| ||
ORATIO VALEDICTORIA A IORDANO BRUNO NOLANO D. HABITA
AD AMPLISSIMOS ET CLARISSIMOS PROFESSORES, ATQUE AUDITORES IN ACADEMIA WITEBERGENSI
ANNO MDLXXXVIII VIII MARTII
* * *
ORAZIONE DI CONGEDO PRONUNZIATA DA GIORDANO BRUNO DOTTORE DI NOLA
DAVANTI AGLI ILLUSTRISSIMI E CHIARISSIMI PROFESSORI E AGLI UDITORI DELL’ACCADEMIA DI WITTENBERGA
L’8 MARZO DEL 1588
ORAZIONE
Magnifico signor Rettore, illustri signori dottori celeberrimi e professori, e nobilissimi e dottissimi ascoltatori, chi non darà l’impressione di parlare sconsideratamente (trattandosi di cose per sé manifeste) se parlerà della luminosità del sole, che è il sensibile più lucente; della grandezza dell’universo, che è, come detta ogni ragione, la cosa più grande; della magnificenza di Dio, che giudichiamo, come grida la stessa natura, infinita? E potranno forse delle parole che sono note e segni delle cose, e di quelle nozioni che o sono per natura in noi o son acquisite con l’uso indicare più di quanto indicano la presenza stessa e l’evidenza delle cose significate? E come apprezzare la mia opera quando, cominciate le lodi di Sofia, si scoprirà che con tenebrosa luce delle parole mie io mi sforzo d’indicare il fulgore di sì gran luce? Eppure io spero che mi perdonerete, poiché sembra costume oscurare, dicendole, le cose più manifeste, mentre ci travagliamo a esprimere le cose ineffabili e consumiamo il tempo a balbutire, come possiamo, sopra di esse. Loderò quella luce, se pur può esserci lode dove, come il concetto (a cui tanta maestà sia apparsa) è di gran lunga inferiore e più angusto dell’altezza e grandezza della cosa, così anche le parole, a spiegare tutto quanto potei attingere con gli occhi della mente, grandemente difettano tanto più, in quanto io anche son privo di quel garbo d’espressione che è ordinario e quasi comune a tutti. Lungi da me, tuttavia, ch’io preferisca tacere ingrato, anziché esser giudicato, parlando, inelegante. Quando a Paride, sul monte Ida, si presentarono le tre dee per esser giudicate, affinché la più bella fra loro fosse riconosciuta tale col dono dell’aureo pomo, davanti a quelle tre disposte in ordine stava egli certamente dubbioso, né sapeva bene dove accostarsi, la vista degli occhi suoi e l’affetto del suo cuore essendo attratti ugualmente da tutte tre. Dopo esser rimasto un po’ sospeso perché stordito dallo stupore, Paride disse: Tutte e ciascuna son degnissime di vincere. O me felice, o fortunato giudizio mio, se o le tre dee fossero un nume solo, o l’unico pomo fosse tre pomi! Ecco qui maestà non senza bellezza e sapienza; qui sapienza, a cui nessuna maestà manca e bellezza; qui, bellezza non priva di sapienza e di maestà. Distogliete, distogliete gli occhi vostri da me, perché muoio. Non potrò, o Mercurio, approvarne una a preferenza delle altre, se non le esaminerò una a parte dalle altre. Presentatasi dunque anzitutto la moglie di Giove, Paride disse: “O maestà ammirevole, come rifulge regale e venerabile, e, appunto, veramente degna di Giove: di quest’altezza, di questa divinità, che cosa potrebbe essere più desiderabile agli occhi miei? Già certo io so che questa debbo anteporre a tutte le altre. Ma tu dice Mercurio devi esaminare anche le altre. S’avvicina dunque Minerva. O cielo, o mari, dice Paride qual vergine! che formidabile nobiltà, e al tempo stesso, che amabile bellezza! che occhi! o eternità, che faccia! e che splendore in questo corpo! Che cosa ne è la natura? Lungi da me che qualcosa mi piaccia di più, e m’accada di dar parere contrario a sì gran luce. Sì, dice Mercurio ma quando avrai considerata anche la terza”. “E quando questa gli sta dinanzi, O Giove, dice autore di tante meraviglie, quale spettacolo! qual superiore bellezza, quale piacere! esso mi lega, m’avvince, mi stringe, mi comprime. mi consuma! guarda con una misteriosa soavità e mi ha arriso con dolcezza e giocondità. E dunque, Mercurio, non resta altro da fare? Risponde: Tutte le hai viste ed esaminate. Profferisci dunque il tuo giudizio. E Paride: Il bel dono, il bel pomo, sia dato a chi è più bella”. Voi vedete, miei ascoltatori, come codesto giudice apprezzò equamente tutte e ciascuna a una a una: e con questo avvenne tuttavia che toccò di essere prima nel merito a quella delle tre che era stata l’ultima nell’ordine: perché, quando una era presente, il suo aspetto cancellava la memoria della bellezza delle altre assenti. La favola nota quel che avviene a me e ai più tra i mortali quando si tratta delle tendenze, del genio, della fortuna e della necessità di affrontare il destino. A Giunone attribuiscono il pomo gli avidi di potenza, ricchezze, principati, regni ed imperii. A Minerva quelli che a ogni cosa antepongono il consiglio, la prudenza, la sapienza e l’intelletto. A Venere coloro che abbracciano le amicizie, le compagnie, la tranquillità della vita, la bellezza, le giocondità e i piaceri. Ché in questa scena del mondo, anche se queste cose, tutte e ciascuna, sommamente piacciano a tutti e a ciascuno, è nondimeno sancito dal fato che non sia possibile servir egualmente e riverire tutti i numi di tal triade, e aspettarci, conseguentemente, da tutti egual favore. A un solo nume, non a tre, un solo aureo pomo del nostro amore (cioè l’affetto del nostro cuore), non tre pomi, potremo non invano consacrare. Si ricordino dunque i Paridi della loro Venere, poiché col suo volto stellante, essa che è il piacere degli uomini e degli dèi, dissipa le nubi. Esaltino altri Giunone, che con Giove massimo regge l’universo. Io proclamerò, dal mio canto, qual lume e nume mi rifulse. Ma che proclamerò? Forse di lei vidi nuda qualche parte? Forse ne contemplai la faccia, la fronte, la bocca, le guance, gli occhi, anche solo un po’ con uno sguardo furtivo? Forse occhio mortale, di tanta bellezza, congiunta con tanta maestà, attentamente fissando, poté sostener lo splendore? L’altissimo firmamento è la sua bellezza e nell’ornato del cielo appare la gloria, il sole sorgendo annuncia il giorno, strumento ammirabile, opera dell’eccelso: a mezzodì brucia la terra, e chi potrà resistere alla sua vampa? Il sole, bruciando i monti e mandando raggi di fuoco e rifulgendo triplicemente, coi raggi suoi acceca gli occhi. Costei, guardandomi con torvo, minaccioso e sdegnoso volto, per farmisi riconoscere non Venere ma Minerva, massimamente m’avvinse, e tanto più m’attiro a desiderarla e amarla. giacche quel che Venere fa con blandizie, essa compie senz’alcuna blandizia. Ma perché dirai è schifiltosa questa vergine? Perché io ti rispondo la sapienza non si concede così facilmente ed effusamente come le ricchezze e i piaceri. No, non ci sono nè ci furono tanti veri filosofi quanti sorgono e sorsero imperatori e principi, nè tanti poterono vedere Minerva pure vestita e armata, quanti Venere e Giunone anche nude. Il famoso Paride, se la vide, non certo la osservò, nè su lei fissò gli occhi. Veder Minerva significa diventar cieco, diventar savio per virtù sua significa essere stolto. Dicono che Tiresia divenne cieco per aver mirato nuda Minerva. Chi, contemplatala, non dispregerebbe di veder il resto? Ma io, la vidi, o sognai d’averla veduta? La vidi, se pur, vedendola, non perdetti il senso e il lume degli occhi. La vidi; se pur la vidi e non peni. Con più attenta meditazione apprenderla con gli occhi è morire e venir meno. Nessuno mi vedrà e vivrà. Or dunque, tacendo di quello che a stento riuscirebbero a dirne le voci dei Mercuri e dei nunzi degli dei, veniamo a descriverne solo ciò che le sta dintorno e gli indumenti e ornamenti più adatti alla vista dei nostri occhi. D’un casco fulgidissimo, d’orribile aspetto, era ella armata, il quale le ombrava il volto verginale pur soavissimamente. Così colui ch’ella assiste non è mai inerme, a rintuzzare gli eventi della fortuna col consiglio, o a superarli con la pazienza: ché, nient’altro che una milizia essendo la vita dell’uomo sopra la terra, questa è colei che rovescia l’improbità degli scellerati, ne reprime l’audacia e ne disperde i disegni. Così essa uccise Egeo (mostro pressoché inespugnabile) che con gli altri giganti tentava di cacciare dal suo regno Giove, Egeo, figlio della Terra, dalle cinquanta teste, che dalla bocca mandava una fiamma immensa, e aveva cento mani, onde fidava con cinquanta spade trapassare i chiostri adamantini, e con altrettanti scudi sprezzava i tremendi fulmini di Giove; l’uccise, e se n’adattò la pelle per ornamento al petto, in parte per allontanare i pericoli, in parte anche qual ricordo glorioso delle sue gesta. In quella guerra dei giganti (i quali, salendo sopra i più alti monti, si dice gittassero contro gli dei macigni tali, che da quelli che caddero in mare si ritengono prodotte le isole), costei manifestò come ogni forza umana, per quanto grande, riesca impotente, quando insorga contro la verità di Dio, ed egualmente la temerità, l’arroganza e la presuntuosa ignoranza dei figli della terra, sia vana. Ché la maggior parte di loro è fama che Minerva trucidasse senza quasi nessuna fatica. E poiché più di ogni altra cosa nella condotta delle guerre è necessaria la sapienza, madre d’ogni solerzia, si facciano esse contro nemici visibili o contro invisibili, perciò ella è il nume dei belligeranti. Uno scudo di chiara trasparenza e da molti serpenti circondato le è attribuito, ché è natura dei serpenti aver vista acutissima: per ciò siamo esortati ad esser prudenti come serpenti (perché questo animale, come attesta Mosé, è più astuto di tutti gli animali della terra), giacché, se l’acume della vigilanza e del provvedere anche alle cose più lontane non rafforzerà e ornerà il comandante della milizia, qual difesa stimeremo che resti contro tante e così potenti miriadi di nemici che ci circondano e ci insidiano? Lo scudo che essa porta si dipinge lucentissimo e cristallino (vale a dire trasparente), perché dove sarà visibile la verità d’un sapiente e tutto il suo modo di vivere, lì è certissima e massima resistenza contro gli insulti dell’imperiosa fortuna. Le si dà un elmo crestato, perché in tutto bisogna usare non solo forze ed energia, ma anche l’ornamento d’una certa urbanità e moderazione. Sopra il casco di questa dea stava un gallo con le ali aperte in atto di scuotersi, sia perché è animale battagliero, sia perché è vigilantissimo, e quasi preconscio del futuro. Le si attribuisce un asta con gran cuspide, perché tanto per difendersi quanto per espugnare e debellare, occorre acume d’ingegno: e i dardi suoi sono ragioni acute, missili, veloci, che feriscono l’anima. Davanti a lei, alcuni che osano insorgerle contro, li atterrisce con la faccia della Gorgone e li converte in pietre, perché tanto è formidabile e ammirabile la sapienza, che dal timore e la meraviglia di lei gli uomini restano sospesi e stupefatti. Qual’è dunque costei che procede quasi sorgente aurora? così bella? così eletta? tanto terribile? È la sapienza, la Sofia, Minerva, bella come la luna, eletta come il sole, terribile come esercito schierato. Luna per la lucente venustà; sole per l’alta maestà; campo fortificato per l’invittissima fortezza. Ha un soglio prossimo a quello di Giove secondo quei versi del poeta lirico: ((Minerva tuttavia si ebbe gli onori più a lui vicini.” E secondo il detto del profeta: e Io, la sapienza, abito nei luoghi altissimi, e il trono mio sta su la colonna d’una nuvola”: non è forse il sapiente similissimo a Dio per la sua potenza, la sua facilità e la sua autorità nell’agire? Sul margine di quel soglio vidi scolpita la civetta a lei sacra, perché dappertutto anche ciò che agli altri è oscurissimo la sapienza lo vede, secondo le famose parole: “Le tenebre non saranno oscure per te, e la notte s’illuminerà come giorno, e non ti sono occulte le ossa mie, che tu facesti nel segreto”. Nel campo del soglio, invece, c’era, opra di Vulcano, una mirabile descrizione dell’universo, cioè la storia delle opere di Dio e un suo corporeo simulacro. Dove anche erano scritte queste parole: “Egli mi ha dato scienza vera delle cose esistenti perché io conosca la disposizione della terra, le virtù degli elementi, il principio, il termine e il mezzo delle stagioni, i mutamenti delle vicissitudini, i cangiamenti dei costumi, i corsi dell’anno, le disposizioni delle stelle, le nature degli animali, le ire delle bestie, la forza dei venti, i pensieri degli uomini, le differenze dei virgulti, le virtù delle radici, e quante cose sono agli altri uomini nascoste e impreviste, È difatti in me lo spirito dell’intelligenza santo, unico, molteplice, sottile, eloquente, mobile, non inquinato, certo, soave, benevolo, acuto, umano, benigno, affabile, sicuro, pieno d’ogni virtù, che vede tutto di lontano”. Vicino al soglio vidi il celebre Palladio, che insinuava sia il suo significato sia la sua forza, per la quale tanto persevera incolume, sicura e dai nemici inespugnabile la città, quanto in lei inviolato sarà custodito il Palladio. Questa forza è il fulgore e l’emanazione della sapienza, che assistendo gli uomini nell’amministrazione dei pubblici affari è ad essi la migliore difesa. Se, dunque, ora domandate la sua stirpe, di Giove è figlia, senza madre, perché fu partorita dal capo di Giove, come descrivono i poeti orfici e conferma la rivelazione dei profeti. Onde “Io dalla bocca dell’Altissimo uscii, io primogenita avanti ogni creatura”. Nata, dico, dal capo di Giove. Ché è un vapore della virtù di Dio, e un’emanazione sincera, pura, illustre, intemerata, retta, potentissima, superbenigna, a Dio gratissima, incomparabile, della chiarità onnipotente: pura, perché niente d’inquinato entra in lei; illustre, giacché è candore di luce eterna; intemerata, perché specchio senza macchia della maestà di Dio; retta, perché immagine della bontà di Lui; potentissima, perché, essendo una, può tutto, e in sé permanendo, innova tutto, superbenigna, ché si trasferisce dall’una all’altra delle nazioni sante, costituisce amici di Dio e profeti; a Dio gratissima, perché Dio non ama se non chi abita con la sapienza; incomparabile, giacché questa è più bella del sole, e al di sopra d’ogni disposizione delle stelle, paragonata alla luce, si trova clic è superiore. Tale e tanta, dunque, ella essendo, non è meraviglia se tutti son presi, nonché dalla sua bellezza, persino anche da ogni cosa simile alla sua bellezza. Udite Salomone: “Io la preferii” dice “a regni e a troni, e niente stimai le ricchezze a paragone di lei, nè paragonai a lei pietra preziosa, ché tutto l’oro, a paragone di lei, e poca sabbia, e come fango sarà valutato l’argento a cospetto di lei: al di sopra della salute, dell’avvenenza e d’ogni bellezza io la amai, e mi proposi di tenerla come luce, perché è inestinguibile il lume suo. E insieme con lei vennero a me tutti gli altri beni e, perché di tutti i beni è madre”. Ché tesoro infinito essa è per gli uomini: quelli che ne usano, son fatti partecipi dell’amicizia di Dio. Quindi, se degli amici tutti i beni son comuni, ricchissimo è il sapiente. Che potrà darti Giunone, che tu non possa ricevere da costei? Che ammiri in Venere, che tu non possa contemplare in costei? Non è mediocre di costei la bellezza, ché il Signore di tutto la predilesse. Questa io amai e cercai fin dalla mia giovinezza. e chiesi di prenderla in sposa, e divenni amatore della bellezza sua. Mi presentai dunque al Signore e lo pregai e gli dissi dai precordii: Dio dei padri miei, Signore di misericordia, che facesti tutto col verbo tuo, e con la tua sapienza costituisti l’uomo perché dominasse su la creatura fatta da te: dammi la sapienza che assiste ai troni tuoi, e non riprovare il servo tuo. Inviala dai cieli tuoi santi, dal trono della grandezza tua, perché stia con me e con me lavori, perché io sappia che cosa mi manca, e che cosa è accetto presso di te: giacché essa sa e intende, e mi guiderà nelle opere mie saggiamente, e mi custodirà in suo potere. Certamente la manda Dio padre, la mente fecondissima; la manda, chiarissimi ascoltatori; ma come la manda? Certo, solo come può adattarsi agli occhi della mente nostra, cioè in ombra di luce. Come, rimanendo il sole inaccessibile, inafferrabile, e nell’infinita luce occultissimo in se stesso, con l’emissione dei raggi la chiarirà sua irraggiando discende fino a noi e per tutto si comunica e diffonde. Giacché, come prima c’è l’essenza del sole, che a stento è attinta dalla sola mente; poi c’è la sussistenza del sole, che, tenendo il proprio orbe e in se stesso consistendo, vive dove vive; infine c’è l’assistenza del sole o sua operazione, che comprende tutto ed è compresa da tutto: tino altrimenti si può considerare in triplice modo il sole dell’intelligenza: prima, nell’essenza della divinità; poi, nella sostanza del mondo che è immagine di quella; infine, nella luce della coscienza di quegli esseri che partecipano di vita e di conoscenza. Nel primo grado è dai Cabalisti chiamata e indicata come sephirot cochma; nel secondo, dai teologi orfici è nomata Pallade o Minerva; nel terzo, comunemente le si dà il nome di Sofia. Nel primo, non è inviata, non è comunicata, non è presa né compresa, perché è sciolta totalmente dalle cose. Odi Giobbe: “La sapienza dove si trova? qual è il luogo dell’intelligenza? Non conosce l’uomo il suo pregio, nè si trova nella terra di coloro che vivono con dolcezza. L’Abisso dice: Non è in me; parla il mare: Non è con me. Nascosta è agli occhi di tutti i viventi, anche agli uccelli del cielo sfugge (cioè ai numi, agli astri, a codesti dèi di fuoco, e sfere acquee, che al di sopra del firmamento corrono e per l’etereo campo quasi volando con regolarissimo e velocissimo circuito compiono i propri giri). Dissero la Perdizione e la Morte: “Con le nostre orecchie udimmo la fama di lei”. Dio solo intende le vie sue, ed egli sa il luogo di lei. “Nel secondo modo, manifestissima è la sapienza nella superficie e nel corpo di tutte le creature: dappertutto essa grida, da ogni parte s’ode la voce sua: che sono, infatti, tutti gli astri che si vedono, e gli animali e i corpi, e la loro armonia, se non voci e vestigia della sapienza, opere della divinità che ne indicano l’altissima provvidenza, e nelle quali, come in libro chiarissimo, si legge la storia della divina potenza, sapienza e bontà? Ché i disegni invisibili di Dio si comprendono attraverso quello che ha fatto: hai qui la parola della Scrittura. Vuoi inoltre udire le voci dei predicatori? I cieli narrano la gloria di Dio, e il firmamento annuncia le opere delle sue mani, e non son linguaggi e discorsi di cui non s’odano le voci: in tutte le orecchie, per tutta la terra si sparse il suono loro”. Nel terzo modo la sapienza e insita nel nostro spirito, siede su la poppa dell’anima nostra, reggendo il timone di tal nave fluttuante nel turbatissimo mare di questo secolo, dove è anche il faro dello spirito che altrimenti s’aggirerebbe nelle tenebre. Così tre case ha la divina sapienza, la prima non edificata, eterna, anzi la sede stessa dell’eternità; la seconda, primogenita, che è questo nostro mondo visibile; la terza, secondogenita, che è l’anima umana. Della prima dice Giobbe: “Il Signore sa il luogo suo, a Della seconda dice Salomone: Io, la Sapienza, abito nei luoghi altissimi, cioè negli astri, nell’eterno firmamento”. Della terza soggiunge: “Abito nel consiglio, intervengo nei pensieri eruditi, mia delizia è stare coi figli degli uomini”. Qui, dunque, finalmente, tra gli uomini, la sapienza si edificò una casa razionale e intenzionale, che è dopo il mondo, e in questa dobbiamo vedere l’ombra della prima casa archetipa e ideale, che è prima del mondo, e l’immagine della seconda casa, sensibile e naturale, che è il mondo. Qui essa s’intagliò sette colonne, cioè le sette arti: Grammatica, Retorica con la Poesia, Logica, Matematica, Fisica, Etica, Metafisica. La prima, perché regoli la scrittura e un congruo discorso, a formare l’umana conversazione. La seconda perché, persuadendo e dissuadendo, lodando e vituperando, accusando e difendendo, freni e moderi gli animi e gli affetti degli uomini. La terza perché diriga le tre operazioni dell’umano intelletto: concepire, enunciare e argomentare, e le conduca allo scopo. La quarta che, combinando e confrontando gli utili concetti circa i numeri, le grandezze, i pesi e i momenti delle cose, indaga esamina e compie l’Aritmetica, la Musica, la Geometria, la Pittura, la Prospettiva, la Fisionomia, l’Astrologia, l’Astronomia, e moltissime specie di divinazioni. La quinta, che specula la natura delle sostanze corporali nelle cause, nei principi e negli elementi, affinché ciascun uomo contempli se stesso nei mondo, e il mondo in se stesso: onde si fan l’agricoltura, la medicina, la chimica, e tutte le specie di Magia. La sesta, perché applichi l’ordine della giustizia assoluta, moderativa, dispositiva, distributiva, commutativa, al Diritto in assoluto, in ordine a se stesso; al diritto economico, in ordine ai famigliari; al politico, in ordine ai concittadini; al diritto civile, in ordine al principato o all’impero; all’ecclesiastico, in ordine alla comunità dei correligionari; al diritto delle genti, in ordine a tutti gli uomini; al diritto naturale, in ordine alle cose che sono dentro di noi e intorno a noi; al diritto divino, per l’ultimo fine e il primo efficiente, che è sopra di noi. La settima, con la quale si colgono le ragioni di quante cose esistono, e i principi e le cause tanto delle cose tutte, quanto di ogni cognizione, che proviene dalle idee, sostanze separate ed assolute. Sopra queste sette colonne la sapienza si edificò la casa tra gli uomini. La quale casa, se guardiamo la storia, primamente apparve presso gli Egizi, e presso gli Assiri tra i Caldei. In secondo luogo presso i Persiani, tra i Magi, sotto Zoroastro. In terzo luogo presso gli Indiani, tra i Gimnosofisti. In quarto luogo presso i Traci e contemporaneamente presso i Libici, sotto Orfeo e Atlante. In quinto luogo presso i Greci sotto Talete e gli altri savi. In sesto luogo presso gli Itali sotto Archita, Gorgia, Archimede, Empedocle, Lucrezio. In settimo luogo presso i Germani ai nostri tempi: sicché sembra certo che, con Giove e l’Impero a immagine della curia celeste, Minerva, questa Sofia, abbia, con una vicissitudine di successioni, cambiato paese e mutato sedi. Non crederete, o ascoltatori dottissimi, che io falsamente vi aduli, se vorrete più da vicino considerare le vostre ricchezze, voi che tra altri siete più oculati. Dal tempo che ai vostri principi fu devoluto l’impero, moltissimi ritrovati delle arti e degli ingegni d’uomini sorsero presso di voi, ai quali niente di simile s’incontrava presso le nazioni estere. Al famoso Alberto Magno, svevo, chi fu simile nel suo tempo? O non riuscì, per molti numeri, superiore allo stesso suo principe Aristotele, del quale indegnissimamente (essendo cocollato), secondo la condizione di quel tempo, fu seguace? Dio buono, dov’è chi possa esser assomigliato al famoso Cusano, il quale, quant’è più grande, a tanto meno persone è accessibile? Se il vestito da prete non avesse turbato il suo ingegno, non pari a ingegno pitagorico ma di gran lunga superiore io riconoscerei e dichiarerei il suo. E Copernico pure, qual credete che sia, non solo come matematico, ma (cosa mirabile) occasionalmente anche come fisico? Si scopre che egli ha compreso di più in due capitoli, che Aristotele e tutti i Peripatetici nell’intera loro filosofia. Quanto sublime ingegno crederete palesi Palingenio in quel suo dimesso poema? quanto mirabili cose, al di sopra della volgare opinione verissime, egli mostrò su la dimensione dell’universo, la sostanza delle stelle, la natura della luce, l’abitabilità delle sfere e l’anima delle sfere? O non sono le cinquecento sue poesie (fra tanti autori da nulla) superiori all’atticismo e al romanismo dì quanti militarono sotto il vessillo peripatetico parlando piuttosto elegantemente ma stoltissimamente pensando? Al medico Paracelso, medico fino al miracolo, chi, dopo Ippocrate, fu simile? E quanto debbo ritenere che avrebbe visto da sobrio colui che tanto poté vedere da ubriaco? E lascio altri che perfettissimamente imitarono e imitano le muse attiche ed ausonie: e fra tutti quel Maior (a voi notissimo) che le pareggia, più che non le imiti. E lascio che anche la Germania ha i suoi Theut inventori di nuove scritture, i Salmonei che emulano i fulmini di Giove, nuovi Vulcani, Prometei, Dedali, Esculapi, Endimioni, al più piccolo dei quali non troverete chi assomigli nelle nazioni estere; sicché potete riconoscere che in questi tempi, proprio qui la sapienza s’edificò la casa. E perché i re non invidino i re, quella scienza degli astri, cioè quell’alto occhio dei principi vòlto al cielo, quell’occhio che fra i primi vasi divina sapienza tra le prime genti è sorto, secondo quei versi del poeta Manilio: “La quale mosse dapprima gli animi dei re già vicini alle cose eccelse del cielo, i quali conoscono tanto splendore e, primi fra tutti, riconobbero che il destino degli uomini dipende dal corso delle stelle”, se gli Egizi ebbero, temibili per principato, venerabili per sacerdozio, ammirevoli per sapienza, quei Trismegisti, quegli Ermeti, quei Mercuri, che sotto il nome di Erittonio, di Orione e d’Ofiulco son per tal ragione inseriti fra gli astri; e i Greci, nello stesso modo, ebbero il loro Perseo figlio di Giove, e Chirone ed Ercole; e i Persi Zoroastro, re dei Battriani; e i Medi il loro Gige e Sabore; e i Libici, come un volta il loro Atlante, così, nei tempi più vicini, Gamaliele e Aluli re di Damasco; e gli Alessandrini Tolomeo; gli Spagnoli re Alfonso; gli Itali Numa, e Cesare dittatore, e Augusto e Antonino e Adriano, e il pontefice massimo Paolo III: presso i Germani non solo troveremo principi cultori dell’astronomia comunemente ricevuta, quali sento che furono i cesari Carlo V e Massimiliano Il, dai quali il vivente Rodolfo non degenera; nè solo fautori, instauratori e promotori dell’arte ignota quali Cristiano III e Federico il re di Danimarca e Norvegia; ma anche ritrovatori di quella verità, pur a lungo una volta perduta e sepolta, che vigeva presso Caldei e Pitagorici: ritrovatori, quale sappiamo esser in Germania il Langravio Guglielmo d’Assia, che con gli occhi del proprio, anziché dell’altrui senso e intelletto, non solo coi Tolemaici conosce l’astronomia caudataria dell’esorbitante filosofia peripatetica, ma anche quell’altra astronomia che non riconosce orbi fisicamente deferenti e stelle quasi infisse o scolpite nelle sfere, e comete che nullameno affermi della stessa sostanza con le altre stelle, consistendo eterne nella regione eterea, pervadendo l’etere e l’aria, spaziando in su e in giù dalla terra e alla terra, e che così dimostrano esservi un solo cielo, o aria, o campo etereo continuo. Infatti astri apparsi anticamente e recentemente si dimostra che entrano, penetrano e attraversano le sfere degli altri. Sicché come può ammettersi quella Chimera, l’impenetrabile indivisibile e inalterabile quinta essenza o natura, quel mezzo, quel centro mondano, quel moto circolare continuo e regolare a rigore geometrico dei corpi naturali, con quella quantità e quegli ordini immaginati senza nessun senso e ragione, e con le moltissime altre cose che a questo conseguono (non occorre certo passarle in rassegna), per non intendere la differenza tra soli fissi e terre, vaganti intorno ad essi con rapporti diversi, terre che, mosse dalla virtù della propria anima, penetrano l’aria immensa, nonché per aborrire di concepire questa Terra madre nostra come uno degli astri per niente meno degno di molti circostanti, e quelle cose che con mille argomenti irrefragabili fisicamente conosciamo, e più e più resteranno confermate dalle osservazioni, che son diffuse nella relazione di altri, di codesto principe famosissimo. Qui dunque la sapienza s’edificò la casa. Aggiungi, o Giove, ch’essi comprendano la propria forza e si moderino, aggiungi che s’accostino con l’attenzione a cose maggiori, e non saranno uomini, ma dèi. Divina, anzi divinissima, è l’indole di questa gente: soltanto, essa non eccelle in quegli studi ai quali non prende gusto. Ma chi è colui che passavo sotto silenzio? Quando quel forte armato di chiavi e di spada, di frodi e di potenza, di astuzie e di violenza, d’ipocrisia e di ferocia, volpe e leone, vicario del tiranno infernale, avvelenava l’universo con un culto superstizioso e un ‘ignoranza più che brutale, sotto colore di sapienza divina e semplicità grata a Dio; quando alla voracissima bestia non c’era chi osasse contrastare e resistere per disporre il secolo indegno e perdutissimo a migliore e più felice forma e stato, qual altra parte d’Europa o del mondo poté darci quell’Alcide, tanto più prestante d’Ercole stesso, quanto più agevolmente portò a compimento cose più grandi (non è forse un compimento l’inizio strenuo e valoroso di impresa così eccellente)? Che se tu vedi annientato un mostro più grande e di gran lunga più pernicioso di quanti da tanti secoli mai esistettero, “non domandar della clava: è stata la penna”. Di dove egli venne? di dove? Dalla Germania, dalle rive di codesta Elba. dall’ubertà di codesto fonte. Qui voi vedeste quel Cerbero tricipite, insigne per quella triplice tiara, tratto fuori dall’orco tenebroso; qui egli vide il sole. Qui quello stigio cane fu costretto a vomitar l’aconito. Qui l’Ercole vostro e della vostra stirpe trionfò delle adamantine porte dell’inferno, di quella città circondata di triplice muro, stretta dai nove giri dello Stige. Sì, o Lutero, vedesti la luce, la contemplasti, udisti il divino spirito che t’incitava, obbedisti al suo precetto, all’avversario, da cui indietreggiano principi e re, t’opponesti inerme, l’assalisti con la parola, lo contrastasti, l’impedisti, gli resistesti, lo vincesti, e del nemico superbissimo portasti ai superi le spoglie e il trofeo. Qui dunque la sapienza s’edificò la casa, qui s’intagliò quelle sette colonne, qui cominciò a mescere pel sacrificio un vino migliore, qui pose la riformata mensa dei Sacramenti. Di qui chiamò gli invitati, che venissero, che venissero. E vennero da ogni gente e nazione e popoìo dell’Europa civile, Itali, Galli, Spagnoli, Portoghesi, Inglesi, Scozzesi, abitanti delle isole polari, e Sarmati, Unni, Illirici, Sciti: da Oriente, da Mezzogiorno, da Occidente e da Aquilone. Venni, tra gli altri, io, attratto dal desiderio di visitare la casa della sapienza, ardente di contemplare codesto Palladio, onde non mi vergogno d’aver sopportato la povertà, la malevolenza e l’odio dei miei, le esecrazioni, le ingratitudini di coloro ai quali volli giovare e giovai, gli effetti d’un’estrema barbarie e d’un’avarizia sordidissima; e i rimbrotti, le calunnie, i torti, anche le infamie di quelli che mi dovevano amore, servizio, onore. Nè mi vergogno d’avere sperimentato derisioni e dispregi di ignobili e stolti, persone che, mentre son proprio bestie, sotto immagine e similitudine d’uomini, per il modo di vivere e la fortuna, insuperbiscono di temeraria arroganza. Per il che non mi duole d’esser incorso in fatiche, dolori, esilio: ché faticando profittai, soffrendo feci esperienza, vivendo esule imparai: ché trovai in breve fatica lunga quiete, in leggera sofferenza gaudio immenso, in un angusto esilio una patria grandissima. Andate ora, antichi filosofi, percorrete le province, avvicinate nuovi popoli, passate i mari. Va ora, o Pitagora, ai vati di Menfi; o Archita, ai lidi d’Italia; o Platone, in Sicilia. Va ora, o Tianeo, tra i Persi, passa il Caucaso, gli Sciti, i Messageti, entra nei regni opulentissimi dell’India e, attraversato il larghissimo fiume Fiso, va dai Bramani, gira fra gli Elamiti, i Babilonesi, i Caldei, i Medi, gli Assiri, i Parti, i Siri, i Fenici, gli Arabi, i Palestinesi, Alessandria, e va in Etiopia per vedere i Gimnosofisti e la famosissima mensa del sole su la sabbia. Tutto questo, e anche cose più grandi, e più grandi di quelle che voi cercaste in tante e così grandi regioni del mondo, io ho trovato nella sola regione di Germania. Aggiungi che, dopo aver trovato i Germani tanto dotti da riconoscerli meno di qualsiasi altro popolo barbari e agresti, essendo io venuto per vedere i vostri lari, sebbene fossi di nazione forestiero, esule, fuggiasco, zimbello della fortuna, piccolo di corpo, scarso di beni, privo di favore, premuto dall’odio della folla, quindi disprezzabile agli stolti e a quegli ignobilissimi che non riconoscono nobiltà se non dove splende l’oro, tinnisce l’argento, e il favore di persone loro simili tripudia e applaude, tuttavia voi, dottissimi, gravissimi e morigeratissimi senatori, non mi disprezzaste, e lo studio mio, non del tutto alieno dallo studio di tutti i dotti della vostra nazione, non lo riprovaste in guisa da permettere che fosse violata la libertà filosofica e macchiato il concetto della vostra insigne umanità: al contrario, accoglieste me, cieco per l’amore della vostra Minerva, dico di quella vergine che è la vostra madre di famiglia, cieco e desipiente; ed entro i vostri lari per lo spazio di circa due anni mi proteggeste, e con certa giovial mente mi sosteneste, e non porgeste affatto orecchie ai nemici miei, sicché potei solo esservi occasione, materia, subietto in cui dar l’esempio e mostrar le ricchezze delle vostre virtù di moderazione, urbanità e longanimità, provandole a cospetto del mondo. Aggiungi che quando io pensai alla partenza e, per proseguire la parte del debito mio e del mio ufficio, indissi questo saluto d’addio; voi, per sommergere infine anche con un diluvio di grazie colui che già copriste di tanti e così grandi onori e favori, voi dunque siete venuti in così gran numero e con tanta simpatia, nè bastò che assistessero questi giovani d’ingegno, questa coltissima gioventù, ma anche voi senatori gravissimi, dottissimi professori, dottori celeberrimi, lumi del mondo, stelle eteree. O gran Giove, come ringraziarvi? Dove e donde a me una mente, una ragione, una lingua, che ordini e aggiusti i miei concetti in modo atto allo scopo, e so riesca a parlare in maniera degna? Lo farei se sapessi. Ma è meglio (o Dio) che essi vedano che io avrei desiderato render grazie, anziché udirmi renderle così insufficientemente, inettamente e disordinatamente, privo come sono d’ogni spirito di facondia. Ma ora, come credo mi sia lecito, pregherò i numi degli elementi, dei cieli e degli astri tutti. Voi, di queste selve (sotto il fogliame dei cui alberi tante volte sedetti) Ninfe, Driadi e Amadriadi, io scongiuro, affinché, come stanno presso a voi i Numa, i Cesari, i grandi condottieri, i Maroni e i Tullii, così dal grembo della madre vostra escano i lauri, i mirti, le edere, i pampini, gli olivi, le palme. Voi numi Fauni, Satiri e Silvani io imploro, coltivate i campi, governate le pianure, proteggete greggi ed armenti, e come questo suolo è feracissimo d’ingegni divini, così anche non abbia da invidiare i campi della pingue Campania, le pianure della felice Arabia e gli orti delle Esperidi. E voi pure, Ninfe di queste fonti, e Nereidi di questo fiume su le cui rive potei venire a prender aria, ascoltate. In argento si converta la vostra arena, e la vostra sabbia in glebe d’oro, come voi trionfate del Nilo, dell’Eufrate, del Tigri, del Tago, del Rodano, del Po, e del Tevere superbissimo. E tu sole, occhio del mondo, lampada di questo universo, tu che consenti la vicissitudine delle tenebre, quando ritorni e riconduci la luce, sempre riporta a questa patria più felici giorni, mesi, anni e secoli. E tu Boote che reggi il sidereo plaustro, tu che non allontani mai gli occhi della custodia tua da questa terra, tu che eternamente vegli, scaccia di qui i nottivagi lupi, i selvaggi orsi, i devastatori leoni, e le restanti nemiche fiere delle selve: e quel Padre onnipotente, Dio degli dèi, sotto il cui imperio è ogni fortuna e ogni fato, renda felici e confermi parimenti i voti miei e quelli di voi tutti, o ascoltatori illustrissimi. HO DETTO |
Musica: "Vino Veritas" (Carmina Burana secolo XIII) |