|
Il Milindapanha
L'Ospite interessato può
consultare il testo integrale nella sezione "I Teasti senza Età"
Il
Milindapanha
La primavera dell'anno 325 av. Cristo in cui Alessandro il Grande valicò Indo, è una delle più importanti nella storia delle antiche civiltà; la conquista dell'India venne paragonata alla scoperta dell'America per l'importanza che questi avvenimenti ebbero sulla civiltà del loro tempo. Con la conoscenza dell'India, l'orizzonte dei Greci si allarga notevolmente; vengono chiariti concetti geografici, naturalistici, etnologici; ed anche - come hanno dimostrato recenti studi sulle religioni misteriosofiche - le concezioni religiose dell'occidente subiscono l'influenza del pensiero orientale. Alla Grecia si aprono nuove vie di comunicazione, grandi sbocchi per il commercio e numerosi mercanti abbandonano la patria e si stabiliscono nelle nuove terre.
Anche per l'India, che finora era vissuta completamente chiusa ad ogni influenza esterna, cominciò una nuova epoca: il nome di Alessandro non è menzionato in alcun documento indiano, ma ciò dipende dal fatto che il grande conquistatore non riuscì a penetrare in quella parte del paese in cui fioriva a quel tempo una civiltà. Però nei secoli seguenti l'influenza greca si manifestava in vari rami della vita culturale: si rivela nelle scienze, nelle arti, e specialmente nell'architettura e nella plastica dei territori di confine. Tale impronta non fu duratura e con l'andar dei secoli venne a poco a poco cancellata; ma ormai la via era aperta e l'India era congiunta per sempre al resto del mondo.
Come è noto, l'immenso regno di Alessandro fu di breve durata: poco dopo la sua morte i territori indiani riacquistarono l'indipendenza; ma circa la metà del terzo secolo venne fondato il regno greco- battriano che sotto Eutidemo riuscì ad allargarsi con notevoli conquiste in India, facilitate, a quanto pare, dalla caduta del grande regno nazionale indiano. Dal regno greco-battriano si formò nel secondo secolo quello greco-indiano che durò fino al 93 av.C.
Erano tempi inquieti, i re si succedevano ai re senza unità dinastica; chi spinto dall'ambizione arrivava al supremo potere veniva dopo poco tempo detronizzato o ucciso; nello spazio di cento anni si contano ventitrè sovrani che regnarono nella Battria ed in India.
Una rara apparizione in quell'epoca torbida è la figura di Menandro reggitore avveduto, che governò per circa trenta anni ed allargò e consolidò il regno con fortunate conquiste. Si conservano ventidue specie di monete che portano il suo nome e che ancor oggi si possono acquistare in India pagandole poco più del valore a peso d'argento. Le incisioni di esse dimostrano chiaramente come questo sovrano greco avesse adottato costumi indiani: accanto a Pallade e a Nike (Dea greca della vittoria) troviamo riprodotti elefanti, cammelli, tori, teste di cinghiali, e così via; da un lato c'è un'iscrizione greca, dall'altro un'iscrizione indiana.
Le notizie che abbiamo intorno a questo sovrano sono quanto mai imprecise: è certo però che egli riuscì a fondare un regno importante e che il suo nome merita un posto nella storia. Se l'India avesse avuto un maggiore senso storico e un più vigile senso critico, noi avremmo indubbiamente un'idea chiara e documentata di questo grande sovrano che ha avuto non soltanto un'importanza politica eccezionale per quei tempi, ma che è anche riuscito a legare il suo nome ai maggiori problemi culturali e religiosi di quell'epoca.
Di re Menandro o Milinda, come veniva chiamato dal popolo indiano, tratta un interessante documento letterario; è questo il celebre romanzo buddista intitolato «Milindapanha» cioè «Le domande di re Milinda». Gli argomenti discussi fra il re greco e un monaco buddista sono i più importanti e i più essenziali non solo della religione e della metafisica buddista, ma di ogni religione e filosofia. Il problema principale riguarda l'esistenza dell'anima, la sua sopravvivenza dopo la morte, il suo passaggio da una incarnazione all'altra e il legame Karmico fra le opere dell'uomo e le condizioni della nuova rinascita. La concezione buddista di quei problemi è talmente lontana dalla mentalità occidentale che non riesce certamente facile penetrarne il significato preciso, anzi spesso noi troviamo nelle soluzioni indiane una unione di concetti apparentemente contraddittori che ci sbalordisce. Noi vedremo, ad esempio, oche i buddisti negano recisamente la esistenza dell'anima, ma contemporaneamente affermano in modo altrettanto reciso che ogni uomo rinasce dopo la morte e che c'è un legame necessario fra le azioni di una vita e lo stato in cui verremo a trovarci nella vita successiva. Per risolvere questa contraddizione noi dobbiamo uscire in certo modo dal clima spirituale dell'occidente e assuefarci ad un nuovo significato delle parole e dei concetti.
Se uno scrittore europeo afferma: io non credo all'esistenza dell'anima, ciò significa ch'egli ha una visione materialistica della vita e considera lo spirito nient'altro che una manifestazione energetica della materia, manifestazione che persiste fino a quando la materia non si disgrega. Chi volesse interpretare a questo modo la negazione buddistica, si precluderebbe la via ad ogni comprensione: quando il buddista nega l'esistenza sostanziale dell'anima egli è lontanissimo dall'assumere un atteggiamento materialista, tanto è vero che fin dall'inizio egli parte piuttosto dal presupposto che il mondo materiale non esiste ma è pura illusione (maja)
(1). L'intima essenza spirituale dell'universo è dunque per lui fuori d'ogni discussione; ciò ch'egli nega è invece la sostanzialità dell'anima individuale. Si potrebbe dire che l'idealismo occidentale ha, in confronto al buddismo, un'imposizione antropomorfica ed egocentrica: per l'europeo il punto di partenza è il cogito: io penso, io sono, io vivo; per l'indiano invece è l'Universo che pensa e vive in noi. Forse i quattro Dyamas, cioè i quattro gradi di iniziazione buddistica, non hanno altro scopo che di far giungere l'adepto a grado a grado all'estatica immedesimazione con lo spirito universale. Comunque è certo che la negazione dell'anima è un concetto che presenta enormi difficoltà e che ha dato luogo a innumerevoli discussioni e a diversissime interpretazioni. Noi ritorneremo su ciò nella valutazione che ci proponiamo di fare dei più importanti problemi del pensiero buddista, ma poiché desideriamo appoggiare la nostra interpretazione su dati di fatto e poiché nel Milindapanha, per unanime consenso dei dotti, i concetti religiosi e metafisici che ci interessano sono esposti con la massima fedeltà alla tradizione originaria e con la maggior possibile precisione, ne daremo un breve riassunto che permetterà al lettore occidentale di avere un'idea del pensiero buddista.
L'opera risale al secondo secolo dell'era nostra e venne scritta a Ceylon in lingua pali. Però vari indizi farebbero supporre che l'originale fu scritto in sanscrito e che il suo autore visse nell'estrema parte nord-occidentale dell'India, dato che solo in quella regione è presumibile che si sia conservato per più di due secoli dopo la caduta del dominio greco, il ricordo di re Menandro e delle sue gesta. Il romanzo riporta nelle parti più importanti, le discussioni che ebbero luogo tra il re e il sapiente buddista Nagasena. Il monaco è in grado di dare una risposta soddisfacente a tutte le numerose domande che gli vengono rivolte da Milinda in materia religiosa, etica, e filosofica; la conclusione è che il sovrano, meravigliato ed entusiasta della sapienza del filosofo, si fa buddista e a poco a poco raggiunge il più alto grado di iniziazione che sia concesso sulla terra ad un seguace di Budda.
L'opera ha carattere fantastico e non possiamo attenderci ch'essa ci riveli importanti notizie storiche degne di fede; tanto più che il libro contiene in qualche parte delle imitazioni di opere anteriori.
All'autore, il mondo intellettuale greco doveva essere affatto sconosciuto e tutti i discorsi messi in bocca al re e al suo interlocutore hanno carattere assolutamente indiano. Il Milindapanha s'inizia con una descrizione della città di Sagala nel paese di Yonakas. La regione é ricca di giardini e di parchi, di boschi e di monti; i cittadini conducono una vita serena perchè tutti i nemici sono ormai debellati e nel paese regna la prosperità e l'abbondanza; la città è tanto piena di tesori d'ogni sorta che solo una dimora celeste potrebbe venirle paragonata per ricchezza e magnificenza: nel centro di essa sorge il palazzo reale, sede di Milinda. Ricchissimo e potentissimo, questo sovrano non aveva un suo pari in tutta India: era fedele osservante dei riti, esperto in tutte le arti e in tutte le scienze, conosceva l'aritmetica, la musica,, la medicina, i quattro Veda, la filosofia, l'astronomia, la magia e tutte le altre scienze: amava discutere coi capi di ogni scuola religiosa, ma nessuno riusciva a vincerlo in sapienza. Umiliati di essere soggiogati dall'abilità dialettica e dal grande sapere del re, tutti i dotti si allontanavano dalla capitale; i monaci si erano per lo più ritirati a vivere nei monti dell'Himalaya.
Un giorno il re, dopo una visita alle truppe, esprime il desiderio di discutere con un sapiente, sia egli buddista o bramano; i cortigiani gli nominano sei celebri maestri che godono la riverenza di tutto il popolo, ma anche questi, interrogati uno per uno, vengono vinti dal re Milinda. Egli pensava: «L'india ormai è vuota; non esiste alcun bramano o buddista che sia in grado di discutere con me?» - e dice ai suoi ministri: - «Dolce e chiara è la notte: trovatemi voi un bramano o un buddista che voglia conversare con me e risolvere i miei dubbi». I ministri tacciono e non possono dargli nessun consiglio. Ma le parole del re erano giunte in alto fino sull'Himalaya dove vivono «miliardi» di santi buddisti che si sono ritirati colà dopo aver conseguito sulla terra lo scopo supremo: tra loro il Venerabile Assagutta, grazie alla divina facoltà del suo udito, venuto a cognizione del desiderio di Milinda, chiama a raccolta sulla cima del monte una moltitudine di santi e chiede per tre volte, secondo la consuetudine buddista, se qualcuno sia disposto a discutere col re e risolvere i suoi problemi. Ma i miliardi di santi tacciono allora Assagutta dice: «Nel cielo dei trentatrè (cioè delle antiche divinità vediche) sorge il palazzo di nome Ketumati in cui abita il dio Mahasena: egli sarà certamente in grado di discute con re Milinda».
I miliardi di santi, con Assagutta alla testa, spariscono dal monte per riapparire nel cielo dei trentatrè: colà vengono ricevuti con grande riverenza da Sakka (cioè Indra. Va rilevato che nella letteratura buddista tutti gli dei sono seguaci di Buddha). Il re degli dei guida i santi da Mahasena; Assagutta lo abbraccia e lo prega in nome di tutta la comunità di rinascere nel mondo degli uomini. Mahasena secondo la consuetudine, respinge per tre volte la preghiera: ricorda che è molto duro vivere sotto parvenza umana e afferma che non ha alcun desiderio di rinascere nel mondo degli uomini dopo ave superato tante esistenze e aver raggiunto il mondo degli dei, spera ora di venir assorbito nel Nirvana. Ma Assagutta replica dicendo che non esiste nel mondo degli dei e in quello degli uomini alcuno all'infuori di lui che possa validamente difendere la fede contro le affermazioni eretiche di re Milinda. Tale ragione persuade Mahasena che si dichiara disposto a ritornare nel mondo degli uomini per ricominciarvi una nuova esistenza.
Come si vede, tanto era il rispetto tributato al re, che l'autore di questi dialoghi ritenne necessario sconvolgere cielo e terra per trovargli un degno avversario. Va poi ricordato che Mahasena o Nagasena, com'è il suo nome sotto spoglie mortali, aveva vissuto, ai tempi in cui Buddha era in vita, in un chiostro sulla riva del Gange. Uno dei novizi era allora re Milinda; Nagasena ch'era un autorevole monaco, si bisticciò col novizio perchè questi si rifiutava di pulire il cortile del chiostro come voleva il regolamento. Nei secoli posteriori i due uomini emigrarono di vita in vita tra gli dei e gli uomini. Buddha un giorno li vide e predisse il loro destino: «Cinquecento anni dopo ch'io sarò morto questi due rinasceranno e con domande e parabole chiariranno il mio insegnamento».
Il dio Mahasena rinacque dunque in un villaggio ai piedi dell'Himalaya, come figlio del Bramano Sonuttara e ricevette il nome di Nagasena; la sua nascita fu accompagnata da avvenimenti miracolosi. A sette anni il ragazzo è affidato ad un maestro bramano che lo inizia in tutti i rami del sapere; dopo avere appreso tutto quanto il maestro poteva insegnargli, Nagasena si ritira in luogo solitario e nella meditazione riconosce che tutto l'insegnamento avuto era privo di qualsiasi valore. In quel tempo s'incontra con un monaco buddista e si converte a quella religione. Secondo il costume, Nagasena studiò presso famosi maestri, in luoghi diversi; ed i suoi progressi furono così prodigiosi che gli dei applaudirono, la terra tremò e dal cielo cadde una pioggia di fiori e di polvere profumata di legno di sandalo. Finalmente fu invitato dai Santi della montagna a recarsi a Sagala per discutere con re Milinda e convertirlo al Buddismo: egli vi si recò accompagnato dai monaci più anziani le cui vesti brillavano come lampade nelle strade della città.
Proprio in quei giorni, il re aveva invitato, secondo il suo costume, i cortigiani a fargli conoscere un sapiente col quale discutere; essi lo condussero dal Venerabile Ayupala che godeva gran fama. Colà giunto il re chiede al Venerabile quale sia lo scopo della rinuncia dei monaci alla vita mondana e se i laici abbiano modo di raggiungere la meta suprema anche senza entrare nell'ordine. Il monaco risponde affermando e ricorda che nel tempo in cui il Venerabile (Buddha) fondò il regno della verità con la sua prima predica in Benares, innumerevoli schiere di dei ebbero la rivelazione suprema (per i buddisti anche gli dei sono considerati esseri finiti, suscettibili di perfezione). Prima di quel momento - dice Ayupala - nessuno fra loro aveva rinunciato ai piaceri mondani. «Ecco - dice il re - la vostra rinuncia al mondo non ha altro significato che questo: la vita miserabile che conducete, senza casa senza cibo conveniente, in mezzo alle privazioni più dure; anziché essere meritoria non è che la logica conseguenza delle precedenti vite in cui siete stati dei ladri e dei briganti; la vostra miserabile esistenza non è niente altro che un castigo». A queste considerazioni il Venerabile Ayupala non sa rispondere parola e, mentre i cortigiani si affannano ad assicurare il re che il monaco è sapiente ma che difetta solo di sicurezza, Milinda esclama come al solito: «In verità l'India è vuota; tutta pula e niente grano; non esiste al mondo buddista o bramano che possa discutere con me e risolvere i miei dubbi». Ma guardandosi intorno il re scorge negli sguardi dei cortigiani qualche cosa di nuovo: il loro volto esprime una sicurezza inusitata e finalmente un ministro prende la parola e dice al re che il buddista Nagasena è giunto a Sagala e che tutti i sapienti lo tengono già in grandissima considerazione. Udendo quel nome Milinda è preso da folle terrore e sente rizzarsi i capelli, ha il presentimento che colui avrà il potere di vincerlo. Subito si reca dal sapiente che siede nel suo rifugio circondato da una grande quantità di monaci (secondo il testo originale 80.000!); scorgendo Nagasena, il re è preso nuovamente da folle terrore.
Qui l'autore, secondo il costume indiano accumula paragoni su paragoni tratti dal regno della natura: lo stato d'animo del re rassomiglia a quello di uno sciacallo circondato da giganteschi serpenti; o di orsi inseguiti da bufali, o a quello di una rana rincorsa da un serpente, e così via.
Ma il re nasconde la sua angoscia al popolo e dice all'accompagnatore: «Non occorre che tu mi indichi Nagasena, io stesso saprò trovarlo». E così avviene: benché il monaco sieda in mezzo agli altri e sia tra i più giovani, re lo riconosce immediatamente e a poco a poco la sua angoscia si placa. Nel dialogo che segue ci vengono subito esposti i concetti più importanti del pensiero buddista. Re Milinda chiede al saggio il suo nome e questi risponde: - «Il mio nome, o gran re, è Nagasena e così vengo chiamato dai miei confratelli; ma benché i genitori abbiano costume di dare dei nomi come Nagasena, Surasena, o Virasena, e così via, essi non sono che una denominazione, un'indicazione, non un soggetto».
Altamente sorpreso Milinda chiama i cortigiani e i sapienti a testimoni di tale enormità. «Se non esiste un soggetto - egli chiede - chi è dunque che vi dà ciò di cui avete bisogno? Chi è che accoglie questi doni? Chi fa il bene e il male? Se tu avessi ragione non esisterebbero nè attori, né goditori, né meriti, nè colpe, nè premi, nè castighi e se qualcuno ti uccidesse egli non commetterebbe delitto».
Quindi il re domanda al sapiente in che cosa consista Nagasena, se nei capelli o nelle unghie, nella pelle o nella carne, nelle ossa o nelle forme fisiche, nelle sensazioni o nelle rappresentazioni, o nella conoscenza, o nella connessione di tutte queste cose; oppure se Nagasena esiste all'infuori di tutto questo. Poiché a tutte le domande il monaco risponde sempre negando, il re ne conclude che Nagasena non esiste. Viene quindi la volta del sapiente che invita il re a spiegargli in che cosa consista il carro su cui è giunto. - «Forse che il carro consiste nel timone, oppure nell'asse, nelle ruote o nell'intelaiatura, nelle redini o nei giogo, oppure nella connessione di tutte queste cose? O forse il carro e qualche cosa all'infuori di tutto ciò?». Allorché il re ha negato tutte queste domande, Nagasena tra l'approvazione di tutti quelli che lo circondano, afferma che non esiste alcun carro. Ma il re allora osserva che ove esistano e siano congiunti fra loro timone ed asse, ruote e intelaiatura, e così via, a quel complesso si costuma dare l'appellativo di «carro». Ora Nagasena ha ottenuto la risposta che voleva e quindi afferma: «É come dici; ed allo stesso modo si ha costume di appellarmi Nagasena con riguardo ai miei capelli e alla mia figura fisica, alle mie sensazioni, alle mie rappresentazioni, al mio conoscere; ma un soggetto nel vero senso della parola non esiste». Egli cita quindi la sentenza di una celebre monaca che viveva ai tempi di Buddha, la quale affermava che i singoli elementi del nostro essere non formano una vera e propria personalità ma sono soltanto casualmente riuniti in una rappresentazione empirica.
Persuaso da questi argomenti re Milinda tributa omaggio al profondo sapere del monaco.
Al lettore occidentale non potrà sfuggire l'ingenuità con cui viene descritto l'improvviso cambiamento di opinione di re Milinda, ma egli non potrà disconoscere che in queste righe è esposto molto chiaramente uno dei principali insegnamenti del buddismo: i buddisti affermano che a somiglianza dei continui mutamenti che avvengono nel mondo della natura, anche il nostro mondo interiore consiste in un susseguirsi senza connessione, di sensazioni, rappresentazioni, concetti. Ciò che viene denominato spirito, anima, io, soggetto, non è nient'altro che il complesso di quei passeggeri e mutabili elementi che nella vita quotidiana vengono raggruppati per costituire quella essenza che viene denominata personalità. Va rilevato che accanto a questa concezione filosofica, sussiste anche presso i buddisti quella popolare secondo cui gli uomini sono responsabili delle loro azioni e chi agisce è la stessa persona di chi riceve il rispettivo premio o castigo. La contraddizione che esiste fra queste due concezioni è stata più volte rilevata (Cfr. Oldenberg, Buddha, terza edizione, pag. 300).
Nei discorsi che hanno luogo tra re Milinda e Nagasena, si tratta più volte dell'essenza dell'anima o Io e della costanza della personalità e ad un certo punto, il Sapiente rivolgendosi al cortigiano che l'accompagna e che secondo la credenza popolare ritiene che l'alito e l'anima siano una stessa cosa, gli dimostra che il respiro non è nient'altro che un attributo del corpo: questa affermazione non sembrava allora così naturale come appare a noi.
Ma più interessanti sono i paragoni con cui Nagasena procura di far intendere al re le posizioni assunte dal buddismo rispetto al problema dell'identità del soggetto. Ad un certo punto il re chiede che cosa rinasca dell'individuo nelle esistenze successive (II, 2, 6).
-
Nome e figura (namarupa, cioè essenza e forma fisica, vale a dire presso a poco ciò che noi denominiamo personalità).
-
Rinasce sempre il medesimo namarupa?
-
No, poiché questo namarupa ha compiuto azioni buone e cattive; dalla forma che emana da queste azioni sorgerà, nella rinascita, un altro namarupa.
-
Non potrebbe darsi che talora il nuovo essere sia liberato dalla forza che emana da queste azioni?
-
Si, nel caso che egli non rinasca; ma se egli rinasce è segno che non ne è liberato.
Invitato dal re, il monaco chiarisce il suo insegnamento con vari paragoni: si immagini ad esempio un uomo che abbia rubato dei manghi; denunciato dal legittimo possessore egli si difende così al tribunale: - Io non ho rubati i manghi di quest'uomo perché i manghi che egli ha seminato non sono gli stessi che io ho presi quindi io non merito alcun castigo. - Ma il ladro verrebbe punito a buon diritto perchè i manghi sottratti erano la conseguenza di quelli che furono piantati. Oppure: si immagini un altro uomo, che portata una lampada a casa sua, vi appicchi il fuoco e il fuoco si estenda all'intero villaggio: ma quando il popolo lo rende responsabile della sciagura, egli si difende dicendo che il fuoco che ha bruciato il villaggio era un'altro da quello della lampada. Come è giusto, nessuno ascolta queste scuse, perché la verità è che un fuoco ha prodotto l'altro. La stessa relazione - conclude Nagasena c'è tra norme e figura delle diverse esistenze.
Le stesse considerazioni valgono, secondo l'insegnamento del buddismo anche per l'apparente costanza della personalità.
Il monaco rileva (II.2,I ) che un uomo nei diversi stati della sua esistenza non è né sempre il medesimo ne un'altro e lo paragona ad una lampada che accesa la sera arde tutta la notte. Come la fiamma della prima vigilia non è identica a quella della seconda e della terza vigilia, mentre la lampada da cui proviene la luce resta in tutto il tempo la medesima, così avviene della personalità che rappresenta la continuità fisica apparente nel continuo fluire delle rappresentazioni. In qualunque momento, l'uomo è precisamente ciò di cui è consapevole, ma poiché il contenuto della coscienza soggiace a un continuo cambiamento, in un certo senso l'uomo non è mai il medesimo: d'altra parte invece, con riguardo all'identità corporale, l'uomo è sempre lo stesso. La lampada quindi corrisponde al corpo, e la fiamma può paragonarsi al contenuto sempre mutevole della coscienza.
Ci sembra interessante osservare che la filosofia buddista con i concetti su espressi, precorre di oltre sedici secoli la coscienza occidentale: la quale solo verso la fine del 1800 enuncerà le ipotesi della disintegrazione dell'io e dell'io «coloniale». Il Ribot nel suo trattato «Les Maladies de la personalitè» afferma: «L'unità dell'io è dunque tutt'altra cosa dell'identità una degli spiritualisti che si sparpaglia in fenomeni molteplici, ma è la coordinazione di un certo numero di stati rinascenti senza tregua, aventi per solo punto di appoggio il sentimento vago del nostro corpo. Questa unità non va dall'alto in basso, ma dal basso in alto: essa non è un punto iniziale, ma mi punto terminale. Questa unità perfetta esiste veramente? Rigorosamente, matematicamente parlando è certo che no». Ma questa spiegazione naturalistica se non può conciliarsi con la filosofia del Buddismo la quale, come abbiamo visto, dell'anima ha un concetto tutto diverso da quello che abbiamo noi occidentali, non può davvero soddisfare la nostra ragione, specie quando, in conseguenza di un altro ordine d'idee o per via di un altro ragionamento siamo arrivati alla persuasione assoluta dell'esistenza dell'anima personale, indipendente dal corpo. Abbiamo creduto interessante riportare il brano suddetto onde mostrare l'identità di conclusioni che c'è fra l'autore indiano, che scriveva il suo romanzo nel 200 dopo Cristo, ed il prof. Ribot che dettava il suo libro nella fine del 1800.
Ad un certo punto Nagasena chiede al re che cosa egli intenda col concetto dell'anima. «Il principio vitale che, risiede nel nostro interno (risponde Milinda) attraverso il quale: l'occhio vede, l'orecchio ode, la lingua sente il gusto, il naso gli odori, il corpo percepisce e il senso interno giudica, questo è l'anima allo stesso modo che io sedendo nel mio palazzo posso a mio piacere guardare da qualunque finestra». Però il monaco partendo dal paragone adoperato da Milinda avverte che le sue affermazioni non corrispondono al vero perchè mentre il re può a suo piacere guardare fuori da una qualsiasi finestra del palazzo, il principio vitale da lui menzionato non è in grado di scegliere liberamente la propria finestra per la percezione delle cose esterne. Con gli occhi si può vedere, ma non udire, né sentire i sapori; e d'altra parte con nessun altro organo si può vedere se non con gli occhi. Poiché queste forze sensibili non sono collegate le une alle altre è da dedursi che non sono tenute unite da un reggitore interno; anche per altre ragioni il paragone citato dal re non corrisponde.
Le cose stanno in questo modo - conclude Nagascua - in dipendenza del senso della vista e delle forme, del senso dell'udito e dei suoni, e così via, sorge la percezione sensibile e quindi il pensiero, l'astrazione, il senso vitale e l'attenzione. Ma l'anima sostanziale (o un principio vitale interno) non esiste. Alla domanda se il sapiente sia disposto di discutere con il re anche in avvenire, quegli risponde: «Discuterò volentieri se tu intendi discutere con me come un sapiente; ma non lo farò se vuoi discutere come un Re». «Come discutono i sapienti?» «I sapienti si preoccupano solamente di sviluppare e chiarire un dato argomento: l'uno o l'altro viene convinto e riconosce il proprio errore: alcuni annunciano dei principi, altri li confutano con varie argomentazioni, eppure gli avversari non si inquietano mai. A questo modo discutono i sapienti, o grande sovrano». «E come discutono i Re?» «Se i Re nelle discussioni giungono a un tratto in cui l'avversario è d'opinione contraria alla loro, lo castigano severamente. A questo modo discutono i Re, o grande sovrano.» Allora io discuterò come un sapiente e non come un re: parla, o Venerabile, come se parlassi con un monaco, con un novizio, con un laico o con un servo: non avere alcun timore».
Su questa base hanno luogo le ulteriori discussioni fra Nagasena e re Milinda, dapprima nel palazzo reale alla presenza di dieci monaci, più tardi da soli come è desiderio del re. Esse trattano dello scopo della rinuncia del buddismo ai beni mondani e di altri concetti religiosi. Una volta Milinda chiede al sapiente se il tempo esiste o no e Nagasena risponde che per tutti gli esseri che sono stati assorbiti nel Nirvana esso non esiste: il tempo esiste solamente per gli esseri che sono legati alla catena dell'esistenza umana. Ove si immaginasse che tutti gli esseri fossero assorbiti nel Nirvana, il tempo non esisterebbe. Qui si vede che il Milindapanha, precorrendo almeno fino ad un certo punto la filosofia di Kant e di tutta la scienza moderna, considera il tempo come una forza della rappresentazione umana
(2).
Il re chiede dove sia la radice del tempo, cioè da che cosa dipenda la rappresentazione del tempo. Nagasena indica quel fattore che secondo i Buddisti sta al principio della serie causale, cioè l'ignoranza
(3) da cui proviene anche tutta l'esistenza empirica coi suoi dolori. Da questa 'ignoranza derivano i problemi inestricabili dell'inizio e della fine della serie temporale. Richiesto dal Re Milinda di un paragone, il monaco cita l'esempio noto nella letteratura indiana e nella filosofia bramanica della pianta e del seme e quello familiare alla letteratura occidentale dell'uovo e della gallina: egli rileva come in ambedue questi casi la continuità non abbia fine né sia possibile riconoscere l'inizio della serie causale. Nel capitolo II,3,7 si parla della relazione fra la percezione sensibile e la conoscenza. Secondo la concezione Buddista non esiste fra le due alcuna connessione interiore: dove ha luogo l'attività degli organi sensibili, segue sempre l'attività concettuale: però l'una non è in alcun modo legata all'altra. Il buddista spiega il regolare susseguirsi delle due attività semplicemente come una cieca necessità della natura.
Qui il Milindapanha precorre l'occasionismo dei cartesiani secondo il quale sussisterebbe appunto una corrispondenza occasionale e non necessaria tra le varie facoltà spirituali. Nagasena dà in proposito parecchi esempi: quando piove - egli dice fra l'altro - l'acqua scorre giù per un pendio, e quando torna a piovere la nuova acqua segue la stessa strada senza che la prima abbia additata la via alla seconda o che la seconda faccia dipendere il suo corso dalla prima; allo stesso modo - egli conclude - non esiste comunicazione fra la percezione sensibile e le funzioni dell'intelletto.
Poco dopo la discussione intorno a questi problemi, alla fine del secondo libro è scritto: «qui finisce l'interrogazione di Nagasena da parte di re Milinda». Questa notizia riesce alquanto strana al lettore che si accorge di aver letto soltanto un sesto dell'opera. Secondo il Garbe, il romanzo nella sua edizione originaria chiudeva proprio a quel punto e tutto il resto è frutto di aggiunte posteriori, inserite probabilmente a poco a poco: infatti nell'antica edizione cinese il Milindapanha finisce a quel punto e nell'edizione cinese più moderna poco dopo. Il prof. Noeldeke osserva a questo proposito che qualche cosa di analogo si è verificato nella Bibbia: infatti in chiusa al settantunesimo salmo si trovano le parole: «Qui finiscono le laudi di Davide, figlio di Jesse» segno che la raccolta più antica di salmi terminava lì e quando si aggiunse dei salmi nuovi si lasciò sussistere la notizia.
Alcuni contestarono questa opinione rilevando la sproporzione che si verificherebbe in tal caso nel Milindapanha tra la lunga e minuziosa introduzione e il breve contenuto: contro questa obbiezione il Garbe osserva che sono proprio le migliori opere indiane quelle che difettano di misura. Ma la tesi del Garbe è sostenuta da un altro e più valido argomento: mentre le questioni che vengono dibattute in questa prima parte sono di tal natura da aver potuto interessare un principe greco, i dilemmi e i problemi che vengono trattati nelle parti successive potevano interessare soltanto dei sapienti buddisti: É probabile che il primitivo autore si sia tenuto entro i limiti della verosimiglianza storica: poi, quando il libro cominciò ad avere un grande successo, altri vi posero le mani e vi fecero numerose aggiunte.
Nella sua forma attuale, l'opera contiene ben 262 domande del Re, seguite dalle risposte e dalle spiegazioni di Nagasena. La chiusa dell'opera ha subito variazioni nelle posteriori elaborazioni: quando tutti i dubbi di re Milinda sono risolti e le discussioni con Nagasena terminate, la terra trema per ben sei volte: lampi solcano il cielo, gli dei mandano sulla terra una pioggia di fiori, dio Brahman stesso manifesta la sua compiacenza e infine un rumore di tuono scuote tutto il creato. Scossi da questi miracoli, i cortigiani e gli abitanti di Sagala si affrettano ad abbandonare la città per tributare omaggio a Nagasena: Milinda stesso è pieno di gioia e sono svaniti per sempre la stia superbia e il suo spirito di contraddizione. Egli riconosce la verità dell'insegnamento del Buddha e pieno di ammirazione e di fiducia per il maestro lo prega, «simile a un cobra che ha perduto i denti del veleno» di perdonargli le colpe e di accoglierlo come novizio nella Comunità. Il re fa erigere un chiostro per Nagasena e il suo seguito e provvede al mantenimento dei monaci: più tardi ceduto il regno al figlio, abbandona i fasti regali e la patria per diventare un Arahat o santo.
Dalle pagine che precedono il lettore europeo potrebbe avere l'impressione che il buddismo sia un insieme di dottrine dogmatiche come le religioni dell'occidente. Ciò che più distingue il Buddismo da ogni altra religione è il suo carattere recisamente antidogmatico: non vi sono dogmi e nemmeno, se ben si guardi, v'è una dottrina in senso scolastico; ogni seguace deve crearsi la dottrina: il maestro può soltanto aiutarlo indicandogli «il sentiero della meditazione». Questo carattere risulta chiarissimo dalle memorabili parole del ventiduesimo discorso: «Come una zattera, o voi monaci, voglio che sia accolto il mio insegnamento, come una zattera; fatta per salvarsi, non fatta per tenerla in serbo e portarsela addietro». Onde chiarire il pensiero, il Maestro racconta la parabola di un uomo che si è costruita una zattera per sfuggire a un pericolo e attraversare una distesa d'acqua; giunto all'altra riva egli dice «Carissima invero mi è questa zattera e ottima per superare difficili passaggi. Or dunque per meglio proseguire nel mio cammino, io me la caricherò sulle spalle e camminerò per prati e per monti senza distaccarmene mai. Che ne penserete o voi monaci di un simile uomo?».
In nessun altro degli antichi Maestri troviamo così profondamente espresso il pensiero tutto moderno dell'esperienza personale: la dottrina è un mezzo e uno scopo, una via e non una meta, essa è uno strumento di redenzione da cui si deve sapersi liberare a tempo opportuno, altrimenti diventa un peso ed un impedimento.
Siate liberi e non vi rendete schiavi di parole morte, guardatevi dal ripetere servilmente delle formule tramandate, e non sia cieca la vostra fede, anzi abbiate il coraggio di abbandonare ogni fede e di guardare coi vostri stessi occhi. Tale è l'ammonimento del Maestro. Si confronti questo insegnamento coi dogmi e gli anatemi di altre chiese e scuole, e si comprenderà una delle ragioni principali del fascino che la personalità del Buddha ha sempre esercitato sugli spiriti più liberi; nelle religioni dogmatiche la Chiesa umilia l'individualità del credente, non appaga il suo bisogno di intima compartecipazione ma risponde seccamente: - Così è, e basta; «State contenti umane genti al quia!». In tal modo la fede diventa qualche cosa di passivo e invece di parlare della virtù della fede, bisognerebbe parlare dalla virtù di non credere, di non credere cioè alla propria ragione e al proprio sentimento.
Il neofita deve saper chiudere gli occhi ed eliminare la sua personalità onde accettare una dottrina che gli viene imposta; qual meraviglia poi se, così mortificata, la spontaneità della fede viene meno, e la religione si riduce a una pratica puramente esteriore? Nel Buddismo invece non viene imposto un dogma, ma indicata una via: il credente non deve accettare nulla passivamente, ma deve cercare da se; lo scopo delle pratiche ascetiche, della «meditazione» e di tutte le regole monastiche è soltanto questo: mettere l'adepto in grado di sviluppare la propria personalità onde acquistare una viva esperienza delle verità religiose; qui veramente la fede è una virtù teologale, una conquista attiva e veggente e non una cieca rinuncia. Soltanto tenendo presente tale carattere antidogmatico della predicazione buddistica, si possono chiarire i punti più oscuri e controversi di questo sistema religioso.
Vi sono due modi di concepire una verità rivelata: il primo, proprio delle religioni dogmatiche, suppone che la rivelazione sia stata acquistata dal Maestro e poi depositata in un testo, in una scrittura sacra; il credente non può vedere coi propri occhi ma deve credere a ciò che Maestro afferma di aver veduto. Secondo il Buddismo invece, la rivelazione deve essere individuale e ogni credente deve diventare a se stesso il suo testo sacro: egli deve giungere con le sue sole forze a quella stessa diretta contemplazione del vero a cui è giunto il Maestro. Così i credenti nelle altre religioni possono anche essere dei profani, ma i seguaci del Buddismo non possono essere che degli iniziati: un popolo di santi e di veggenti. Questo è l'ideale del Buddismo.
Le religioni dogmatiche mettono in mano ai catecumeni un prontuario di domande e di risposte e dicono al neofita: - impara a mente queste formule e credi! Il Buddista invece deve sottoporsi ad una lunga e faticosi disciplina, deve percorrere i vari gradi di iniziazione (dhyanas) e creare in sé stesso dei nuovi poteri e dei nuovi mezzi di conoscenza; egli può veramente dire in interiore
homine habitat veritas.
Certo è più comodo adagiarsi in una verità bella e fatta che non conquistarsela attraverso tutta una vita di sacrifici: e per quella legge del minimo sforzo che ha la sua radice nella pigrizia umana spesso i discepoli del Buddha gli richiedono dei dogmi, ma Egli si rifiuta di darne. Il Maestro non nasconde il suo dispregio per la fredda dottrina e per le curiosità puramente concettuali: quello che solo importa è l'esperienza religiosa e l'azione morale.
La vita è una valle di pianto e di dolore e nessun vivente può sfuggire alle malattie, alla vecchiaia, alla morte: gli uomini si illudono di poter migliorare cambiando di stato, e non si avvedono che il dolore è connaturato all'essenza dei desideri mondani; il bimbo, conscio della sua debolezza, anela a diventar giovanetto, il giovane attende con impazienza di essere uomo maturo ed indipendente, l'uomo persegue or questo or quello scopo e non si appaga mai; questa irrequietezza, questo tormento di spirito non trova pace nemmeno con la morte ma persegue i mortali attraverso innumerevoli vite. Ora il Buddismo si propone di condurre il credente, col mezzo delle pratiche ascetiche, alla conoscenza chiaroveggente del male originario e delle sue cause, alla distruzione della radice di ogni male, alla redenzione compiuta e alla beatitudine eterna. Questo concetto della superiorità dell'azione sulla dottrina è espresso dal Maestro con una parabola che è fra le cose più argute e più profonde che i testi sacri dell'umanità ci abbiano tramandato.
La si può leggere nel discorso sessantatreesimo, dove è riferito il dialogo tenuto alle falde dell'Himalaja, fra Gothamo e il suo discepolo Malunkjaputto (Majjhinia Nikaia U.). Il discepolo si lamenta che Gothamo non abbia risposto ai suoi problemi filosofici e metafisici ma il Maestro lo assicura di non aver mai promesso ciò: chi ritiene che quei problemi siano la cosa più importante ed urgente, deve rivolgersi ad altri e non al Buddha.
«Così come quasi, se un uomo fosse colpito da una freccia avvelenata che gli penetrasse sempre più nella carne e lo straziasse coi più atroci dolori, e la sua vita stessa fosse in pericolo, e i compagni e gli amici gli conducessero un medico esperto dei mali del corpo, e questi avesse promesso di guarirlo. Ma il malato dicesse: non voglio che mi si estragga la freccia avvelenata, non voglio ascoltare il medico, nè prender medicine se prima non so chi è colui che mi ha colpito, se guerriero o sacerdote, o servo; se di alta o di bassa statura, se di pelle nera o bruna o gialla. Non voglio esser curato se prima non so in quale villaggio o borgo o città egli dimori, e se non vengo a sapere come era fatto il suo arco, se era corto o lungo, e se la corda dell'arco era una fibra vegetale o un tendine animale. Anche prima voglio sapere se la punta della freccia è diritta o non piuttosto, a forma di dente di vitello o di foglia di oleandro». «Non vi pare o fratelli, - così conclude il Maestro - che costui non riuscirebbe a soddisfare le sue insaziabili curiosità, ma prima assai perderebbe la salute e la vita?»
Risulta da queste parole un vivo senso del carattere super razionale e mistico della mentalità orientale. Di questa mentalità i nostri studiosi sono disposti a vederne piuttosto i pericoli che non i vantaggi. Ora è ben vero che l'anti-intellettualismo orientale può talvolta rappresentare un pericolo per la scienza e per la civiltà; ma per poter davvero criticare e superare quell'atteggiamento è necessario comprendere ciò che v'è in esso di vero e di profondo. È cioè: che certe verità si devono conoscere per diretta intuizione, e non si possono comunicare a chi non le abbia sperimentate; solo ma che vi sono anche dei valori pratici e morali che hanno per la vita religiosa ben maggiore importanza delle più brillatiti qualità d'intelligenza. Un uomo umile e ignorante può aver maggiore elevatezza di sentimenti, maggior rettitudine e forza di sacrificio che non un frigido sapiente. In questo senso Pascal, che fu insieme un grande matematico e un profondo dispregiatore del frigido razionalismo ha scritto:
Le coeur a ses raisons que la raison ne connait pas.
1. Maya guna mayi: dice un vecchio proverbio sanscrito; ossia la materia non è che l'illusione prodotta dalle apparenze delle cose.
2. Non è facile comprendere il concetto trascendentale del tempo e dello spazio, espresso qui dal monaco Nagasena. Se lo spazio non esiste, che cosa diventa l'universo? Come si può concepire un mondo di oggetti senza spazio? E che cosa può essere uno spirito senza il divenire temporale? Per avvicinarci al pensiero buddista bisogna ricordare anzitutto che il monaco non nega che ogni nostra rappresentazione sia sempre spaziale, ma nega che gli oggetti materiali e spaziali esistano nel mondo dell'Assoluto. Cercheremo di spiegarci con un esempio che si trova comunemente negli scrittori buddisti: nel sogno noi possiamo vedere un paesaggio, e in quanto lo vediamo e riteniamo di muoverci in esso, noi dobbiamo rappresentarcelo spazialmente al risveglio; però ci accorgiamo che quello spazio non esisteva fuori di noi, ma era una illusione della nostra rappresentazione. Così, secondo il Buddismo, il perfetto Svegliato che ha raggiunta la Beatitudine del Nirvana, si accorge che tutto l'universo spaziale non era altro che una proiezione dello Spirito. Anche meno facile è per noi comprendere la dissoluzione idealistica del tempo ma dobbiamo tener presente che il Buddismo parla non di ciò che riguarda gli nomini imperfetti durante il corso della loro peregrinazione terrena, ma di coloro che hanno raggiunta la Perfezione, la Beatitudine, e l'Onniscienza. Ora quando l'uomo è limitato dal corpo e dai sensi imperfetti, il tempo gli appare come una successione di stati d'animo diversi uno dall'altro; ma se ci figuriamo un essere onnisciente che conosca ogni cosa con la stessa evidenza, che abbia dunque con un solo atto contemplazione contemporanea di tutti gli stati d'animo che noi non possiamo conoscere che successivamente, dovremo riconoscere che per lui non esiste nè passato né futuro, ma solo l'Eterno Presente.
3. Secondo il Buddismo l'ignoranza è l'opposto dell'iniziazione. É in seguito a tale "ignoranza" che lo spirito universale si irretisce in un'esistenza particolare.
Lo studio che precede fu rinvenuto, in forma di fotocopia, fra i documenti della Montesion, senza data ne autore. L'ignoto F:.
ci introduce alla comprensione di uno dei maggiori testi di insegnamento buddista.
L'elaborato costituisce un opera della maestria dell'anonimo Fratello. Il suo contenuto non riflette necessariamente la posizione della Loggia o del GOI. Ogni diritto è riconosciuto.
|