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Miracolo c'informa il Dizionario Enciclopedico è «qualsiasi fatto che suscita meraviglia, sorpresa, stupore, in quanto superi i limiti delle normali prevedibilità dell'accadere, o vada oltre le possibilità dell'azione umana». Il documento che presentiamo ai nostri visitatori esoterici, è un lavoro del carissimo Fratello della Montesion Emilio Servadio e scritto nel novembre del 1979. Lo scritto ritrae un opera della maestria dell'Autore e non indica necessariamente la visione della Loggia o del GOI. Ogni diritto è dichiarato.
© Emilio Servadio
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Miracolo c'informa il Dizionario Enciclopedico è «qualsiasi fatto che suscita meraviglia, sorpresa, stupore, in quanto superi i limiti delle normali prevedibilità dell'accadere, o vada oltre le possibilità dell'azione umana». La definizione è sin troppo ovviamente contestabile. Meraviglia, sorpresa e stupore possono essere suscitate da un ingegnoso trucco illusionistico, tale da non consentire agli spettatori di prevedere l'esito di certe premesse (come quando, ad esempio, sulla mano aperta e nuda dell'illusionista appaiono piccola oggetti che nessuno aveva immaginato e in modi del tutto incomprensibili). Quanto alle «possibilità dell'azione umana», è chiaro che i suoi limiti non potrebbero essere definiti a priori. In altri tempi, volare con mezzi più pesanti dell'aria sarebbe stato considerato impresa «oltre le possibilità dell'azione umana» , così come oggi può apparirci, ad esempio, la respirazione normale dell'uomo sott'acqua. Ma ciò che non si può riconoscere in base a un principio aprioristico non è suscettibile di definizione.
Non v'è dubbio tuttavia che a posteriori, un accadimento possa essere tale, da apparirci «arduum aut insolitum supra spem vel facultatem mirantis» (S. Agostino, De utilitate credenti, 16, 34); o «quod habet causam simpliciter et omnibus occultam» (S. Tommaso, Summa Theol., I, q. 105, a. 7). L'Aquinate enumera addirittura 3 gradi del miracolo: 1°) «i fatti che la natura non potrebbe mai operare; i fatti che cessano di essere naturali perché avvengono in soggetti inetti ad effettuarli; i fatti che sorpassano la proprietà della natura per il modo in cui avvengono».
Ho citato S. Agostino e S. Tommaso per una ragione ovvia. In Occidente, la Chiesa Cattolica si considera praticamente la depositaria e la monopolizzatrice del miracolo, l'unica che possa esserne, al tempo stesso, teatro e valutazione, sfondo legittimo ed entità giudicante. Lo sottolinea anche il Dizionario Enciclopedico allorché aggiunge, alla definizione già riportata, quanto segue: Per la teologia cattolica, il miracolo è «fatto sensibile, operato - fuori dell'ordine della natura creata da Dio, che agisce in maniera trascendente».
Questa volta il Dizionario è stato preciso. Il miracolo, per la Chiesa, presuppone un Dio personale creatore e una natura creata, alla quale egli stesso, Dio, ha conferito un certo ordine. In quell'ordine, tuttavia, egli può di quando in quando intervenire, o lasciare che altri enti o forze intervengano. Né egli altera con ciò le leggi naturali scrivono Tommaso e Agostino: poiché «è naturale ad una creatura l'obbedire al suo Creatore, l'adattarsi, come la cera liquefatta, alle Sue operazioni». Le leggi naturali «sono pieghevoli in mano di Colui che le ha fatte». La premessa è, dunque, dualistica e, beninteso, dogmatica restando inteso che per la Chiesa cattolica, il miracolo proviene da Dio e da Lui soltanto, per scopi a Lui solo interamente noti, e per Sua volontà o consenso insindacabili. Le difficoltà cominciano, per i teologi cattolici, allorché: 1°) debbono riconoscere e dimostrare, negli accadimenti miracolosi, l'intervento di Dio e l'origine soprannaturale della Chiesa (come ha indicato il Concilio Vaticano); 2°) debbono porre criteri discriminativi tra «il meraviglioso divino e il meraviglioso diabolico» - per riprendere il titolo di un libro di Don Bernardo M. Maréchaux, uscito in traduzione italiana nel 1907.
Negli scritti dei teologi più ragguardevoli - a cominciare da S. Tommaso - appare qua e là evidente una sofistica, sebbene involontaria, «circolarità» di ragionamento. «Illa quae a Deo fiunt praeter causas nobis notas miracula dicuntur» - scrive l'Aquinate. Ossia: si chiamano miracoli quelli che provengono da Dio. Ma secondo il Maréchaux, «... la religione la quale s'inghirlanda di fatti miracolosi, si fa conoscere come vera, come derivante da Dio». Ossia i miracoli provengono da Dio e a loro volta, come tali, dimostrano Dio e la verità della religione cattolica! In altre parole: «la dottrina si appoggia sui fatti, e i fatti sulla dottrina» - come pensava uno dei protagonisti del romanzo Bouvard et Pécuchet, lasciato incompiuto da Gustave Flaubert. Sarebbe lungo e complicato seguire e commentare tutti gli scritti nei quali i teologi e gli autori cattolici hanno cercato di distinguere fra «meraviglioso divino» e «meraviglioso diabolico» o anche, semplicemente, fra miracolo ed evento strano, fra miracolo e patologia, fra miracolo e fenomeno metapsichico (o, come oggi si preferisce dire, parapsicologico). Essi vanno dal Görres (La mystique divine, naturelle et diabolique, 1854) allo Spesz (Occultismo e miracolo, trad. it. 1933); dal già citato Maréchaux allo psichiatra Lhermitte (Mystiques et faux mystiques, 1952) o al cattedratico di religioni a Oxford, prof. Zaehner (Mysticism, Sacred and Profane, 1957). Ma invece di citare innumerevoli dissertazioni più o meno brillanti a opera di costoro, rifacciamoci senz'altro a un Pontefice, Benedetto XIV, il quale ha indicato nel modo seguente i cinque «segni», dai quali si potrebbe discernere un miracolo divino da un «prestigio» diabolico : 1) Efficacia. - I miracoli divini hanno una realtà che non permette di confonderli con un prestigio satanico. 2) Durata. - Producono effetti duraturi, mentre un prestigio tosto svanisce. 3) Utilità. - Hanno per fine la beneficenza, la guarigione per esempio di un malato; niente in essi vi è di teatrale e d'indecente, come nelle opere del demonio. 4) Modo di produzione. - Essi consistono nell'invocazione di Dio, nella preghiera. Nessuna evocazione, nessuna ridicola smorfia. 5) Oggetto per cui sono adoperati, che è la gloria di Dio e il trionfo della verità.
Non si può non riconoscere la straordinaria debolezza delle anzidette indicazioni. 1) La «realtà» di certi fenomeni accaduti fuori dell'ambito del Cristianesimo o del Cattolicesimo, e che sfidano le leggi naturali a noi note, è stata provata con altrettanta evidenza quanto i miracoli più riconosciuti e più spesso riportati negli scritti di autori cattolici. 2) Non pochi di tali fenomeni - per esempio, certe guarigioni improvvise e in extremis, dovute a taumaturgi o maghi - hanno avuto carattere duraturo. 3) Tali guarigioni rispondono anche al «segno» secondo Papa Benedetto XIV: l'utilità. 4) La preghiera, o l'appello a istanze spirituali superiori, precede spesso gli accadimenti in questione 5) E infine, quanto alla «gloria di Dio e al trionfo della verità», si tratta - al solito - di una petizione di principio, ossia della implicita postulazione secondo cui «non esistono miracoli al di fuori della Chiesa» come diceva il curato di Bouvard et Pécuchet: al di fuori del «suo» Dio, della «sua» verità!
Che cosa possiamo fare, a questo punto? Evidentemente quanto segue:
1) ridefinire il miracolo; 2) collocarlo in un ambito fenomenologico; 3) considerare questo ambito dal punto di vista iniziatico; 4) vedere se esista una dottrina tradizionale che ci permetta d'interpretarlo in forme e modi meno inaccettabili di quelli indicati dalla Chiesa, o senz'altro plausibili.
Per quel che riguarda il primo punto - la ridefinizione del miracolo mantengo l'imprescindibile necessità dell'a posteriori, e l'impossibilità di stabilire aprioristicamente veri criteri discriminativi. Se apprendo come cosa comprovata che San Giuseppe da Copertino, o uno sciamàno presso i Tungusi, si è sollevato alcuni metri dal suolo, potrò considerare il fatto come inspiegabile, e quindi miracoloso. Ma se questi fatti si moltiplicassero? Cesserebbero di essere miracolosi a causa della loro frequenza? E se l'essere inspiegabile fosse tutt'uno con la loro e miracolosità», non si affiancherebbero essi ad altri fatti altrettanto inspiegabili, ancorché frequentissimi, come la spirale logaritmica di una tela di ragno, la «coscienza speculare» dell'uomo, o la virtù formativa racchiusa nei cromosomi? Miracolo è dunque ciò che a posteriori ci colpisce - perché inabituale, perché diverso da quelle che consideriamo «leggi» naturali, perché fa pensare all'intervento di un quid che ci supera e che ci trascende: ma a guardar bene, riappare dal nuovo tentativo di definizione in modo ineliminabile la relativa vita della definizione stessa, e il suo superamento a favore della considerazione del «miracoloso» come di qualche cosa che va da un minimo a un massimo, e che globalmente investe, al limite, tutta quanta la esperienza fenomenica, senza possibilità di «gerarchie» se non appunto fenomenologiche e tutt'affatto provvisorie.
«Miracolosa» è dunque una particolare classe, o specie, di fenomeni ai quali attribuiamo, a posteriori, certi «sorprendenti aspetti, o qualità, in quanto ci sembrano (ma qui si ripropone la critica al Dizionario Enciclopedico) superare i limiti delle normali possibilità dell'accadere, o andare oltre le possibilità dell'azione umana». Rientriamo dunque, e comunque, nel campo dei fenomeni: quei fenomeni di cui René Guénon ha dichiarato che essi, e quali che siano, non possono provare assolutamente nulla per se stessi.(Considerazioni sulla via iniziatica). Che cosa possiamo dire, allora, del «fenomeno», e dell'aspetto «miracoloso» di un dato dal punto di vista iniziatico? Tre anni fa scrissi in proposito qualche cosa sulla Rivista Massonica («L'Io, il corpo e il fenomeno», N. 7, luglio 1971): «Quella che noi abitualmente chiamiamo realtà esterna non è» - scrivevo - «meno esterna all'Io comune di quanto non lo sia nel suo assieme il corpo opaco e plumbeo del non iniziato. Tanto questo corpo, quanto il mondo materiale» [ossia, vorrei meglio precisare oggi, il mondo fenomenico ] «sono ...appartenenti entrambi a quella obiettività puramente illusoria che negli scritti tradizionali Indù è chiamata, come si sa, con l'appellativo di Maya. Ma se è possibile all'Io risorto e liberato trasformare poco a poco la ‘Maya' inerente al corpo sino al punto di farne, da velario che preclude ed abbaglia, una vera e propria 'veste di gloria', non si vede perché non si dovrebbe estendere tale concezione ai rapporti in genere tra Io e materia, tra lo e realtà fenomenica, tra Io e cosmo. L'autonomizzazione e l'incentramento iniziatici dell'Io dovrebbero portare alla strumentalizzazione ad libitum non soltanto del corpo, ma anche della cosiddetta materia inerte e, da ultimo, capovolgere radicalmente la relazione tra Io e non-Io, tra Principio e fenomeno. Di tali ulteriori, estreme possibilità ci fanno testimonianza sia certe manifestazioni tradizionalmente attribuite a mistici, santi, maghi, ecc., sia, più recentemente, talune constatazioni... dell'odierna parapsicologia».
Torneremo fra breve sui presupposti dottrinali delle anzidette speculazioni, riferendoci alle già menzionate tradizioni indiane. Ma sin da ora si può osservare che in base a tali punti di vista, «fenomeni» quali per esempio la levitazione, il camminare sulle acque, o il modificare un accadimento abituale e «naturale» (per non dire di certi controlli sui processi o sugli esseri del mondo animale e vegetale) «non appaiono assolutamente più quali 'meraviglie ' o 'miracoli', bensì come conseguenze perfettamente logiche del fatto che l'Io di colui che suscita simili 'meraviglie' si trova e opera, rispetto a quella che per gli ` altri ' è la realtà empirica di tutti i giorni, su un piano del tutto diverso di rapporti e di suggestioni. Non diversamente potrebbe apparire 'meraviglioso' o ‘miracoloso' l'operare di chi, essere tridimensionale, si comportasse ed agisse in un mondo esclusivamente popolato da esseri a due dimensioni. È chiaro che il semplice trasporto, ad esempio, per via tridimensionale, di un oggetto da fuori a dentro, o da dentro a fuori, un mondo a due dimensioni costituirebbe per gli esseri bidimensionali un incomprensibile e quasi incredibile miracolo». Dobbiamo adesso indicare più precisamente a quale sistema tradizionale di dottrine conviene riferirsi per collocare il «miracolo» nella dimensione che abbiamo cercato di istituire, cioè come un accadimento che appare «strano», «inabituale», o «prodigioso» se visto sotto una certa angolazione e a un certo livello, mentre non presenta alcuno degli anzidetti aspetti o connotazioni se considerato a livelli e da punti di vista differenti.
È stato menzionato più sopra il termine sanscrito Maya - che deriva da una radice ma, la quale a sua volta significa «misurare, formare, costruire». Deriva da maya il termine magia, inteso come «produzione di un'illusione con mezzi soprannaturali», e poi, semplicemente «produzione di un'illusione». Il concetto di «illusione sovraimposta alla realtà per effetto d'ignoranza» è coessenziale al monismo del Vedanta indù così come è stato soprattutto teorizzato da Shankara, vissuto a cavallo dell'VIII e del IX secolo E.V. Maya indica il carattere non sostanziale, puramente fenomenico, del mondo osservato - la Natura - Prakriti che, in quanto Maya, vela lo Spirito-Purusha. Il concetto in questione, che permea il Vedanta monistico, o Advaita Vedanta di Shankara, e che lo contrappone al Vedanta dualistico del sistema Samkhya, è fra l'altro completamente svolto in un poema, il Gran Gioiello della Discriminazione («Vivekachudamani»), nel quale sono dimostrate sin nei minimi porticolari, attraverso un sistematico «smantellamento» degli attributi, le componenti e le sovrapposizioni per cui Maya «nasconde» l'Assoluto, il Brahman-Atman, il Purusha dei testi vedici e del Samkhya.
L'apparente contraddizione fra il concetto di una realtà come illusione e la concretezza dell'esperienza empirica è stata dibattuta a lungo nel pensiero orientale e da parte dei suoi esegeti occidentali. Lo Swami Siddheswarananda, ad esempio, nella opera Quelques aspects de la philosophie védantique (1945), scrive: «Il Vedanta ammette che il mondo possegga un valore empirico; non accetta affatto la teoria dell'idealismo soggettivo; per esso, il mondo obiettivo esiste, ma il Vedanta non ignora neppure che nell'esperienza yogica si raggiunge uno stato di coscienza in cui soggetto e oggetto simultaneamente svaniscono... Si tratta dunque, dal punto di vista del soggetto empirico di stati di coscienza»; nella considerazione totalitaria del Reale, di «stati multipli dell'Essere», per adoperare un'espressione guénoniana. Scrive un indologo nostrano, il Morretta (Il pensiero vedanta, 1968): «Il pensiero occidentale ha avuto quasi sempre come punto di partenza delle sue indagini un concetto classico della realtà, e il problema consisteva nel trovare il modo più appropriato per afferrare questa realtà. Nel Vedanta, sin dall'inizio si prospetta un concetto del reale fluido e graduale, come se ci fossero più ' realtà, e ognuna di esse dipendesse dalle modalità del pensiero conoscitivo... La nozione di conoscenza - Jnana - sottintende una azione dello spirito concreto, non una funzione semplicemente intellettuale...».
«Come se ci fossero più realtà» - scrive il nostro acuto esegeta. Ma così è, ma è proprio questa, la multiplicité des états de l'être secondo l'espressione di Guénon! E in questo poliedrico, infinito sistema di coordinate s'inserisce, all'intersezione di questo o quello «stato dell'essere» specularmente realizzato in questo o quello «stato di coscienza» del soggetto sulla via iniziatica - il «miracolo», immagine «formata correttamente sul suo piano, fonte di meraviglia estrema se non di terrore su di un altro. «Si diventa ciò che si pensa, questo è l'eterno mistero» - leggiamo sulla Maitry Upanishad (VI, 34). E il «miracolo», a guardar bene, si definisce e si spiega nell'atto stesso in cui si dissolve il concetto che ne ha il pensiero occidentale, e particolarmente il pensiero cattolico. Si dissolve, come si dissolve tutto ciò che è apparenza e giuoco sorprendente di apparenze sotto il piede danzante di Shiva il dio; e risorge nel «miracolo» del fiore e delle stelle, del bambino che nasce e del sole che tramonta, nel miracolo per cui io, piccolo essere tra miriadi di esistenze e di mondi, ho potuto scrivere di cose contenute, malgrado tutto, in questo umile «corpo di otto palmi», che può internalizzare in sé, e affrontare, tutto quanto l'universo. Il vero miracolo è il transito possibile da ciò che sembra a ciò che è, dal contingente all'ente. E rimane pertanto gioioso e solenne l'appello al vero, al supremo «miracolo», della Brihad Aranyaka Upanishad (IV, 27): «Dall'apparenza portami al Reale, Dalle tenebre portami alla luce, Dalla morte guidami all'immortalità».
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