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Le due
tradizioni, la sapienziale e la religiosa sono, quanto
contenuti, tutt’altro che irriducibili e rigidamente distinte,
permane invece tra di loro una sostanziale differenza che si
riflette sulla struttura stessa del pensiero, determinandone
atteggiamento e modalità sicuramente divergenti. E se ad
entrambe queste forme di pensiero è comune la ricerca di una
chiave di comprensione della realtà, una necessità logica di
ordinare e unificare ciò che è sparso e diviso, il pensiero
religioso sembra incline a sviluppare e ad approfondire il
proprio patrimonio sapienziale unicamente in funzione di una
fede e di una verità rivelata.
Il pensiero religioso procede per identificazioni e
riconoscimenti, adeguando costantemente il proprio sapere ad una
Rivelazione originaria, ad una Aletheia, una e altra dal
pensiero che la pone in essere. Il pensiero sapienziale, al
contrario, non si preoccupa del confronto con la Cosa, non
conosce, per così dire, l’angoscia dell’adaequatio rei et
intellectus, giacché il vero di cui va in cerca è suscettibile
ogni volta di essere variamente interpretato in funzione della
consapevolezza acquisita.
Nei Discorsi sulla religione della fine del ‘700, il filosofo
romantico Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher, rivolgendosi
agli spiriti colti e illuminati del suo tempo, taccia di peccato
di ubris, di tracotanza e di presuntuosa inimicizia verso gli
dei, chiunque pretenda di detenere un sapere e praticare
un’etica senza osservare una religione. E’ la colpa antica di
Prometeo che riconosciuto di vitale importanza per l’uomo il
fuoco degli dei, lo ruba anziché domandarlo con la necessaria
umiltà. Ma nel pensiero di Schleiermacher c’è una fondamentale
esigenza: arte e intuizione senza che le accompagni il
sentimento dell’Infinito sono inadeguate ad esprimere tutta la
complessa potenzialità del sapere umano. E’ questo il senso
dell’appello che, proprio ad apertura di libro, egli rivolge
agli uomini colti dell’epoca sua:
“… Oggi particolarmente la vita degli uomini colti è lontana da
tutto ciò che potrebbe essere sia pure semplicemente simile alla
religione. Io so che voi tanto meno adorate in sacro segreto la
divinità quanto più frequentate gli abbandonati templi; so che
nelle vostre eleganti dimore non ci sono altri dei domestici se
non i detti dei savi e i canti dei poeti; so che l’umanità e la
patria, l’arte e la scienza, poiché credete di poter abbracciare
interamente tutte queste cose, hanno preso sì pieno possesso del
vostro animo che non vi resta nulla per l’Essere santo ed
eterno, il quale, per voi, è di là dal mondo, e che non avete
nessun sentimento per lui e in comune con lui. Siete riusciti a
far sì ricca e sì varia la vita terrena che non sentite più
alcun bisogno dell’eternità; e dopoché avete creato a voi stessi
un universo, vi sentite dispensati dal pensare a colui che vi ha
creato. Voi siete d’accordo, lo so, che nulla di nuovo e nulla
di convincente si può più dire di questo argomento che è stato
trattato abbastanza da tutti i lati, da filosofi e da profeti e,
potessi soltanto non aggiungere, anche da dileggiatori e da
preti. Soprattutto dai preti voi non siete minimamente disposti
– ciò non può sfuggire a nessuno – ad ascoltare qualcosa su
questo argomento, perché essi si sono resi, già da gran tempo
indegni della vostra fiducia, in quanto dimorano più volentieri
solo nelle rovine del Santuario, devastate dal tempo e dalle
intemperie, e non possono vivere neanche lì senza deturparle e
senza corromperle maggiormente. So tutto questo, e, tuttavia,
sono spinto a parlarvi da una necessità interna ed irresistibile
che mi domina divinamente…” (F.D.E. Schleiermacher, Discorsi
sulla religione e monologhi, trad.it., Sansoni, Firenze, 1947,
pp.5-6)
E questa “necessità interna” è certamente per Schleiermacher
quel sentimento dell’Infinito che in lui sembra inspirato da un
dio e in cui, a suo giudizio, principalmente risiede il senso
stesso della religione. Ma il sentimento dell’infinito,
accompagnato o meno dalla consapevolezza di un divino
ispiratore, bene appartiene al pensiero sapienziale come al
pensiero religioso, entrambi infatti fanno parte della sfera del
sacro come esperienza fondamentale e strutturale della mente
umana. Giacché il sacro non è degli dei piuttosto che degli
uomini, perché – come osserva Heidegger interprete di Holderlin
– “è piuttosto il sacro a decidere inizialmente intorno agli
uomini e agli dei, se siano, chi siano e quando siano” (M.
Heidegger, Erlauterungen zu Holderlin, 1943, pp. 73-74)
Sentimento dell’Infinito, senso del sacro: non è su questo
terreno che si decide propriamente la differenza tra pensiero
sapienziale e pensiero religioso. Il sapiente è come Socrate,
egli sa di non sapere o di non sapere abbastanza e questa
consapevolezza lo spinge con fede alla ricerca e al dialogo con
gli altri. In questo percorso egli non disdegna di utilizzare la
tradizione degli antichi, il patrimonio acquisito dell’umanità
cui aggiunge la consapevolezza che gli deriva dal continuo
confronto con gli altri, da quell’arte sottile che consiste nel
domandare e rispondere nel tentativo improbabile di conoscere il
ti esti il Che cos’è di cui si parla. E se con queste procedure
egli si colloca sempre di là della verità, questa nondimeno gli
si offre in infiniti adombramenti ed egli prende coscienza che
la Verità una e indefettibile è per principio fuori portata
della mente umana e che l‘ ‘unico vero’ che gli riuscirà di
scoprire sarà quello che faticosamente sarà riuscito a costruire
e a condividere con gli altri che, come lui, siano guidati dallo
stesso intendimento e che come lui siano disposti, mutando per
così dire il quadro di riferimento in cui quel ‘vero’ era nato,
a riconsiderare nuovamente la questione… Ma questa, si dirà, non
è altro che la verità della scienza che si trasforma col mutare
del tempo, delle risorse, del metodo, delle intuizioni e in
funzione delle regole dell’arte.
C’è di più e di diverso: il pensiero sapienziale funziona alla
stregua del pensiero scientifico ma se ne discosta perché il suo
intento non è meramente strumentale e innovativo e il suo
procedere nella ricerca di nuove verità e di nuove conoscenze
non lo porta a tralasciare quanto ha già acquisito e che
costituisce il patrimonio di conoscenze dell’intera umanità.
Insomma, il pensiero sapienziale se non disdegna per così dire
di andare avanti, non rifiuta neppure di rivisitare e di
approfondire ciò che appartiene al passato, giungendo talora a
considerarlo un sapere privilegiato anche rispetto alle
consapevolezze della modernità e della post-modernità.
E il pensiero religioso? La struttura che lo anima sembra
piuttosto incline a un rovesciamento di prospettiva: non la fede
nella ricerca ma la ricerca di una fede il cui fondamento si
sostanzi di una verità rivelata. E c’è da augurarsi che in
questa prospettiva si mantenga tollerante evitando guerre e
persecuzioni che troppo spesso hanno caratterizzato la sua
storia.
Ma il rapporto tra queste due modalità del pensiero, così
distanti tra loro eppure così convergenti, dovrà essere studiato
nella concretezza storica dei loro rapporti. Limiteremo
l’osservazione, per ragioni di tempo, alle radici della civiltà
occidentale: la greca e l’ebraica.
L’Eutifrone di Platone ci presenta un confronto esemplare tra
pensiero sapienziale e pensiero religioso. Esaminiamo in sintesi
il contenuto del dialogo.
Eutifrone e Socrate s’incontrano davanti al tribunale della
polis e subito Eutifrone esprime a Socrate la sua meraviglia nel
vederlo lontano dal Liceo e dalle sue abituali conversazioni e
più ancora manifesta la sua incredulità di fronte all’idea che
Socrate possa essere l’accusatore di qualcuno. E infatti Socrate
subito gli rivela di essere l’accusato, non l’accusatore. Di
quale accusa si tratta? Si tratta di empietà, un’accusa nella
quale incorreranno altri intellettuali ateniesi di questo
periodo. Socrate è cioè accusato di non credere negli dei della
città-stato, di volerli sostituire nel culto con altre divinità
e di insegnare queste cose ai giovani, corrompendoli.
Apprendiamo così che nell’Atene del 400 avanti Cristo non esiste
tolleranza religiosa anche se siamo bene a conoscenza che dietro
l’accusa di empietà si celano precisi motivi politici.
Eutifrone, dal canto suo, chiarisce a Socrate di recarsi presso
l’arconte-re, il sommo magistrato ateniese, in qualità di
accusatore. Egli ha deciso di trascinare suo padre in giudizio e
di chi lo critica per questa scelta dice che è ignorante della
‘legge divina in rapporto all’empietà e all’azione pia e santa’.
“Ma allora, Eutifrone, – gli oppone Socrate – hai davvero la
convinzione di conoscere con tanta perfezione le leggi divine?
Di conoscere insomma ciò ch’è santo e pio e ciò ch’è empio?… Non
hai timore di procedere contro tuo padre? Non potrebbe forse
avvenire che a sua volta anche la tua fosse un’empietà?”
Naturalmente, Eutifrone risponde subito di conoscere
perfettamente le leggi divine, ciò ch’è santo e ciò che non lo
è. Da questo momento il dialogo si fa serrato. Socrate dichiara
di volersi fare discepolo di Eutifrone, anche per meglio
difendersi in tribunale e subito propone al suo interlocutore di
rivelargli in cosa consista l’empietà e la santità. Eutifrone
risponde che è santo fare ciò che lui sta facendo, cioè
denunciare un colpevole anche se si tratta di suo padre e a mo’
di esempio cita Zeus che, per punirlo delle sue colpe, mise in
catene il padre Saturno-Crono che, a sua volta e sempre per
questione di giustizia, aveva evirato il padre Urano. La
citazione consente a Socrate di tornare per un attimo
sull’accusa che gli era stata rivolta e di osservare che proprio
questo comportamento degli dei aveva generato la sua critica e
dato spunto alla denuncia contro di lui.
Ma, insomma, chiede Socrate a Eutifrone, ammesso che sia giusto
quel che stai facendo contro tuo padre, dammi una definizione di
santità che possa adattarsi per infiniti altri casi. E subito
Eutifrone dichiara che è santo ciò che è caro agli dei, empio
ciò che non lo è. Definizione che Socrate non tarderà a
smontare: gli dei per primi si accordano forse tra di loro su
ciò che è giusto e ingiusto? Noi – continua Socrate – possiamo
facilmente accordarci sul peso di un certo oggetto, basterà
procurarci una bilancia… ma, quando si tratta del giusto e
dell’ingiusto, del buono e del cattivo, del bello e del brutto
non troveremo facilmente l’accordo e, sotto questo riguardo, gli
dei non si comportano diversamente dagli uomini. Eutifrone ne
conviene e al termine di una serie di ulteriori argomentazioni
propone una nuova definizione di santità: è santo – egli dice –
ciò che è gradito a tutti gli dei, empio ciò che a tutti è
sgradito. Ma subito Socrate propone ad Eutifrone una nuova
questione: il santo è amato dagli dei perché santo o è santo
perché amato dagli dei?
Man mano che il dialogo si dipana appare con sempre maggiore
evidenza il fine di Socrate. Il suo interlocutore si dichiara in
possesso della verità, ma, non potendo dire cosa santità e
giustizia siano in sé, propone via via diverse definizioni,
accorgendosi che nessuna di loro è la verità, e che ognuna
dipende dal punto di vista di chi giudica. Così, da ultimo, ad
Eutifrone non resta che rifugiarsi nella religione, troncando
per ciò stesso ogni ulteriore indagine:
“…la pietà e la santità – egli dirà – sono quella parte del
giusto avente la sua esplicazione nel culto e nella cura degli
dei. La parte invece rivolta agli uomini è la restante.”
Avrà un bel daffare Socrate nello smontare – come sempre accade,
col consenso del suo stesso interlocutore – anche questa
definizione e quando infine gli riuscirà e proporrà di
riesaminare la questione da capo, vedrà Eutifrone sfuggirgli con
un pretesto.
“Che peccato, amico mio! – ha appena il tempo di osservare
Socrate con ironia – Avevo concepito una grande speranza; tu vai
lontano e mi lasci deluso. Pensavo che da te avrei appreso ciò
ch’è santo e ciò che non è santo. Così, mi sarei liberato
dall’accusa di Meleto, poiché gli avrei mostrato che alla scuola
di Eutifrone son divenuto un sapiente di problemi religiosi…”
(Platone, I Dialoghi, vol.1, Rizzoli, Milano, 1953, p.598)
Insomma, alla presunzione di sapere della mente religiosa,
Socrate oppone la sapiente temperanza di chi innanzi tutto si
propone di conoscere se stesso. L’argomento si ritrova in un
altro dei dialoghi di Platone, il Càrmide, insieme
all’affermazione che la verità non si manifesta né in virtù del
semplice assenso – come vorrebbe la mente sofistica – né per
mezzo di argomenti aprioristici, come sostiene la mente
religiosa.
“O Crizia – dice Socrate – ti rivolgi a me, credendo ch’io
conosca gli argomenti sui quali ti rivolgo la domanda. E tu
pensi che dipenda dalla mia volontà il darti l’assenso. Al
contrario, la cosa non sta affatto così: io vado saggiando col
tuo aiuto le varie definizioni propostemi; appunto perché
comincio io stesso a non sapere. Farò dunque opportuna ricerca e
poi intendo significarti se sono d’accordo o no. Aspetta dunque
che finisca prima la mia indagine” (Ibid., p.222)
Pure, in questa ricerca che nulla concede al ‘sapere saputo’ si
accompagna sempre un barlume di religiosità. Che si tratti del
Socrate storico o dell’iniziato Platone ha poca importanza.
Nulla o poco c’è dato sapere sine deo concedente, come Socrate
dice a Teage nel dialogo omonimo:
“Eccoti dunque, Teage mio caro, questa la mia scuola: qualora il
mio insegnamento riesca gradito a Dio, grandi e rapidi saranno i
tuoi progressi, piccoli e tardi in caso contrario…”
Ma questo contatto tra l’umano e il divino si realizza con
modalità tutt’affatto differenti da quel che avviene nel
pensiero religioso. Non si tratta di sostituirsi al dio parlando
per la sua bocca e spargendo ovunque il seme di una verità
rivelata che dovrà essere accettata anche con la forza, il dio
non si mescola con l’uomo ma può lasciar cadere in lui una
scintilla di sé, una luce in grado di illuminare la sua ricerca
e di guidarlo alla comprensione del Cosmo, cioè dell’Ordine
imposto alla natura da un Grande Architetto.
Del resto, Socrate – ci racconta Platone nel Simposio – è
anch’esso un iniziato. Egli ha ricevuto l’iniziazione dei fedeli
d’Amore da Diotima, una sacerdotessa esperta nei sacri misteri
dell’eros:
“Proverò a esporvi – dice Socrate ai convitati – il discorso su
Amore che ho sentito fare una volta da una donna di Mantinea,
Diotima, che era sapiente in queste e in molte altre cose (…) E’
stata appunto Diotima che m’ha iniziato alla scienza d’Amore (…)
Quando parlavo con lei, io pure sostenevo, pressappoco, le
stesse cose che ora diceva con me Agatone: Eros è un grande dio;
Eros è amore di bellezza. E lei confutava il mio dire (…) E
allora, dissi, che cosa sarebbe Eros? Un mortale?”
“Per nulla”
“Ma che cosa allora?”
“Come i casi precedenti, rispose, qualcosa di intermedio tra il
mortale e l’immortale”
“Che cosa, dunque, Diotima?”
“Un gran Daimon, Socrate, perché tutto ciò che è daimonico è
intermedio tra dio e mortale”
“E che potere ha?”
“Di interpretare e trasmettere agli dei ciò che viene dagli
uomini e agli uomini ciò che viene dagli dei, degli uni le
preghiere e i sacrifici, degli altri invece gli ordini e le
ricompense per i sacrifici: essendo in mezzo a entrambi, riempie
lo spazio sicché il tutto risulta in se stesso connesso.
Attraverso di lui passa tutta la divinazione e la tecnica
sacerdotale concernente i sacrifici, le iniziazioni, gli
incantamenti e la predizione tutta e la magia. Un dio non si
mescola con l’uomo, ma per mezzo di Eros ha luogo ogni rapporto
e colloquio degli dei con gli uomini, sia nella veglia che nel
sonno.[…] E per natura non è né immortale né mortale […] né
povero né ricco. D’altronde è anche in mezzo tra sapienza e
ignoranza […].
“Chi sono allora, Diotima, quelli che filosofano, se non lo sono
né i sapienti né gli ignoranti?”
“E chiaro anche ad un bambino ormai, disse, che sono quelli a
metà tra questi due e che di essi fa parte anche Eros. La
sapienza, infatti, fa parte delle cose più belle e Eros è amore
del bello, sicché è necessario che Eros sia filosofo e, in
quanto filosofo, sia in mezzo tra il sapiente e l’ignorante.”
E’ dunque questo fuoco interiore – che in Socrate assume le
sembianze di un Daimon, di uno spirito buono, il sé nel
linguaggio della psicologia – a gettare un ponte tra pensiero
sapienziale e pensiero religioso.
Difficile, tuttavia e talora persino inutile separare
rigidamente nell’universo dei Greci il pensiero sapienziale da
quello religioso. E non perché non esista differenza, come
abbiamo visto nel confronto tra Socrate ed Eutifrone, bensì
perché nella stessa tradizione confluiscono religiosità e
religione, mito e simbolismo, iniziazione misterica e norme
etiche e civili. Gli uomini vivono a continuo contatto con gli
dei e benché questi ultimi si rivelino, per così dire, solo ai
predestinati, i loro consigli, le loro leggi s’impongono a
tutti, perché appartengono alle regole non scritte del coraggio,
della pietà, dell’onore e della comune convivenza, al dominio
della saggia prudenza. Accostarsi ai poemi omerici, alle opere
di Platone e dei grandi filosofi, all’arte, alla tragedia, come
del resto alla lirica o alla commedia, significa entrare
nell’immenso patrimonio sapienziale dei Greci, attingere al
ricco simbolismo dei miti e delle leggende. E se è vero che
nella mitologia greca, di gran lunga la più illuminante nella
storia della civiltà, s’intrecciano senza soluzione di
continuità le vicende degli dei, degli eroi e degli uomini,
resta pur vero che il pensiero mito-poietico dei Greci può
tranquillamente rinunciare alla divinità senza che il
significato esoterico del mito, l’insegnamento che dietro vi si
cela, vada perduto.
Così è nel mito della caverna del X Libro della Repubblica di
Platone, dove i prigionieri scambiano per realtà le ombre degli
oggetti che si proiettano sulla parete per l’azione di un fuoco,
così è nel mito del Fedro, dove Socrate e Platone, velata appena
nel simbolo, espongono la dottrina tradizionale e di carattere
esoterico dell’anima umana che ricade pesantemente a terra. Così
è, ancora, nel mito di Prométeo e di Epiméteo che nel Protagora
di Platone il grande sofista racconta a Socrate. L’uno
rappresenta l’umana saggezza, l’altro, suo fratello Epiméteo,
come dice il suo nome, è colui che ha ‘il senno di poi’, l’umana
stoltezza che non si fa da parte, perché non si riconosce come
tale e anzi pretende di decidere e s’impone e compie gesti
frettolosi e inconsulti che si risolvono in dramma.
Non diversamente accade nel teatro greco. Il motivo ricorrente
del peccato di ubris contro gli dei non deve trarci in inganno.
Nelle tre tragedie della trilogia di Oreste, l’Agamennone, le
Coefore, le Eumenidi, Eschilo svolge il tema della maledizione
che si abbatte sulla stirpe degli Atridi: a cuor leggero
Agamennone ha mosso guerra ai Troiani, per ingraziarsi gli dei
egli ha compiuto l’empio sacrificio della figlia Ifigenia, lui
stesso e i suoi soldati hanno sterminato i nemici senza pietà,
hanno profanato e distrutto i templi degli dei troiani. Tornato
finalmente in patria egli è ucciso per mano di sua moglie
Clitennestra. E’ vendicato dal figlio Oreste che si macchia del
peccato di matricidio, su di lui si abbatte la furia delle
Erinni e neppure il dio Apollo può sottrarlo alla vendetta.
La soluzione della vicenda è infine affidata al verdetto di un
tribunale, i cui giudici, avendo tante ragioni per assolvere
quanto per condannare, accettano il principio universale che
l’accusato sia assolto quando gli uomini riscontrino in lui
eguali ragioni per l’assoluzione e per la condanna.
Non diversamente Sofocle, nell’Antigone, risolve il problema
della sepoltura di Polinice. Contro il divieto di Creonte, re di
Tebe, e contro la legge scritta della città che vieta la
sepoltura dei traditori, Antigone rivendica per il fratello
Polinice il diritto alla sepoltura. Per quanto la donna sembri
ispirata dalla pietà e dalla coscienza religiosa, ciò che decide
è la norma panellenica di giustizia che impone il seppellimento
anche dei cadaveri dei nemici.
Il tema del seppellimento è ripreso da Sofocle nell’Aiace, dove
l’eroe greco è punito con la follia e con la morte per il suo
peccato di ubris contro gli dei. Ma è veramente così? Sono gli
dei i responsabili o non è piuttosto l’uomo stesso a tessere la
trama del proprio destino? Come la dea Atena dice ad Ulisse nel
prologo della tragedia:
“…Tali cose vedendo, nessuna parola orgogliosa tu non dire mai
contro gli dei e non aver mai superbia, se superi qualcuno per
forza di braccio e per quantità di ricchezze: ché un giorno solo
innalza ed abbatte tutte le cose umane; gli dei amano gli uomini
moderati ed odiano gli empi” (vv. 127-133)
Ma la sorte di Aiace, prima che punizione divina, è frutto
dell’umano isolamento che lo porta a ripudiare finanche il
figlio e la moglie, è il risultato della tracotanza che gli fa
affermare: “o gloriosamente vivere o gloriosamente morire è il
dovere di ogni valoroso”. (vv. 479-80).
Più inquietante è la sorte di Edipo nel notissimo dramma di
Edipo Re. Qui l’eroe è innocente e pio né alcun dio ha da
rimproverargli qualcosa. Ma il suo destino tragico, di chi
inconsapevolmente uccide il padre e si accoppia con la madre, si
spiega con la stessa maledizione della stirpe che colpisce
Agamennone, lui sì, consapevole. Della maledizione sono
responsabili gli dei o non è piuttosto vero che la colpa chiama
colpa e il sangue chiama sangue, ricadendo anche sugli
innocenti?
Si accennava prima ad Ulisse, così diverso da Aiace eppure anche
lui colpevole di ubris, nonostante gli ammonimenti della dea
Atena. Vediamolo dunque all’opera, per un attimo, nel secondo
dei poemi omerici: l’Odissea. Ci riuscirà così di comprendere
meglio il rapporto tra gli uomini e gli dei nell’universo greco
e di cogliere l’intreccio talora solo apparente del pensiero
sapienziale e del pensiero religioso.
Gli dei greci sono a casa tra gli uomini e non hanno bisogno di
incarnarsi, come il Dio cristiano, per colmare l’insondabile
lontananza. Non si incarnano, si trasformano e in forme sempre
varie e sempre diverse sono continuamente accanto a noi anche se
noi non ce ne accorgiamo. Sono lì ad ammonirci, a perderci o a
salvarci, sono gli amici e i fratelli che ci consigliano, i
nemici che ci tendono trappole, i familiari che si preoccupano
per noi, le donne che ci amano o quelle che vogliono la nostra
rovina. Ma, a guardar bene, chi decide la sorte è l’uomo stesso
e poco importa che questa coincida con la moira, la ‘parte’, che
gli dei hanno stabilito per lui. Violarla significa esporsi
all’inevitabile contraccolpo, necessario a ricostituire l’ordine
cosmico e la forza che lo mantiene in essere. Ognuno conosce il
proprio dovere con o senza il messaggero alato che si rechi ad
avvertirlo. Non è un caso che l’Odissea abbia inizio con la
parola àndra (andra) uomo e che Ulisse – prototipo stesso
dell’uomo civilizzato – sia definito polùtropon (polutropon),
multiforme o dal multiforme ingegno, non è un caso che Zeus
ricordi La Legge al concilio degli dei, proprio ad apertura di
poema:
“Ahimè, come i mortali dàn sempre le colpe agli dei!
Dicono che da noi provengono i mali, ma invece
sono gli uomini, con le loro azioni, ad attirarseli in spregio
al destino.
Guardate Egisto: sedusse la sposa del figlio d’Atreo,
violando la moira, e lo sposo sgozzò che tornava,
benché conoscesse la sorte. Perché noi l’avvertimmo,
a lui mandando Ermete occhio acuto, argheifonte,
che non uccidesse l’eroe e neppure agognasse la donna:
vendetta Oreste farebbe del padre Agamennone,
quando, cresciuto, avesse nostalgia della patria.”
( Omero, Odissea, I, 32-41)
Perché Ulisse impiegherà vent’anni, dalla fine delle guerra, a
tornarsene in patria? Perché così hanno deciso gli dei, parrebbe
la risposta, in un universo in cui la mente umana s’intreccia di
continuo con quella divina e da questa appare costantemente
guidata.
Così non è: la sapienza dei Greci si serve liberamente degli dei
e non sono gli dei a servirsi della libertà umana. Ulisse sa di
dover tornare ad Itaca, ma c’è nel suo comportamento la volontà
di attardarsi, quasi avesse bisogno di completare un ciclo.
Ulisse è l’iniziato che si sottopone a prove sempre più ardue
nel tentativo di superarle e di conoscere se stesso. In questo
proposito non del tutto consapevole, egli è soccorso da alcuni
dei e danneggiato da altri, ma questi dei sono innanzi tutto le
sue stesse qualità: le sue virtù e i suoi difetti. Anche lui,
come altri eroi greci è colpevole di ubris, ma si ravvede sempre
e soprattutto egli è polìtropos e poikilométes, possiede cioè
una mente e un cuore dalle molte e variegate fome che gli
consente la pietà e l’immedesimazione autentica con gli altri e
con le loro sofferenze.
E quando infine raggiunge l’isola dei Feaci, Ulisse è pronto per
il ritorno. L’isola appartiene al dio Posidone, il suo peggior
nemico, ma chi vi governa veramente è Ermete, il dio che insieme
ad Atena sembra guidare i suoi passi, il dio dal quale Ulisse
discende, secondo Esiodo, per parte di Autolico il nonno
materno. Non solo i Feaci prima di addormentarsi libano a Ermete
ma tutto, in quest’isola – come acutamente osserva Pietro Citati
– è ermetico: “il viaggio, i colori, i piaceri, il gioco, la
leggerezza, la magia, la sottile comicità, i percorsi della
notte, il segreto.” (P. Citati, La mente colorata, Mondadori,
Milano, 2002, p.141)
Ulisse scopre finalmente che il mondo ostile e profano può
essere superato con la sapienza ermetica. E sarà proprio questo
sapere, camuffato della benevolenza di Atena, a condurlo ad
Itaca per affrontare l’ultima prova. E una volta qui,
comprendiamo meglio il significato della protezione di Atena:
Ulisse possiede la sapienza degli alberi, insegnatagli dal padre
Laerte, il re-contadino. In particolare, conosce l’ulivo, la
pianta sacra alla dea e sulla cui radice Ulisse ha costruito il
letto nuziale che, dunque, non può essere spostato. Da questo e
da numerosi episodi del finale del poema, apprendiamo così che
l’eroe greco condivide con Penelope e pochi altri anche una
terza sapienza: egli conosce l’arte dei segni simbolici e
segreti (Ibid., cap.V).
La felice apparente commistione tra pensiero sapienziale e
pensiero religioso che traspare dal genio dei Greci, non deve
trarci in inganno. In realtà, abbiamo già visto, a proposito di
Socrate e dei sofisti, la scarsa tolleranza religiosa della
società ateniese. La città antica è “totalitaria” nel senso che
non distingue tra l’obbedienza che si deve alle leggi e quella
dovuta agli dei. Unica eccezione fu forse Roma, tollerante e
persino rispettosa del pantheon finché una religione non pretese
di imporsi su tutte e addirittura di sostituirsi allo stato.
Tuttavia la religione dei Greci non conosce né dogma né libro
sacro, risolvendosi dunque in una formale adesione agli dei
della città, nei sacrifici, nei riti e nelle feste, peraltro
assai frequenti, che si devono celebrare per ingraziarsi la
divinità e assicurare il benessere di tutti.
Accanto a questa religione per così dire, conformista,
superstiziosa e popolare, che peraltro è il tratto
caratteristico ed esteriore delle religioni di ogni età, si
sviluppano in Grecia, in perfetta concordia con la religione
ufficiale, le cosiddette religioni misteriche che non chiedono
di sostituire una divinità con l’altra, e bensì promettono agli
adepti una individuale salvezza, cosa alquanto impensabile e
rara nella società antica.
Così, per esempio, l’iniziato dei piccoli come dei grandi
Misteri Eleusini possiede un sapere indicibile e segreto che non
deve essere rivelato ai profani. E per quanto questo sapere sia
legato al culto di Demetra e di Persefone e dunque si avvalga di
un pensiero sostanzialmente religioso, nondimeno occorre
riconoscere che da queste due divinità, collegate al ciclo del
grano e della vegetazione, si levi una sapienza antica e custode
di tradizioni più arcaiche, di certo andate perdute. A
dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, che la distinzione
tra pensiero sapienziale e pensiero religioso non consiste tanto
in quel che si sa, ma del modo in cui lo si sa e più ancora
nella spiegazione che si dà del pretendere di saperlo…
Più arduo ancora distinguere, almeno a prima vista, tra pensiero
sapienziale e pensiero religioso all’interno di quella che ho
definito la seconda radice della civiltà occidentale:
+-l’ebraica. La specificità della dottrina sapienziale degli
Ebrei, infatti, è di presentarsi e di svilupparsi in stretta
relazione con il Dio della Rivelazione. Ma vi sono al suo
interno almeno tre aspetti che possono facilitarci il compito.
Il primo e il più importante è costituito dall’infinita
‘lontananza’ che corre tra l’uomo e Dio, sebbene il Dio del
Vecchio Testamento si annunci straordinariamente talora ai
sapienti d’Israele. A differenza del Dio cristiano, Egli non
s’incarna, a differenza del dio pagano egli non si trasforma
assumendo ogni sembianza. Pure, questo insondabile vuoto che
dimora tra l’uomo e Dio deve essere colmato. E per quanto
l’ebreo viva costantemente nel pensiero e nel timore di Dio,
egli sa che, per ridurre la distanza incolmabile che separa
l’umano e il divino, deve contare unicamente sulle proprie
forze, sperando solo che la Shekinah sia su di lui.
In tale prospettiva, si delinea anche il secondo aspetto:
l’importanza che riveste per l’ebreo l’elaborazione di una
dottrina sapienziale, lo studio e l’approfondimento della Legge
o Torah, il ruolo carismatico della tradizione.
Il terzo aspetto è appunto costituito dalla Qabbalah o
Tradizione nella quale confluiscono speculazioni di pensiero
talora estranee se non addirittura ostili alla dottrina
rabbinica, e per la quale si è persino parlato di ‘pensiero
laico’ e di ‘esoterismo’ degli Ebrei.
Insomma, contro quel che comunemente si pensa, l’ebreo è
costretto a vivere ‘come se Dio non ci fosse’, pur sapendo in
cuor suo che Egli c’è.
Sotto questo riguardo, il più significativo tra i libri
sapienziali del Vecchio Testamento, è certamente Qoeleth. 'Tutto
è vanità' vi si legge all'inizio e 'tutto è vanità' si ripete
quasi alla fine del libro. Nulla di nuovo sotto il sole: una
generazione va e l'altra viene, il sole sorge e tramonta sempre
allo stesso modo, infinito è il numero degli stolti e i malvagi
mai si correggono; inutilmente ci si applica nello studio o ad
acquistar ricchezze perché dove aumentano la conoscenza e il
denaro si moltiplicano le inquietudini e gli affanni. In questo
deserto descritto nel I Capitolo di Qoeleth, dove non c'è
traccia del nome di Dio e dove tutto si ripete con regolarità
sconcertante, nulla sfugge alla vanità e all'afflizione dello
spirito. Il tema è ripreso con forza nei capitoli successivi e
per quanto si faccia menzione di Dio, si commenta amaramente:
"... la morte dell'uomo e delle bestie è la stessa, è uguale la
condizione di ambedue: come muore l'uomo così muoiono le bestie;
uguale è il soffio di vita per tutti, e l'uomo non ha nulla di
più della bestia.Tutto è soggetto alla vanità." (III, 19)
Una incolmabile lontananza dimora tra l'uomo e Dio, perché 'Dio
è nel cielo e tu sei sulla terra' è detto all'inizio del V
Capitolo e l'uomo, benché sapiente, non troverà nessuna
spiegazione dell'operare di Dio, è detto alla fine dell'ottavo.
Così, "vi sono dei giusti cui toccano i mali, come se avessero
operato da empi, e vi sono degli empi, tanto tranquilli, come se
avessero operato da giusti"(VIII, 14). Lo stesso concetto si
ripete e si completa nel IX Capitolo(2-3):
"Tutto è incerto nel futuro, perché tutto avviene ugualmente al
giusto e all'empio, al buono e al cattivo, al puro e all'impuro
(...) L'onesto e il peccatore, lo spergiuro e chi giura il vero
sono trattati allo stesso modo. Questa è la cosa peggiore di
quelle che avvengono sotto il sole: l'accadere a tutti le
medesime cose..."
Dunque, il tema della retribuzione, così altrimenti caro al
pensiero sapienziale ebraico non preoccupa minimamente l'autore
o gli autori di Qoeleth. L'intento sembra essere piuttosto
quello di descrivere l'infelice condizione umana, prescindendo
da Dio e dai suoi imprescutabili disegni. Il legame tra l'uomo e
Dio, se proprio lo si vuole rintracciare, si sostanzia
unicamente nel concetto di prova alla quale Dio chiama,
chiamando alla vita. Ma, diversamente che nel libro di Giobbe,
dove il rapporto uomo-Dio, tra ragione e sragione, assurdo e
paradosso si colora infine di senso, qui il mistero permane
rigidamente sigillato e la lontananza diviene assoluta. Tant'è
che l'ultimo consiglio di Qoeleth sembra ispirarsi al Carpe diem
di Orazio e dei filosofi greci:
"Va' dunque e mangia allegramente il tuo pane, e bevi con
allegria il tuo vino (...)
In ogni tempo siano candide le tue vesti e non manchi l'unguento
al tuo capo. Godi la vita con la moglie diletta, per tutto il
tempo della tua vita fugace, per quei giorni che ti sono dati
sotto il sole, per tutto il tempo della tua vanità; questa è la
tua sorte nella vita e nelle tue fatiche che ti affannano sotto
il sole. Tutto quello che puoi fare con i tuoi mezzi, fallo
presto, perché né attività né pensiero, né sapienza, né scienza
hanno luogo nella regione dei morti dove tu corri." (IX, 7 -
10).
E non v'è dubbio che il pensiero sapienziale dei Greci aleggi
qui e finanche la concezione dell'aldilà rammenti in modo ancora
più radicale quella descritta da Omero nell'Odissea dove,
almeno, le ombre dei morti hanno rimpianti…
L'intreccio tra pensiero sapienziale e pensiero religioso,
inesistente quasi in Qoeleth, problematico in Giobbe, si fa
invece serrato in Sapienza e in tutti gli altri trattati della
letteratura sapienziale vetero-testamentaria. Emerge, tuttavia,
un'osservazione fondamentale. Per quanto nei Proverbi, lo
pseudo-Salomone affermi che la sapienza si fondi sul timore di
Dio, i detti, i consigli, le sentenze ricche di saggezza e di
umana esperienza contenuti nel libro sono norma a se stessi e il
loro valore prescinde dal riferimento alla trascendenza perché
si iscrivono innanzi tutto nel libro della vita e prospettano
per chiunque voglia appropriarsene un ideale di crescita, un
progressivo distacco dalle passioni e dai pregiudizi, una
iniziazione dello spirito nel crescente dominio di se stessi.
Le massime morali contenute in Sapienza, nei Proverbi, in
Siracide o nei Salmi prima di essere norme dettate dal timor di
Dio, sono regole sapienziali e sono altresì testimonianza di una
tradizione, l'unica forse, giunta ininterrotta e vivente sino a
noi. Sono massime di rispetto o di pietà familiare come: "Lo
stolto deride le correzioni del padre, ma chi fa tesoro delle
correzioni diventerà più saggio"(Proverbi, XV,5), "Figlio,
assisti la vecchiaia di tuo padre e non lo contristare nella sua
vita; ed anche se diverrà debole di mente, compatiscilo, non lo
disprezzare nella tua vigoria..."(Siracide, III, 14-15). Sono
ammonimenti contro l'ira, nella tradizione ebraica la più
funesta tra le passioni, insieme alla lussuria: "E' onorevole
per l'uomo stare lontano dalle contese, ma tutti gli stolti si
immischiano nei litigi"(Proverbi, XX,3) oppure: "Grave è la
pietra, pesante la sabbia, ma più pesante dell'una e dell'altra
è l'ira dello stolto"(XXVII,3). Sono regole di prudenza e di
saggezza:"Come una città aperta e senza mura è l'uomo che non sa
frenare il suo spirito nel parlare"(XXV, 28), "Quanto più sei
grande, tanto più umiliati in tutte le cose" (Siracide,III,2O),
"Non cercare quello che è al di sopra di te, e quello che è al
di sopra delle tue forze non lo indagare"(III,22) "Come acque
profonde sono i disegni nel cuore dell'uomo e solo all'uomo
sapiente è dato trarli a galla"(Proverbi XX, 5-6)
Massime tutte queste per orientare il cammino del giusto, lo
zaddiq cui la tradizione ebraica assegna un ruolo fondamentale.
Noè – scrive Dante Lattes – è il primo tipo dello zaddiq, del
giusto che passa incontaminato fra le tristizie dei
contemporanei. La figura dell’uomo giusto, che assumerà poi
tanto significato etico e una così vasta funzione redentrice
nell’ideologia ebraica, dalla Bibbia al Chassidismo, ha in Noè
il suo primo modello (…) Noè è l’uomo; l’uomo senza alcun altro
aggettivo; non misurato secondo criteri di razza, di lingua, di
nazionalità, di religione (…) e quindi posto ad esempio alle
generazioni, per quanto remote e diverse dal suo tempo, o, se si
vuole, in modo relativo, secondo il grado di perversione del suo
secolo. (Nel solco della Bibbia, Laterza, Bari, 1953, p.39).
Noè è dunque ‘l’uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei e
che camminava con Dio’ com’è detto in Genesi, 6,9. Noè salvato
dal diluvio perché ‘speranza del mondo’ come lo definisce il
libro della Sapienza (14,16) e perché fosse il prototipo di una
umanità nuova insostituzione della precedente che si era
macchiata di ogni violenza. Violenza contro Dio e soprattutto
violenza degli uomini tra di loro che la tradizione ebraica
considera ancora più grave dell’altra giacché le colpe commesse
dall’uomo contro Dio possono essere rimesse nel giorno di
Kippur, mentre le colpe dell’uomo contro l’uomo possono essere
rimosse solo mediante il perdono da parte dell’offeso.
Com’è noto, Dio stringe un patto con Noè, lo benedice insieme ai
suoi figli e dà loro alcuni precetti (i cosiddetti precetti
noàchidi) con valore universale, rivolti cioè non solo agli
Ebrei, in quanto già compresi nelle 613 Mitzvoth, ma ai giusti
di tutte le nazioni. Il precetti noàchidi sono 7 di cui 1
positivo (Obbligo della giustizia e dell’istituzione di giudici
e tribunali) e 6 negativi (Divieto di idolatria, bestemmia,
relazioni sessuali illecite, omicidio, furto e di cibarsi di
animali vivi).
Più ancora che nei libri sapienziali del Vecchio Testamento, è
nel Pirqè Avòt - "Insegnamenti dei padri" che il pensiero
sapienziale degli Ebrei si identifica strettamente con il
pensiero religioso. Pirqè Avòt raccoglie in sei capitoli le
riflessioni di autori vissuti tra il V secolo av. C. e il II
secolo d. C. e si può a buon diritto considerarlo un trattato
sapienziale di morale ebraica o, ciò che è lo stesso, di morale
religiosa. Osserva in proposito Yoseph Colombo:
"E' morale religiosa, come religiose per eccellenza sono tutte
le manifestazioni culturali, politiche, spirituali del popolo
ebraico. Non bisogna dimenticare che il popolo ebraico è e si
ritiene in possesso, fin dai suoi primordi, dell'idea
monoteistica e che la tradizione ebraica ritiene di essere
venuta in contatto con tale idea per rivelazione divina. Ora, un
popolo che ha come cardini del proprio pensiero questi elementi,
Dio e rivelazione, è un popolo che, qualunque cosa faccia,
dovunque vada, qualunque destino gli sia assegnato, porterà
sempre con sé per informarne ogni sua azione un carattere
eminentemente religioso. Per cui, pur ammettendo (...) che ci
sia stata una speculazione ebraica, anch'essa sarà stata di
carattere religioso. Non già che la dottrina morale che può
essere rintracciata in questi Pirqè Avòt sia religiosa nel senso
che sia eteronoma; essa sostiene non tanto la provenienza divina
della legge morale, quanto il carattere divino della legge
morale; è religiosa perché è ebraica, e gli Ebrei, anche quando
sentono ed esprimono l'autonomia del principio morale e
l'universalità ed assolutezza della legge del dovere, questa
esprimono in termini religiosi, inserendo la loro concezione
morale nella più vasta visione religiosa del mondo e della
vita." (Pirque Aboth, Morale di maestri ebrei, trad.it., introd.
e commento di Y.Colombo, Carucci, Roma, 1986, pp.XVII-XVIII)
Sorprende allora, pur nell'annunciata identificazione di
pensiero sapienziale e di pensiero religioso, trovare in questa
sorta di rassegna del pensiero rabbinico attraverso i secoli,
accenti di una laicità sconcertante dove, per esempio, gli
elementi della trascendenza divina e della sopravvivenza
dell'anima dopo la morte sembrano volutamente accantonati e dove
in luogo del consueto encomio dell'ignoranza, così caro alla
maggior parte delle religioni positive, perché disporrebbe alla
purezza di spirito, troviamo l'invito allo studio e alla
frequentazione dei dotti:
"Sia la tua casa - scrive il rabbi Jòçé figlio di Jo'èzér di
Zeredà - un luogo di convegno per i dotti; impòlverati della
polvere dei loro piedi; e bevi con sete le loro parole" (I,4) e
il rabbi Hillel ammonisce:
"Chi cerca fama, perde quel po' che ne ha; ma chi non accresce
il proprio sapere, finisce col non saper più nulla; ché se poi
uno non ha mai studiato, allora è degno di morte" (I,13) e
altrove: " ...non dire che studierai quando ne avrai la
possibilità, perché potresti non averla... l'uomo rozzo non si
cura del peccato e l'ignorante non può essere pio..." (II, 5-6)
Lo studio, dunque, e i maestri, ma anche il giusto atteggiamento
perché, come avverte anonimo il V Capitolo del Pirqè Avòt,
"...quattro tipi di persone stanno davanti ai Maestri: v'è la
spugna, l'imbuto, il colatoio, lo staccio. La spugna assorbe
tutto, l'imbuto da una parte si riempie e dall'altra tutto si
svuota, il colatoio fa passare il vino trattenendo le feccie, lo
staccio fa passare la farina trattenendo la semola." (V,16)
D'altra parte, per appropriarsi veramente della Torah, della
Legge, occorrono all'ebreo 48 requisiti (VI, 5) di cui, circa la
metà riguardano lo studio e l'altra metà vanno divisi tra la
comprensione del cuore, l'umiltà, il buon carattere, il rispetto
dei maestri, l'amore della giustizia e di tutte le creature,
l'osservanza della vita sobria. Il primo dei 48 requisiti è
naturalmente lo studio e l'ultimo è sorprendentemente la
corretta e necessaria citazione delle fonti. Dire una cosa,
citando il nome di chi l'ha detta, riportare sempre il nome
dell'autore è causa di redenzione per il mondo secondo
l'insegnamento contenuto nel libro di Ester: "E disse Ester al
Re, a nome di Mardocheo..." (Ester, II, 22). La frase che Ester
dice al re Assuero si riferisce alla congiura ordita contro di
lui e di cui la ragazza era stata informata da Mardocheo, suo
padre adottivo. Aver citato fedelmente l'autore della preziosa
notizia valse a Mardocheo la salvezza e fu motivo di un editto
di Assuero a favore degli Ebrei.
Va da sé, d'altra parte, che questa morale rabbinica si ispiri
ai libri sapienziali del Vecchio Testamento, come appare in
tutta evidenza nelle parole di rabbi Ben Zòma':
" Chi è veramente sapiente? Chi impara da ogni uomo; secondo
quanto è stato
detto (Salmi,114, 99): 'da tutti coloro che mi insegnarono io mi
sono istruito'. Chi è veramente prode? Chi vince le sue
tentazioni, secondo quanto è stato detto (Proverbi, 16, 32): "E'
meglio il longanime del prode e chi domina il suo carattere di
chi espugna una città". Chi è veramente ricco? Chi si contenta
della sua parte, secondo quanto è stato detto: (Salmi, 128, 2):
"Beato te e felice te, quando potrai mangiare della fatica delle
tue mani"..."(IV,1)
In alcuni aforismi echeggia persino la lezione di Qoeleth: "Sii
molto umile davanti a chicchessia, perché, tanto, l'unica
speranza umana sono i vermi", osserva rabbi Levitàç (IV, 4) e 'Aqàbjàh
ben Mahalal'él risponde a suo modo alla triplice e fatidica
domanda della tradizione esoterica: "Rifletti a tre cose e tu
non avrai mai a commetter peccato: Sappi donde tu sei venuto,
verso dove tu vada e dinanzi a Chi tu sarai per render conto
completamente delle tue azioni. Donde sei venuto? Da una goccia
putrida. Dove vai? Verso un luogo di polvere, vermi e lombrichi.
Dinanzi a chi sarai tu per render conto delle tue azioni?
Davanti al Re dei Re, il Santo, benedetto Egli sia" (III, 1)
Pur tenendo presente l'osservazione di Yosef Colombo, circa la
natura sostanzialmente religiosa di ogni manifestazione ebraica,
non si può disconoscere alla Qabbalah, quale dottrina esoterica
degli Ebrei, un'autonomia di indagine, un approccio concettuale
e simbolico ai temi della tradizione che ne fanno una forma
originale e unica di pensiero sapienziale.
Non è mia intenzione, peraltro, entrare nel merito della
questione riguardante l'origine mitica della Qabbalah, se sia
cioè, per così dire, una 'rivelazione primordiale' concessa ad
Adamo o magari 'la parte esoterica' della Legge che Mosè
ricevette sul Sinai, come suggerisce Gershom Scholem. La
Qabbalah nasce storicamente nel XII secolo, sulla sponda
occidentale del Mediterraneo, tra le comunità ebraiche di
Linguadoca, una terra tanto fiorente nel commercio quanto
progredita nel viver civile e nella tolleranza da essere, per
quei tempi, certamente esemplare. E' vero, d'altra parte, che
'la nascita medievale' della Qabbalah non esclude una nascita
sua più antica, derivando i suoi contenuti dalla riflessione e
dall'approfondimento della religione biblica e della tradizione
rabbinica, sia attraverso la parola scritta, sia più
diffusamente attraverso la comunicazione bocca-orecchio,
sicuramente non esclusiva dell'esoterismo ebraico.
Quel che è certo è che, nel suo esordio storico, sia in
Provenza, sia soprattutto in Catalogna, nella celebre scuola di
Girona, Isacco il cieco insegni che occorre tralasciare ogni
speculazione con riguardo tanto all'Uno quanto al Nulla. Non è a
caso che la ricerca dei perushim - gli studiosi di Qabbalah - si
limiti per un verso all'Opera della Creazione o Ma’asè Bereshit
e per altro verso all'Opera del Carro o Ma’asè Mercavah. Con la
prima intendendo il libero commento del Genesi o Bereshit per il
quale è noto a tutti che la lettera Beit, con cui ha inizio la
narrazione, è una lettera aperta solo da un lato a significare
che unicamente gli eventi accaduti dopo il Bereshit o Principio
sono accessibili all’indagine umana. Con la seconda, mediante la
cosiddetta discesa nella Mercavah, facendo riferimento al
viaggio nella propria interiorità, alla ricerca di quei centri
'sottili' di consapevolezza detti Hekalot o Palazzi, assai
simili, peraltro ai Chakras dell'induismo e ai 'soffi vitali'
descritti nelle Upanisad. Sono centri 'sottili' e tuttavia hanno
una corrispondenza nel corpo umano. Se si permette all’energia
spirituale di scorrere e di soffermarsi su ciascuno di loro, non
solo se ne trarrà motivo di benessere fisico e di purificazione
ma sarà anche possibile accedere a visioni di esperienza non
ordinaria.
Tutto ha inizio con il primo Palazzo. In lui è racchiuso,
secondo il Sepher ha Zohar (41a) - il libro più complesso e più
famoso della letteratura cabbalistica - 'il mistero dei
misteri'. Luz, con riferimento biblico è detto il suo luogo, 7
il suo valore numerico (Lamed 30 +Waw 6 +Zain 7 =43=7) ad
indicare che sette sono i centri di consapevolezza; nel corpo
dell' uomo corrisponde al coccige, dove la colonna vertebrale
termina nel punto più lontano dalla testa o dove inizia nel
punto più vicino alla terra. Livnat ha Sapir, Mattone di
zaffiro, è il suo nome. Dove il mattone è appunto simbolo della
materia, cioè della densità della costruzione di luce e di
energia che viene dall'alto. L' opera della Merkavà o opera del
Carro non può che iniziare di qui, dove la prima manifestazione
di luce e il principio stesso della luce si trovano insieme
racchiusi nella densità della materia. Non a caso il suo nome in
sanscrito, Muladhara, significa radice. Una concentrazione su
questo centro produce immediatamente calore. Un suo
funzionamento squilibrato produce eccesso di cibo e di sesso,
avidità, diffidenza, aggressività, paura e insicurezza,
debolezza fisica e disturbi della circolazione sanguigna
periferica.
Se la scuola di Isacco il cieco prima e l'apparizione dello
Zohar alla fine del XIII secolo, al di là degli antecedenti
metastorici della Qabbalah, rappresentano i momenti di maggiore
originalità e di più intensa affermazione del pensiero
sapienziale e simbolico degli Ebrei sefarditi, occorre ricordare
che fu soprattutto con Yizhaq Luria, nel XVI secolo, che la
Qabbalah venne progressivamente affrancandosi dal testo biblico
e dalla lezione rabbinica, reclamando sempre più un'autonoma e
peculiare capacità di rielaborazione e di approfondimento. E fu
principalmente merito del movimento chassidico, sviluppatosi
nella prima metà del Settecento tra gli ebrei aschenaziti
dell'Europa centrale e orientale, se la Qabbalah da movimento
prevalentemente speculativo, magico e devozionale venne via via
privilegiando la dimensione psicologica e la finalità
iniziatica, nel senso cioè di rappresentare un cammino interiore
di rettificazione e di progressivo perfezionamento da
realizzarsi sia privatamente sia in seno alla comunità (devoti,
chasidim) guidata da un giusto o zaddiq.
Emerge tuttavia una continuità tra la Qabbalah di Isacco il
cieco e quella del Chassidismo. In entrambe si direbbe quasi che
il pensiero oscilli di continuo tra devozione religiosa e
nihilismo, tra ricerca impossibile di giungere sino all'Uno nel
tentativo almeno di cogliere il significato più autentico
dell'azione divina e la consapevolezza di chi conosce in
anticipo l'inutilità e la nullificazione di ogni azione umana
votata in tal senso.
L'esemplificazione di tale tragico paradosso insito nel pensiero
sapienziale della Qabbalah ebraica si trova forse - come è stato
messo in evidenza da Gershom Scholem, Martin Buber, Karl
Grozinger e tanti altri - nell'universo letterario di Kafka.
Addirittura G.Scholem soleva dire che per capire veramente la
Qabbalah bisognerebbe prima aver letto i libri di Franz Kafka.
Nei romanzi dello scrittore praghese si disegna infatti,
contemporaneamente, la speranza teurgica propria della Qabbalah
storica e la ‘rinuncia’ chassidica portata sino alle estreme
conseguenze. L’impossibilità di giungere al Signore del
Castello, come l’impossibilità di ottenere il giudizio nel
Processo non dipendono dall’irascibile Dio del Vecchio
Testamento, neppure il ‘silenzio’ di Dio dipende dalla Sua
‘morte’ e la condanna nell’apparente innocenza, così come per
Giobbe, non dipende dall’esistenza di un Demiurgo malvagio che
Kafka avrebbe in comune con Marcione e i marcioniti secondo il
fortunato ma per me errato giudizio di Remo Cantoni. La Qabbalah
nell'accennare al progetto divino del mondo, individua nella
teurgia lo strumento del Tiqqun, della riparazione e della
restaurazione, ma l’impresa rivela subito la sua natura
prometeica e superba e deve essere punita. Persino in Abramo ‘la
sincera convinzione’ di essere sulla via giusta diventa superbia
e questa stessa ubris guida Josef K. nel Processo e
l’agrimensore K. nel Castello; il loro fallimento è il
fallimento stesso dell’azione teurgica come istanza riparatrice,
né migliore fortuna arride alla variante teurgica proposta dal
Chassidismo dove è il Rebbe, lo Zaddik ad intercedere per la
comunità. L’aiuto nel tribunale del Processo come nel villaggio
del Castello si rivela illusorio quando non addirittura
fuorviante. Eppure, questo pensare l’inadeguatezza della teurgia
non si colloca fuori dell’ebraismo e della Qabbalah, né è
vissuto da Kafka con angoscia. 'L’angoscia intollerabile' di cui
parlò André Gide s’impadronisce piuttosto dei lettori e deve
servire ad allontanarli dall’agire frenetico. Il fatto è che lo
scrittore ceco ci invia un messaggio preciso che non è la
denuncia dell’incapacità umana di spingersi con il suo agire fin
su…, bensì la lucida consapevolezza non tanto dell’inutilità del
desiderio di ascesa, quanto piuttosto della pericolosità
prometeica di tale desiderio. Scrive in proposito Bernhard Rang:
“Nella misura in cui si può considerare il castello come sede
della grazia, tutti questi vani tentativi e sforzi significano
appunto -in termini teologici- che la grazia divina non si
lascia ottenere e costringere dall’arbitrio e dalla volontà
dell’uomo. L’inquietudine e l’impazienza non fanno che impedire
e confondere la sublime quiete del divino”. (Cfr.in W.Benjamin,
Angelus Novus, tr.it., Milano,1965,p.292). A sostegno di tale
interpretazione basterebbero alcuni pochi aforismi di Kafka
contenuti negli Otto quaderni in ottavo, a cominciare dal più
breve di tutti: “Chi cerca non trova, ma chi non cerca viene
trovato”
L’En Soph, il Nulla che fa disperare i discepoli di Isacco il
Cieco perché a Lui si deve guardare ma senza parlarne, diventa
in Kafka il Dio che quando pensa a noi è perché in lui affiorano
pensieri nichilistici, pensieri di suicidio. C’è di più: chi
prenderebbe le righe iniziali del piccolo racconto Il nuovo
avvocato (il dottor Bucefalo) per la trasposizione romanzesca
del Libro della trasmigrazione delle anime della scuola di
Luria, chi crederebbe seriamente che qui si stia parlando della
dottrina del ghilghul? Ecco allora la grande comicità di Kafka,
messa giustamente in luce da Thomas Mann, la sua geniale
capacità di fare incursione nel sacro per trarne argomento di
riso. Ma Kafka non dissacra, al contrario! Ci mostra invece che
il grottesco finisce per essere, fatalmente, la modalità umana,
inconsapevole e sapienziale, di vivere il sacro. Ma ci sono
altri esempi: la fisiognomica o arte di leggere i segni del viso
e del corpo, è oggetto di specifici trattati cabbalistici (come
il Sefer Chokhmat ha-Parzuf ) e costituisce una importante
sezione dello Zohar. L’esito di un processo, dice il
commerciante Block a Josef K., nel romanzo di Kafka, può spesso
dipendere dal viso dell’accusato, specialmente dalla linea delle
sue labbra. Il lettore, anche quello meno distratto, non si
sognerebbe mai di pensare che si stia parlando di Qabbalah, egli
è piuttosto attratto dalla garbata comicità che traspare dal
colloquio e dal fondo quasi surreale della narrazione su cui si
staglia prepotente e improvvisa una verità di cui il lettore è
certamente a conoscenza: la lunghezza dei processi. Ma, per
l’ennesimo paradosso, tale lunghezza è un bene più che un male
per l’imputato, visto che nei tribunali del Processo i giudizi
definitivi e favorevoli sono rari o addirittura inesistenti, a
prescindere, naturalmente, dall’innocenza o dalla colpevolezza
dell’imputato. Ecco un modo per sorridere di un’antica dottrina
e portarla dal cielo alla terra. Persino quando si parla del
‘posto’ che la Torah riserva ad ogni ebreo non muta la modalità
kafkiana di sorridere in faccia al destino. Nel breve racconto
Davanti alla legge, ripreso anche nelle ultime pagine del
Processo, rivive la leggenda del guardiano della soglia: “
Davanti alla Legge sta un usciere. A lui si rivolge un
campagnolo e chiede di entrare nella Legge. Ma l’usciere dice
che per il momento non gli può consentire l’accesso. L’uomo
riflette, poi chiede se potrà entrare più tardi. ‘Forse’, dice
l’usciere, ‘ma non ora’ (…) L’usciere gli offre uno sgabello e
la fa sedere vicino alla porta. Lì quello siede, giorni e anni.
Compie parecchi tentativi per essere ammesso nell’interno,
stanca l’usciere con le sue preghiere (…) L’uomo, che per il
viaggio s’era provvisto d’un gran corredo, ricorre a tutto, non
importa se sono cose di valore, per corrompere l’usciere. Quello
non respinge i doni, ma dice: ‘Accetto solo perché tu non creda
di avere lasciato qualcosa d’intentato’. Per anni e anni, l’uomo
non cessa d’osservare l’usciere (…) Infine la sua vista
s’indebolisce (…) Non ha più molto da vivere. Prima della morte,
tutte le vicende degli ultimi tempi, concentrate nella sua
testa, si traducono in una domanda che ancora non ha rivolto
all’usciere (…) ‘Se tutti aspirano alla Legge’, dice l’uomo,
‘come mai, in tanti anni, nessuno, oltre me, ha chiesto di
entrare?’. Il guardiano capisce che l’uomo è agli estremi e per
farsi intendere ruggisce contro il suo orecchio ormai chiuso:
‘Qui nessuno poteva entrare, la porta era destinata solo a te.
Ora me ne vado e la chiudo.’ (F.Kafka, Racconti, tr.it.,
Feltrinelli, VI Ed., Milano, 1965, pp.137-139)
Il cabbalista fa di tutto per attrarre la Shekinah nel mondo. Lo
Zohar assegna simbolicamente alla Shekinah la figura femminile.
Al contrario, la donna nella tradizione ebraica è talora vista
come immagine di Lilith. La stessa ambivalenza c'è nelle donne
dei romanzi di Kafka, egli, tuttavia, non può fare a meno di
notare che da loro deriva spesso un grande aiuto.
Il primo ‘aiuto’ di Leni, la segretaria dell'avvocato Huld nel
Processo, è il gran fracasso con cui attira l’attenzione di
Josef K. per sottrarlo alla noia dei discorsi tra lo zio,
l’avvocato e il cancelliere capo del tribunale. E’ lei che lo
introduce nello studio dell’avvocato ed è ancora lei a
suggerirgli la giusta strategia da adottare durante il processo:
‘Non stia a domandare nomi, ma guarisca di questo suo errore,
non sia più così ostinato, contro questo tribunale non si può
difendersi, bisogna finire per confessare. Alla prossima
occasione confessi tutto. Solo quando si è confessata la colpa
si ha la possibilità di sfuggire, solo allora. Ma anche questo
non è possibile senza aiuto di altri, però non deve preoccuparsi
per questo aiuto, penserò io stessa ad aiutarlo.’ (Ibid., p104).
Seguirà poi la scena della seduzione, quando K. è trascinato sul
tappeto e Leni gli sussurra: ‘Ora sei mio’. Poco prima,
tuttavia, Kafka, che non smette mai di divertirsi, non perde
occasione per alludere al ghilghul e al molteplice ‘scambio’ che
intercede tra vita animale e vita umana: tra i due si parla di
difetti fisici e Leni dice: “ ‘io per esempio ne ho uno, guardi
qua’ e stese il medio e l’indice della destra che erano
congiunti fra loro da una membrana fin quasi all’ultima falange.
Nel buio K. non capì subito quello che gli voleva far vedere, ed
essa perciò gli guidò la mano perché sentisse la sua. ‘Che
scherzo di natura!’ esclamò K., E quando ebbe esaminata tutta la
mano aggiunse: ‘Che bella zampetta!’ ” (Ibid. pp.105-106)
Anche Frida nel Castello si rivela un aiuto speciale e una
presenza soccorritrice. Anche lei, come Leni, è in contatto con
l’Alto e per certo tempo si propone come efficace intermediario
tra l’agrimensore K. e il suo diretto superiore, l’invisibile
signor Klamm. L’amore di Frida è ricambiato dall’agrimensore con
riluttanza e senza abbandono e benché si avveda che in lei ‘c’è
qualcosa di allegro, di libero’ egli ha come l’impressione di
smarrirsi nell’abbraccio della donna e teme che le sue speranze
di ascesa vadano in fumo. La verità è che nessun aiuto è
efficace né per giungere sino al Signore del Castello né per
mitigare la sentenza del Giudice del Tribunale. Ne sa qualcosa
il cabbalista Eliya de Vidas che in Reshit Chokhmà parla di un
tribunale sempre presente, che in ogni momento può intervenire
nella vita umana concreta con malattie e sofferenze di ogni tipo
e il cui verdetto può essere rinviato, ma può anche portare
subito a morte. Ne sa qualcosa Giobbe nel gridare a Dio il suo
dolore: "Signore perché dai importanza all'uomo? Perché lo
controlli ogni giorno e ogni momento lo metti alla prova ?
(Giobbe,7, 18)
In conclusione, dunque, vorrei dire che il pensiero sapienziale
della tradizione occidentale, pur nelle continue interferenze
col pensiero religioso, appare in grado di rivendicare una
propria peculiare elaborazione anche e nonostante la presenza
del divino, la cui imperscrutabile lontananza, come nel
monoteismo ebraico e la cui costante presenza, come nel
politeismo greco, nulla possono sulla libertà umana e sull'umano
sapere.
Il documento che presentiamo ai nostri graditi Ospiti è opera d'ingegno
del carissimo
Fratello Sergio M.
Il
contenuto non esplicita necessariamente il punto di vista della Loggia o del G.O.I. Ogni diritto è riconosciuto.
© Sergio M.
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