Quando si parla di morale si ha la
sensazione di trovarsi di fronte al
termometro regolatore della nostra
vita: anzi la maggior parte degli
uomini pensano ad essa come ad una
specie di spada di Damocle, la quale
indica il lecito e il non-lecito,
piuttosto che il giusto o il
non-giusto.
Si può dire che le cose stiano così
da quando per l'uomo é cominciata la
storia nel senso occidentale del
vocabolo risalente alla nota
enunciazione di Erodoto di Turi.
Infatti secondo la concezione greca
in generale ed erodotea in
particolare la storia appare come la
materializzazione, onde trarne
insegnamento, dell'antica sophia,
ovverosia sapienza; in termini
spiccioli la storia fissava quello
che era stato il comportamento, il
costume, degli avi perché in qualche
modo servisse da norma cui attenersi
per le generazioni successive. In
tal modo il comportamento di un
antenato ritenuto illustre per i più
svariati motivi divenne norma
regolatrice della vita di chi,
almeno, ambiva a divenire
altrettanto illustre: come del resto
succede oggi.
É evidente, a questo punto, che la
morale non è nata quale sofistica
disquisizione sul lecito o sul
non-lecito e tanto meno sul giusto o
sul non-giusto: essa sì é presentata
piuttosto come la storicizzazione
continua, in un progressivo
affastellarsi e cumularsi, degli usi
e dei costumi. Basti pensare che da
un punto di vista eminentemente
pratico e giuridico ancora oggi la
consuetudine locale ha valore di
legge, tanto forte che a volte è
addirittura in contrasto con quella
che può essere una legge del codice
nazionale o internazionale.
Solo molto più tardi quando la
coscienza dell'uomo si fu
enormemente allargata e ingigantita
tanto da divenire in certo qual
senso autocosciente, solo in altre
parole con l'inizio della storia,
cominciarono le disquisizioni
razionali anche sulla morale.
Allora dimenticando completamente il
lungo e plurimillenario cammino che
aveva portato faticosamente l'uomo
alla conquista del senso della
morale si cominciò a discutere sul
lecito e sull'illecito, sul giusto e
sull'ingiusto, pensando che il senso
morale fosse stato instillato
nell'uomo da quella che era divenuta
la massima astrazione e
personificazione del concetto morale
e cioè da Dio e dagli dèi.
In tale situazione mentale, per
esempio, sono i filosofi e i poeti
di tutte le letterature
mediterranee. Tanto per fare un
esempio Zeus fra gli altri
innumerevoli compiti aveva anche
quello di presiedere alla
ospitalità. Quando Ulisse si
allontana dal Ciclope accecato gli
impartisce in generale una
formidabile lezione di morale: in
modo particolare sul dovere
dell'ospitalità cui il gigante era
venuto meno. Anzi il senso morale di
Ulisse é tanto elevato che ad un
certo punto egli, personale autore
della sciagura toccata al Ciclope,
scompare ed entra in primo piano
Zeus, custode sommo di quel tipo
speciale di moralità, il quale si
presenta come colui che veramente ha
punito Polifemo.
Nella medesima condizione critica di
accettazione della morale e quindi
di una sua presentazione nella luce
del lecito e dell'illecito razionale
si trovano i farisei allorché si
recano da Gesù con l'incarico di
trarlo in inganno ponendogli il
celebre dilemma se fosse lecito o no
pagare il tributo a Cesare, per un
ebreo. La posizione dei farisei,
impeccabilmente logica sul piano
razionale, tradisce in modo evidente
l'allontanamento dell'uomo dalla sua
naturale avanzata in una perfezione
progressiva con l'appello fatto a
norme codificate, del tutto
esteriori e con significato
temporaneo, ritenute per altro
eterne ed immutabili. Dio aveva
comandato per bocca di Mosè al suo
popolo di non rendere omaggio se non
a lui solo: il tributo pagato a
Cesare non era dunque un'offesa
recata alla divinità? La logica era
perfetta, ma gli stessi farisei
avevano sentore che la giustizia
delle cose stava ben diversamente.
Essi sapevano benissimo che cosa
intendeva vietare la parola di Mosè
in quel particolare momento della
storia del loro popolo e conoscevano
parimenti molto bene il diverso
valore che aveva il tributo pagato a
Cesare, arrivando magari a
giustificarlo perfino razionalmente
col vago barlume di coscienza del
moderno dovere civico del cittadino
di pagare le tasse.
La risposta data dal profeta Galileo
fu di una semplicità tragica e
rasserenatrice. Egli superò a volo i
cavilli di una logica che rischiava
di divenire morale senza esserlo
minimamente, affondando i bagliori
della sua luce nella coscienza,
prospettata quale origine e al tempo
stesso limite del senso della
morale.
Gesù si richiama non già a sofismi
razionali più o meno logici, bensì
alla realtà del presente. Con grande
stupore dei farisei egli li invita
sul momento a riconoscere la moneta
da essi addotta quale motivo di
scandalo e poi li invita a
comportarsi secondo giustizia, unico
fondamento della legge morale, e non
secondo il ragionamento che è e deve
essere frutto anch'esso della
giustizia. A chi appartiene quella
moneta? Appartiene a Cesare. Ora se
appartiene a Cesare per quale motivo
la divinità, che é fra l'altro
giustizia somma, dovrebbe offendersi
se viene dato a Cesare quel che gli
appartiene?
In tal modo i farisei che avevano
creduto di aver trovato
sofisticamente e denunciato un
comportamento immorale nel pagamento
del tributo vengono essi stessi
implicitamente accusati di
immoralità per il semplice fatto di
avere sollevato la questione,
volendo attribuire alla divinità ciò
che non le apparteneva in quanto
indegno di lei.
Con quanto esposto sopra inizia a
delinearsi abbastanza nettamente la
nostra tesi sulla morale e sul modo
di intenderla. Noi crediamo infatti
che la morale, anche e soprattutto
intesa come legge divina, sia nata
con l'uomo e non prima di lui. Essa
infatti costituisce la ragione
stessa ed ultima del suo evolversi
continuo e progressivo, la legge
interna che lo porta alla
realizzazione finale di se stesso
nell'individuo e nella specie.
Si può dire che, sopra i cavilli
logici coi quali si è tentato di
caratterizzare la morale, soltanto
la parte semantica del vocabolo, del
tutto esteriore a qualsiasi
significato razionale, non abbia
subito violenze logiche.
Infatti, morale o etica indicò nel
passato e indica filologicamente
tuttora il modo di comportarsi, gli
atteggiamenti nel loro insieme
dell'uomo o anche gli usi ed i
costumi di un popolo. Proprio per
ciò si é soliti parlare di costumi
diversi e di affinamento o di
degenerazione di questi,
specialmente in riferimento all'arco
storico evolutivo delle varie
civiltà.
Appare evidente che il significato
più vero ed autentico di morale é
quello insito al fondo del suo
valore verbale: anche se tale
affermazione può sembrare a prima
vista alquanto grossolana ai
filosofi morali di professione.
Basti tenere presente a questo
proposito il fatto molto illuminante
che si verifica nelle elaborazioni
teologiche di tutte le religioni
dopo il superamento delle fasi più
naturistiche: la teofania più pura e
più elevata si concretizza
nell'uomo. Il santo, l'anacoreta,
sentono realizzare in se stessi Dio
e la sua legge, anzi si può dire che
il loro essere ne diviene ogni
giorno di più la strumentalizzazione
più completa e perfetta. Fra gli
altri, non l'ha detto anche Paolo di
Tarso che l'uomo è il tempio vivente
di Dio? É chiaro pertanto che le sue
azioni, che descrivono giorno per
giorno il suo atteggiamento
costituendone la morale, vengono
regolate da norme ben precise.
Ma qui sta il punto: di quali norme
si tratta? sono esse esterne e
prefabbricate all'uomo? O non
scaturiscono piuttosto
dall'avanzamento progressivo e
illimitato della coscienza già
conquistata e cumulata? Non é forse
questa appunto la morale,
l'allargamento continuo, in una
espansione infinita per ricevere e
realizzare Dio, della coscienza (cum-scientia)
in atteggiamenti sempre più aperti
nel senso che non contraddicono
quelli già consolidati?
Uno sguardo anche superficiale alla
nostra storia di uomini, storia che
noi siamo convinti coincida
perfettamente con la nostra
evoluzione morale, può darci la
misura dell'attendibilità di questa
tesi.
Per migliaia di anni i rapporti
umani sono stati regolati sulla
schiavitù ed è noto che lo
schiavismo fu tanto morale che il
moralissimo Platone (e non solo lui)
dubitò perfino che lo schiavo avesse
un'anima immortale!
La posizione di Platone nel mondo
antico e nel successivo sviluppo del
pensiero occidentale é molto
significativa a proposito della
razionalizzazione della morale.
Infatti la postulazione delle idee
eterne e immutabili, esterne
all'uomo, iperuranie e divine,
dualizzò definitivamente l'umano e
l'uomo; per cui quella che altro non
era se non la sua condizione e la
sua struttura, per così dire,
fisiologica, venne prospettata quale
norma metafisica.
Ma l'assurdità della posizione
mentale del moralissimo Platone
nella realtà pratica è smantellata,
ci sembra, dalla seguente
considerazione. É noto che il divino
filosofo bollò di immoralità i
Sofisti al punto che ancor oggi tale
giudizio pesa decisamente sulla
comprensione valutativa di questi.
Ora circa lo schiavismo, mentre
Platone, come già abbiamo ricordato,
lo riconosceva e lo accettava
dubitando anche che lo schiavo
possedesse un'anima, il sofista
Alcidamante affermava testualmente:
«Iddio fece tutti liberi: nessuno la
natura fece schiavo!».
A questo punto c'è da chiedersi non
già chi fosse più morale, se Platone
oppure Alcidamante, ma piuttosto chi
dei due, sopra e oltre le
giustificazioni razionali del lecito
e dell'illecito, fosse più da vicino
approdato alla giustizia.
Perché é proprio qui che la morale
corre il rischio di naufragare: nel
porre sullo stesso piano il giusto e
il lecito. Mentre infatti il lecito
è il frutto delle giustificazioni
logiche e razionali, il giusto è il
risultato di un atto d'amore nella
scelta che la coscienza fa
nell'agire: amore verso il proprio
essere e contemporaneamente verso
tutte le altre creature, in quanto
non si comporta utilitaristicamente,
ripiegando per l'interesse proprio
alle posizioni già conquistate ma
tende a fare un ulteriore passo
avanti sorpassando quel che le
sarebbe pur lecito fare ma che
facendo non la renderebbe per nulla
migliore.
Perché questo, ci sembra, è il
compito e il fine e la natura della
morale; qui sta la sua
realizzazione: nel migliorare
dell'essere e in modo particolare
nel fatto che l'uomo diventi
migliore.
Qui anche teoreticamente riposa la
sua storicità: nell'essere l'uomo
esistenzialmente gettato nel tempo e
quindi nel fatto che il suo vivere è
alla fin fine una serie ben precisa
di azioni, di atti che alla fine lo
qualificano nei confronti di se
stesso e degli altri.
Ora la storicità della morale e la
sua realizzazione consistono in
questa serie di azioni:
specificatamente la sua positività é
legata e condizionata dalla
giustizia perseguita con tali
azioni, tanto che queste possano
appunto rendere migliore l'uomo.
Migliore rispetto a che cosa? Questo
é il mistero e l'essenza stessa che
avvolgono il nostro essere umano. Ma
certo anche rispetto a questo «che
cosa» possiamo essere sorretti dalla
presunzione di poter dire che esso
consista nell'amore, nella
tolleranza, nel non turbare la pace
del naturale svolgersi delle cose.
Non era già questa la grande
intuizione dell'essere dominato da
odio e da amore enunciata da
Empedocle di Agrigento?
Non ha detto anche il profeta
Galileo che l'uomo non deve
sconvolgere ciò che Dio ha ordinato? |