abile a spremere la verità dalle ossa della gente", come ci dice Miguel de Cervantes in un passo del suo Don Chisciotte.
L'inquisitore presentava i capi d'accusa che pendevano sull'inquisito a una commissione del Tribunale, la quale, dopo averli esaminati per semplice formalità, dava il suo assenso all'avvio del processo vero e proprio. All'accusato era concesso scegliere un avvocato fra i tre messigli a disposizione dal Tribunale, ma il compito del legale era abbastanza difficile perché, come aveva già ben chiarito il grande inquisitore medievale Bernardo Gui, i difensori degli eretici erano essi stessi passibili, se troppo zelanti nell'espletare il loro compito, di venire processati per lo stesso crimine dei loro assistiti. Se durante il dibattito processuale l'inquisito cadeva in contraddizioni - e, per timore, ciò avveniva sempre - le norme del Tribunale del Sant'Uffizio prevedevano che fosse introdotto l'uso della tortura.
Il macabro rituale era previsto inoltre tutte le volte che le prove a carico dell'accusato non fossero state sufficienti a determinare la condanna: difatti nei processi per eresia si partiva dal presupposto che quanto più deboli erano le prove di colpevolezza, tanto più indispensabile diveniva l'uso della tortura.
La camera dei tormenti si trovava di solito nei sotterranei delle carceri dell'Inquisizione.

Si trattava quasi sempre di una grotta scavata nel terreno, illuminata soltanto da due torce a olio, per cui le ombre che vi si producevano erano terrificanti.
Qui, oltre ai carnefici e al prigioniero da torturare, prendevano posto gli inquisitori e il medico. Quest'ultimo, siccome la tortura poteva durare un'ora e anche più, aveva la funzione di stabilire se il paziente era in grado di affrontarla senza morire.
Gli inquisitori, dopo che il carnefice aveva spogliato il prigioniero fino alla cintola, si ponevano davanti al torturando e di nuovo lo supplicavano di confessare spontaneamente i suoi delitti.

Se questi era ancora recalcitrante ordinavano che venisse torturato "nel modo e per il tempo" che essi ritenevano necessario. Esistevano molti metodi di tortura, tra i quali l'accecamento per mezzo di ferri incandescenti; il letto di dolore (una scala a pioli inclinata, sulla quale l'inquisito veniva disteso e - mentre lo si stirava per le mani e per i piedi - marcato a fuoco sul torace); i calzari (una specie di stivaletti che servivano per maciullare gli arti inferiori del condannato); la doppia vite o vite ad alette e la pera orale. Queste ultime servivano per stritolare l'una i pollici, l'altra le mandibole del torturato.

Tuttavia i metodi più usati erano denominati della corda, dell'acqua e del fuoco.
Il primo consisteva nel legare le mani della vittima dietro il dorso con una corda che scorreva in una carrucola attaccata al soffitto; tramite la puleggia il tormentato veniva sollevato da terra e quindi tenuto sospeso per i polsi per un certo periodo di tempo. Nelle applicazioni più dure venivano messi dei pesi ai piedi del condannato. D'improvviso il carnefice allentava la fune e il corpo ricadeva a circa venti centimetri da terra: per effetto dello strappo tutte le giunture si slogavano, mentre la corda recideva nettamente il primo strato di carne dei polsi fino a scoprirne i nervi. La tortura dell'acqua, o degli aselli, risultava addirittura peggiore.
La persona veniva distesa su una specie di cavalletto di legno, detto escalera, inclinato in modo che la testa del condannato, tenuta ferma dentro un incavo del cavalletto stesso da una fascia di ferro passata intorno alla fronte, si trovasse in una posizione più bassa rispetto a quella dei piedi. L' escalera era inoltre attraversato da pioli acuminati sui quali doveva poggiare il corpo del torturato, legato strettamente ai polsi, alle cosce e alle caviglie.

Nella bocca tenuta aperta a forza si introduceva quindi, fino a farla giungere in fondo alla gola, una striscia sottile di lino bagnato, attraverso la quale si faceva scorrere, goccia a goccia, dell'acqua che, ostruendo le narici della vittima, ne impediva la libera respirazione. Infatti, ogni volta che il disgraziato tentava di respirare, insieme all'aria introduceva anche acqua e ciò gli causava un costante stato di semisoffocamento. I continui colpi di tosse che emetteva per espellere l'acqua dalle vie respiratorie gli procuravano inoltre la rottura dei vasi capillari della gola. Spesso la striscia di lino veniva tolta imbevuta di sangue.

Al condannato al supplizio del fuoco, infine, si legavano le mani e i piedi in modo che, una volta seduto, non potesse cambiare posizione. Poi le sue estremità venivano spalmate con olio, lardo o altra sostanza grassa ed esposte davanti a una fiamma, finché la pelle del tutto bruciata non lasciasse intravedere i nervi e le ossa.
Dopo un primo assaggio di questi tormenti erano molti coloro che, pur essendo innocenti o peggio ancora non sapendo nemmeno cosa significasse in realtà la parola eresia, si rivolgevano al proprio inquisitore dicendo: "Vostra Eccellenza, mi dica cosa debbo confessare e io confesserò tutto quello che vuole".
Le confessioni estorte con la tortura dovevano però essere ratificate dalla vittima entro ventiquattr'ore, alla presenza di un notaio e senza uso di minacce.

Per questo tipo di penitenti le punizioni variavano dal carcere a vita alla fustigazione, al remo (condanna a vita a vogare sulle galere). Invece per coloro che, sopravvivendo alla tortura, tenevano testa al loro inquisitore e fino alla fine si rifiutavano di confessare ciò che non avevano commesso, o di abiurare le proprie convinzioni religiose, la sentenza di morte era emessa nel momento in cui il Tribunale li abbandonava al braccio secolare, ossia all'autorità civile.
L'eretico, infatti, siccome "la Santa Madre Chiesa non può versare il sangue di nessuno dei suoi figli", così dicevano i padri inquisitori, veniva giustiziato dall'autorità civile, che per il più orrendo dei crimini prevedeva la più orrenda delle morti: il rogo.
L'ultimo atto di clemenza che poteva venir compiuto nei confronti dei condannati a morire sul rogo (se si fossero però pentiti in extremis) era quello di ordinare al carnefice di strozzarli prima di accendere il fuoco.

 



Il brano è opera d'ingegno di Normanno Lombezzi ed è tratto da: "Ars Regia" n.7 1992, a cui si rimanda per gli approfondimenti.

Indice

La "Santa Inquisizione" L'Inquisizione in Spagna Tribunali e Giudizi Dies irae, dies illiae Tommaso Torquemada

Il Malleus Maleficarum Un olocausto sconosciuto Liberi Pensatori arsi a Roma Pomponio Algerio

 


Chiesa e Massoneria