Scrive il F:. Mario Fabi in questa sua Tavola datata 1986: "Più di tre secoli fa, il 19 agosto 1662. moriva, a soli trentanove anni di età, Blaise Pascal, uno dei grandi maestri del pensiero europeo. Lo scrittore che ancora resta uno degli alfieri del misticismo cattolico nella tormentata storia dell'evoluzione religiosa che in ogni epoca è stata densa di contrasti, ripensamenti, cadute e conquiste." Il documento, pubblicato su: "Hiram" n.4 nel Aprile 1986, è opera d'ingegno del Fratello ed il suo contenuto non riflette di necessità la posizione della Loggia o del G.O.I. Ogni diritto è riconosciuto. © Mario Fabi La libera circolazione del lavoro è subordinata all'indicazione della fonte ed dell'autore. Download "Pascal e Voltaire..." |
Comparazione fra due religiosità diverse Più di tre secoli fa, il 19 agosto 1662. moriva, a soli trentanove anni di età, Blaise Pascal, uno dei grandi maestri del pensiero europeo. Lo scrittore che ancora resta uno degli alfieri del misticismo cattolico nella tormentata storia dell'evoluzione religiosa che in ogni epoca è stata densa di contrasti, ripensamenti, cadute e conquiste. Pascal morì dopo una lunga agonia nella cella di Port Royal, il monastero dei solitari che aveva scelto come dimora nove anni prima, dopo la celebre "notte di fuoco" che aveva radicalmente cambiato il corso della sua esistenza. Di questa agonia, illuminata da momenti di altissima spiritualità e rattristata da dispute che a noi, uomini del ventesimo secolo, possono apparire perfino assurde, ci ha lasciato una precisa descrizione la sorella Gilberte, la stessa che più tardi provvide a raccogliere e a tramandare attraverso la stampa alcuni dei più importanti scritti disseminati confusamente dal fratello nel tormentato epilogo della sua vita terrena. Pascal, che non aveva mai goduto una buona salute, cadde gravemente ammalato nel gennaio di quel 1662; per molti mesi continuò, pur costretto a letto, a lavorare in quella che avrebbe dovuto essere la sua opera più importante e alla quale intendeva dare il titolo di "Apologia della Religione"; ma il male gli concedeva solo poche tregue durante le quali tracciava su dei foglietti quei pensieri sublimi che furono poi pubblicati, a molti anni di distanza, e che pur nella loro frammentarietà costituiscono un'opera di altissimo valore letterario e spirituale. Egli sentiva avvicinarsi la fine e discuteva con i medici che invece - non so se per pietà o per scarsa perizia professionale - continuavano a negare la gravità del male e lo curavano con i rimedi empirici in voga nell'epoca. Pascal ambiva solo a vivere le sue ore estreme in perfetta armonia con la sua fede ardente; nell'ultima settimana implorava di continuo il sacerdote che veniva a confortarlo perché gli desse la comunione; ma questi non poteva impartirgli il sacramento perché, a causa delle medicine ingerite di continuo, non era in quello stato di digiuno che allora la Chiesa imponeva per la somministrazione dell'Eucaristia. Solo all'ultimo momento, quando dopo un gravissimo collasso, che per un po' lo lasciò come morto, si riebbe con uno sforzo che a molti fece pensare a un miracolo, il sacerdote accorse ed entrando nella stanza col sacramento gridò al morente: "Ecco colui che avete tanto desiderato". Pascal ebbe ancora la forza di alzarsi a metà, di sollevare il capo, di aprire il volto ad un sorriso che esprimeva una sorta di disperata felicità. Ricevette l'estremo viatico lacrimando, e mentre il curato lo benediceva disse le ultime parole: "Il Signore non mi abbandoni mai". Oltre un secolo dopo, il 30 maggio del 1778, moriva a Parigi all'età di 84 anni, Francois Marie Arouet, un altro grande maestro del pensiero umano, quello che tutto il mondo conosce con il nome di Voltaire. La sua fine, il suo passaggio all'Oriente Eterno, fu molto più rapida, apparve a tutti quelli che vi assistettero come il sereno tramonto di una lunghissima giornata. senza i tormenti e l'atmosfera di tragedia che accompagna quasi sempre il chiudersi delle esistenze umane. Voltaire si trovava a Parigi da qualche mese, vi era giunto dal castello di Ferney in cui trascorreva un'operosa vecchiaia dopo i lunghi anni di lotte, persecuzioni, arresti ed esilii che i suoi scritti gli avevano procurato. Era venuto nella capitale di quella Francia, che ormai si apriva all'età dei Lumi, per assistere alla rappresentazione della sua tragedia "Irene" e per essere iniziato alla Massoneria nella Loggia "Le Nove Sorelle", accolto ovunque con grandi onori e invitato a molte feste e banchetti. Si ammalò al termine di una settimana che sembrò l'apoteosi della sua vita e morì quasi senza soffrire. Ebbe il tempo di dire, in piena lucidità di spirito, queste parole in cui mirabilmente pare riassumersi tutta la sua lezione e il significato stesso della sua vicenda esistenziale: "Muoio adorando Dio, amando i fratelli, non odiando i nemici e detestando la superstizione". Spero non si trovi strano se nel tentare un raffronto fra due grandi figure della storia del pensiero, fra due uomini che primeggiano nell'arte sublime di aprire davanti alle menti mortali il difficile cammino della inesausta ricerca di valori e verità che trascendono la banale casualità del vivere, ho iniziato descrivendo l'ultimo momento della loro esistenza, il momento fatale che chiude il più o meno breve passaggio su questa terra per proiettarci nell'immenso mistero dell'Aldilà, ma mi è sembrato di cogliere ripescandone il ricordo da giovanili letture proprio in quei due momenti, in quei due modi di morire, un significato che meglio può illuminarci sulle differenze, sulla contrapposizione, diciamo pure sul contrasto di fondo che ha separato e separa le due sfere intellettuali nelle quali si sono mossi Blaise Pascal, col suo anelito all'avventura mistica, e Voltaire con il rigore della sua razionalità. Pascal è fuor di dubbio il campione della Fede; oggi nel mondo cattolico non esiste più nessuno, io credo, che non sia pronto a riconoscerlo come tale, e l'accanimento nei suoi confronti dei Gesuiti suoi contemporanei può essere compreso solo inserendolo nell'oscurità di un secolo in cui il Giansenismo, al quale egli si ispirava, veniva a turbare quello spirito di controriforma che dominava nelle alte gerarchie del clero e vedeva la Chiesa tutta dominata dalle forme di una religione esplicata esteriormente e basata sul rigido riconoscimento delle proprie gerarchie. Il giovanissimo genio che in pochi anni impone il suo nome all'attenzione del mondo con tutta una serie di scoperte scientifiche, con l'enunciazione di principi matematici e geometrici di enorme importanza, con sperimentazioni che aprono nuovi orizzonti allo studio della fisica, improvvisamente irrompe nel campo della filosofia e della teologia e rinnegando tutte le sue precedenti attitudini afferma che quelle scienze astratte non sono fatte per l'uomo; da ora in poi, egli proclama, consacrerà la sua mente alla Fede, e tutta la sua vita volgerà alla pratica della virtù, alla lotta contro le "tre concupiscenze", alla mortificazione della carne, alla cura e alla frequentazione dei sofferenti, tanto più cari quanto più malati e miseri. Partito dalla scienza, la più inesorabile e limpida delle scienze, la matematica, Pascal ha finito col ritrarsene, tanto che alla fine la sete del sapere non è più per lui che una concupiscenza da combattere come le altre. Diventa allora evidente che non si può assolutamente considerare Pascal un filosofo sistematico: i frutti delle sue analisi, spogliati dalla poesia che li avvolge, diventano discutibili: avrà buon gioco, un secolo dopo, Voltaire a denunciarne la fragilità razionale, il groviglio di contraddizioni in cui questa ricerca della verità, basata sul cuore e non sull'intelletto, si perde, la stranezza di un procedere verso concetti sublimi poggiando più su aforismi che su meditate progressioni logiche. Forse Voltaire nel suo giudizio critico ha calcato un po’ la mano quando ha affermato che Pascal era "il genio degenerato" al quale il cristianesimo aveva turbato la ragione fino al punto che durante gli ultimi anni della sua vita "vedeva sempre un abisso accanto alla sua poltrona"; ma è un fatto che la vita umana vista con gli occhi del pensatore di Port Royal è priva di ogni consolatoria fiducia nella possibilità di un progresso basato sulle proprie forze; la vita è per lui solo un perfido mare nel quale siamo tutti abbandonati a noi stessi e la religione - acquisita per via d'istinto e non per ragionata scelta - diventa l'unico rifugio di un'anima tormentata e debole davanti al baratro. E ancora: per Pascal l'uomo è un essere pieno di contraddizioni, vuole la felicità e non è in grado di procurarsela; le cose lo seducono finché non sono sue; quando diventano sue egli ne scorge la vanità e la labilità. Anche le facoltà intellettuali dell'uomo si contraddicono, i sensi lo ingannano, la fantasia lo fuorvia, la ragione stessa gli è fonte d'errore. Se scendiamo nella profondità del nostro io, scrive Pascal, ecco il nostro cuore, abisso di un tempo infinito e vuoto, perpetuamente incolmabile, perpetuamente aspirante a colmarsi. Ed ecco il nostro bisogno di sfuggire di continuo a noi stessi, di distrarci dal pensiero di vivere questa vita già pur tanto breve e fuggitiva. Voltaire si muove su sponde assai diverse e decisamente più accostabili per l'uomo che oggi, come ieri, voglia avvicinarsi al mistero dell'esistenza senza abbandonarsi alle tentazioni dell'estasi mistica. Al centro del pensiero e dell'insegnamento di Voltaire sta il lume della ragione, la pratica della tolleranza, la fiducia nella cultura e nel progresso. Ed è davvero singolare che molti degli stessi critici che hanno compiuto sforzi prodigiosi per difendere Pascal dall'obiettiva accusa di pessimismo non esitino poi un momento ad accusare invece Voltaire di ''irridente o sorridente pessimismo". Basterebbe il racconto della lunga e fattiva vita di questa straordinaria figura per distruggere l'accusa dei suoi avversari: i tanti anni passati nell'accogliere e soccorrere i perseguitati, i poveri, tutte le vittime di un potere dominato dalla prepotenza e dai rigori di leggi ingiuste; le case che egli fece costruire per i senzatetto, l'incessante aiuto ai contadini sfruttati, le battaglie per modificare legislazioni sorpassate e inique. La vita di questo patriarca dell'Illuminismo francese, che domina con le sue opere il cosiddetto secolo d'oro, non fu priva di triboli: l'imprigionamento alla Bastiglia contrassegna la sua giovinezza, l'esilio per sfuggire a nuovi arresti accompagna gli anni della maturità. Solo quando il malcontento generale avvicina la Francia al momento dei grandi cambiamenti che sfoceranno, dopo la sua morte, nella Rivoluzione, i potenti si accorgono che Voltaire, con le sue intuizioni, col suo senso già moderno della storia, con le sue prediche sulla tolleranza, con la sua richiesta di riforme, ha suonato un campanello d'allarme che potrebbe ancora evitare il peggio. Ma gli avversari non demorderanno né allora, né dopo; e anzi, con un perverso senno del poi, accuseranno Voltaire di aver seminato con i suoi ragionamenti e le sue denunce quei germi che faranno fiorire la Rivoluzione fino agli eccessi più sanguinosi e distruttivi. Senza tenere in nessun conto il fatto che la prima condanna pronunciata dai giacobini trionfanti è proprio anche se postuma - contro Voltaire e i suoi scritti. Altrettanto ingiusta e pur persistente è l'accusa che i suoi avversari hanno levato e continuano a levare contro Voltaire quando lo definiscono un maestro dell'ateismo. Basterebbe ricordare le parole pronunciate al momento della morte per smentire tale accusa, se non esistessero anche migliaia di pagine fra tutti i suoi scritti a dimostrare la sua assoluta certezza di una Presenza superiore, di una Provvidenza, di un Essere Supremo che ha originato il mondo e gli ha dato ordine, leggi, bellezza. Certo il Dio al quale si volge adorandolo nel momento supremo Voltaire, ha connotati diversi di quello terribile e misterioso di cui parla continuamente Pascal; ed è proprio qui che si scontrano le loro concezioni, è qui che risalta in modo nettissimo ciò che è un confronto tra Fede e Ragione. Mentre il giansenista si batte con tutto l'ardore di un ispirato, di un mistico, di un passionario, per la verità unica e non dimostrabile di una sola religione, Voltaire mette a confronto tutte le esperienze religiose, non ne condanna a priori nessuna, apre all'uomo e alla sua intelligenza un ampio ventaglio di scelte che esaltano la sua libertà, la sua fondamentale sete di verità, il suo diritto alla conoscenza e alla ricerca della felicità. Uno scrittore italiano, Gianni Nicoletti, nella sua prefazione ad una delle tante versioni italiane delle opere di Voltaire, ha dato di Lui un giudizio che vuoi essere positivo e che a me pare, invece, riduttivo. Nicoletti scrive che "è falso dire che Voltaire tolse le illusioni al mondo; constatò semplicemente che le illusioni non c'erano"; e aggiunge che ancora oggi egli "insegna a non prendere per arcobaleno una bolla di sapone: una saggezza limitata ma sempre meglio di tante follie". Io credo invece che Voltaire fece assai di più: sostituì alle false e pericolose illusioni cui sempre l'umanità è esposta il concetto e l'invito alla speranza temperata dal rigore della ragione; senza precludergli la visione dell'infinito in cui un Grande Architetto vigila e disegna il meraviglioso ordine delle cose, Voltaire ha dato all'uomo anche degli insegnamenti e delle regole che rendono meno difficile e meno penoso il suo percorso terreno. Questa pagina è stata letta |