E se avesse ragione Euripide là dove dice: "chi può sapere se il vivere non sia un morire e il morire vivere?" e che veramente la nostra vita sia simile alla morte. Anzi, una volta ho udito da Sapienti che noi ora siamo morti e che il nostro corpo è per noi una tomba.

 

Il documento che segue è stato rinvenuto negli archivi di Montesion, senza autore, una sola data Dicembre 1993 ed una dedica "A te che chiedi" seguita da una sigla, che però non ci consentono di individuare né il Fratello destinatario dello scritto né l'autore e ci obbliga ad un forzato anonimato, ce ne scusiamo con l'autore a cui non possiamo non pensare con un senso di profonda gratitudine.

 

© Montesion

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«E se avesse ragione Euripide là dove dice: "chi può sapere se il vivere non sia un morire e il morire vivere?" e che veramente la nostra vita sia simile alla morte. Anzi, una volta ho udito da Sapienti che noi ora siamo morti e che il nostro corpo (swma) è per noi una tomba (shma)».
(Platone, Gorgia: 492)

«Ma la Bellezza brillava ancora intera ai nostri occhi, quando insieme col coro dei Beati, seguendo noi Zeus, altri un altro Iddio, godevamo di una vista e di uno spettacolo beatificante, e ci iniziavamo alla più beata, è ben lecito dirlo, delle iniziazioni che celebravamo, allorché perfetti e immuni dei mali che ci attendevano nell'avvenire, iniziati ai più profondi Misteri, godevamo di quelle visioni perfette, semplici, calme, felici, in una luce pura, puri noi stessi e non sepolti in questa tomba, che chiamiamo corpo e che trasciniamo con noi, imprigionati in esso come ostriche nel proprio guscio».
(Platone, Fedro: 250 c, Sansoni Ed.)

Qualcuno leggendo questi passi di Platone, a meno che non sia addentro a questioni iniziatiche, potrebbe rimanere sconcertato e turbato. Il nostro corpo fisico - con cui ci identifichiamo e verosimilmente crediamo persino di essere - per Platone diviene una tomba in cui siamo sepolti e che trasciniamo e nel quale siamo imprigionati, come le ostriche nel proprio guscio.
Persino ad alcuni discepoli alla Liberazione queste parole potrebbero apportare turbamento fino a spingerli a cercare disperatamente valide argomentazioni per rivalutare l'esperienza corporeo-formale. Tralasciamo quanti hanno avuto esperienza diretta, fuori dal corpo, della "Bellezza brillante" e della visione beatificante di cui parla Platone (samādhi), a costoro non occorrono argomentazioni di alcun genere. Tralasciamo ancora quanti, pur non avendo avuto esperienza diretta, la sentono profondamente vera non per via di una semplice credenza fideistica, ma per un'intima e sicura certezza come di un lontano ricordo.
«Tutto questo sia detto, dunque, in omaggio al ricordo in virtù del quale, per il desiderio che abbiamo delle cose di allora, ora si è parlato piuttosto a lungo» dice Platone.
Perché la "forma", il composto corporeo può costituire un guscio imprigionante da cui - secondo Platone - dovremo al più presto uscire e volare verso altri lidi? Per rispondere a questa domanda dovremo analizzare la costituzione dell'ente secondo la Dottrina platonica e la scala gerarchica che Egli pone sul piano dei valori.
Dovremo anche dire che l'Insegnamento platonico – quello che ha potuto esporre, dal momento che per certe cose doveva mantenere il segreto iniziatico - è di ordine tradizionale e, per quanto riguarda il problema che stiamo esaminando, risponde all'Insegnamento esoterico, orfico, come Lui stesso fa capire.
L'ente, nel suo complesso, presenta una tripartizione composta di noûs-intelletto puro, psyché-anima e sôma-corpo.
Il noûs è il "pilota" della psyché e questa del sôma. La scala dei valori corrisponde a questo quadro: al primo posto vi sono gli Dei, valore prettamente universale e spirituale, poi viene l'Anima dell'uomo che rappresenta la sua parte più elevata e la cui qualificazione fondamentale è costituita dalla conoscenza che deriva dal noûs quale fattore autenticamente divino in noi; poi viene il corpo-sôma con le sue esigenze e i suoi bisogni vitali; infine, vengono le ricchezze o le cose esteriori in genere. L'Anima è immortale, mentre il corpo-sôma è mortale e soggetto quindi alla corruzione e a tutti i mali possibili; l'Anima è incorruttibile, per quanto un suo riflesso commisto al corpo ne subisca gli influssi.

«Di tutti i beni che ognuno possiede, il più divino, dopo gli Dei, è l'Anima che è il bene più intimo. In ogni uomo vi sono due parti: l'una superiore e migliore, che comanda; l'altra inferiore e meno buona che serve; ora la parte che in lui comanda bisogna che in lui l'onori sempre a preferenza di quella che serve».
(Platone, Leggi: V 726 a, traduz. del Cassarà)

«Due alati, ben congiunti amici, volano attorno allo stesso albero, uno dei due mangia il dolce frutto del pippala, l'altro invece Io guarda senza mangiare».
(Śvetāśvatara-up.: IV 6)

L'uno è l'aspetto trascendente, superiore; l'altro è il suo riflesso incarnato nel corpo. L'Anima ha innate tutte le virtù e la stessa conoscenza, essa contempla il Mondo delle Idee, del Bello e del Bene; il corpo è un semplice strumento privo di autonomia, pesante e resistente all'influsso del Bene divino: esso non può esistere senza la partecipazione dell'Anima, mentre questa essendo immortale non ha bisogno del corpo per essere; anzi, il suo ottundimento avviene quando prende un corpo.

«Sembra che ci sia un sentiero misterioso che ci porta, mediante ragionamento, direttamente a questa constatazione; in verità, fino a quando abbiamo un corpo e la nostra Anima è commista ad un male siffatto, non possiamo mai raggiungere in sufficiente misura ciò a cui aneliamo: cioè la verità».
(Platone, Fedone: 66 b)

Per Platone, e per la Tradizione, noi non siamo il corpo, noi siamo l'Anima con facoltà o meno di prenderci un corpo sul piano del sensibile, secondo che vogliamo salire o scendere negli stati molteplici dell'Essere. Per il Maestro ateniese la vera Filosofia è "esercizio di morte"; ciò implica che la morte del sensibile, nelle sue varie espressioni, produce la vita e la rinascita dell'Anima; quindi il Filosofo è colui che anela all'autentica Conoscenza-Bellezza-Bene, alla vera vita intellegibile e non cerca il corruttibile mondo delle ombre. Noi siamo esseri luminosi ma il sensibile - compreso il sôma - ci rende opachi, ottusi, tenebrosi:

«Il corpo è causa per noi di confusione continua, d'incessante turbamento»
(Platone, Fedone: 66 c).

«Questo corpo è il prodotto del cibo e costituisce la guaina del cibo. Vive a causa del cibo e muore se ne è privo. È un miscuglio di pelle, carne, sangue, ossa e altre relatività; così esso non potrà mai essere l'eternamente puro ātman che non deve la sua esistenza se non a se stesso».
«Prima della sua apparizione non poteva esistere, né dopo la sua scomparsa potrà mai essere; la sua parabola è solo un lampo. Le sue qualità sono aleatorie, è per natura soggetto a mutamento; è composto di parti, è inerte e, come una brocca, è un semplice oggetto sensorio. Tale corpo potrà mai essere l'ātman, l'indistruttibile Testimone di tutti i cambiamenti fenomenici?».
«Colui che è privo di senno s'identifica con tale ammasso di pelle, di ossa, di came, ecc., ma l'aspirante fornito di discernimento riconosce l'ātman come il solo reale ... ».
(Śamkara, Vivekacudāmani: 154, 155, 159)

Se si contempla la sfolgorante bellezza del sole, chi mai potrà rivolgersi ai deboli raggi della luna? afferma sempre Śamkara. Se per esperienza diretta, per intuizione superconscia, per "rimembranza", ecc. riconosciamo di essere pura Anima, pura Idea, o ātman, allora potremo dare ragione a questi due grandi Maestri della Tradizione spirituale. Se la nostra autentica patria è il mondo intellegibile, allora possiamo considerare la sfera del sensibile come una semplice precipitazione, priva di principio assoluto, attuata dall'Anima in discesa.
Il sôma (swma) diventa "sema" (shma) solo per il Filosofo; per chi non ha ancora compreso, essendosi identificato e assimilato a ciò che non è, esso diventa semplicemente causa di piacere-dolore, attrazione-repulsione, malattia-salute, rassegnazione-esaltazione, e così via. D'altra parte, in che modo possiamo considerare reale ciò che appare e scompare? Il corpo (e non soltanto quello fisico denso) è un aggregato di atomi e molecole che appaiono all'orizzonte del sensibile formale e scompaiono senza lasciare traccia. Platone ci sospinge a riconoscere ciò che è reale in noi; vale a dire la costante, il permanente, l'immortale. Tutti i mali del mondo derivano dal non saperci comprendere come Anima priva di qualità imprigionanti. Questo è il più sicuro messaggio per risolvere il conflitto e la sofferenza nel mondo degli uomini.

Nel Fedone: 78 d-e possiamo leggere:
«Quell'essere in sé che, interrogando e rispondendo, ci proponiamo di definire, permane sempre identico a se stessoo muta di tempo in tempo? L'eguale in sé, il bello in sé, ciò che ciascuna cosa è in sé, l'ente insomma ammette mai qualche pur minimo mutamento? ovvero ciascuna di queste realtà assolute, essendo in se stessa uniforme, è sempre nello stesso modo identica a sé, e non ammette mai per nessuna via e in nessun modo mutamento alcuno?
E Cebete: è necessario, o Socrate, che sia sempre nello stesso modo identica a sé.
Ma che diremo invece delle infinite cose, come uomini, cavalli, vesti e di tutte le altre o uguali o belle o comunque distinte con nomi derivati da quelle essenze? Son forse queste sempre identiche a sé o addirittura, al contrario di quelle, né in sé né tra loro non son mai, per così dire, in nessun modo le stesse?
Proprio così, disse Cebete, non sono mai allo stesso modo». (Traduz. di E. Martini).

Se l'Anima è la costante e ha in sé, e solo in essa, tutte le potenze, come Intelligenza, Volontà, Virtù, ecc., mentre il corpo-sôma è un semplice "vestito" da indossare, formando così il tempo-spazio, privo di determinazione e della facoltà discriminante; se l'Anima, eliminando quel vestito, può meglio esprimere le sue potenze, allora il corpo è solo un di più che può essere risolto e trasceso. Se accettiamo le premesse dell'Insegnamento platonico, le conseguenze sono inevitabili e inoppugnabili. Ma altrettanto inevitabili sono le conseguenze dell'Insegnamento vedantico: l'ente è ātman, Coscienza assoluta, Spirito puro, il quale può rivestirsi di un corpo-limite, come può anche non rivestirsene; può entrare in un mondo-prigione creato da se stesso, come può viaggiare negli "stati" infiniti dell'Essere ove il tempo-spazio viene completamente
annullato; può ancora rimanere raccolto in se stesso perché è causa sui o fondamento di se stesso. Che cos'è che crea la molteplicità? Sono i corpi-volumi, quindi il tempo-spazio-causa. Quando, secondo Platone, il complesso energetico irascibile (rajas) e concupiscibile (tamas) viene dominato e trasceso, l'Anima riacquista le ali e potrà volare verso quello stato universale da cui per "temerarietà", secondo Plotino, è discesa.
Quando il rajas e il lamas - secondo il Vedānta - sono trascesi, l'Anima vola verso il sole sfolgorante dell'ātman senza secondo. Con linguaggio diverso - ma non tanto - si esprime la stessa cosa perché la Tradizione è una, per quanto adattata ai vari popoli; essa può anche nel tempo sovraccaricarsi di "vestiti" verbali, ma chi sa andare di là dal mondo delle parole e delle interpretazioni prettamente dianoetiche, vi può scorgere un fondamento unico, una verità identica, un sostrato che è l'essenza noumenica.
«Tutto l'arcano», scrive M. Sendivogius nel De Sulphure, «è nascosto nello Zolfo dei Filosofi, il quale è anche contenuto nelle viscere del Mercurio».
«Il male si è», afferma Maximus in Ignis, convalidando il pensiero del Sendivogius, «che lo Zolfo si trova incarcerato in un tenebrosissimo carcere, ed è Mercurio che possiede le chiavi di questo carcere infernale. Occorre dunque prima trovarlo e poi liberarlo».