Chi non avesse una
adeguata preparazione scientifica sull’argomento delle credenze,
delle tradizioni mistiche e delle pratiche magiche di
popolazioni rozze e selvagge potrebbe dubitare che queste
possano servire a dare un qualche lume nella lunga via da
percorrere alla ricerca di Dio; ma la verità divina si ritrova
spesso dove meno la si aspetta e talora i più umili sono i più
veggenti, mentre coloro che nell’orgoglio della loro coltura
mondana si ritengono illuminati, si rivelano invece di corta
vista.
Vi sono delle antichissime tradizioni segrete che appartengono a
civiltà tramontate da diecine e centinaia di millenni, a civiltà
che fiorirono forse in continenti ora scomparsi, e di cui non
restano che rari frammenti, dispersi fra i più oscuri popoli
della terra; noi fermamente crediamo a questi residui di
civiltà.
I popoli barbari e selvaggi hanno una immaginazione robusta e
torbida e che nasconde spesso, sotto il viluppo di strane
superstizioni, una rivelazione originaria. Occorre una fede
tenace e paziente per distinguere il nocciolo vero ed eterno
dalle fantasie false e caduche. Cercheremo quindi di comprendere
quale sia il principio fondamentale nelle concezioni religiose
delle popolazioni primitive; se potremo scoprirlo, o almeno
delinearne qualche elemento, questo principio ci mostrerà come
nelle concezioni apparentemente diverse di popoli assai lontani
l’uno dall’altro, si possa rintracciare una identica idea.
* * *
Nel passato i missionari cristiani erano proclivi ad ammettere
che il principio fondamentale di tutte le religioni primitive
fosse una vaga credenza negli spiriti e molti autori parlano
ancor oggi di un «animismo primitivo».
Però già il Tylor osservò che dalle relazioni più accurate di
esploratori e missionari, risulta invece che la credenza più
diffusa non é precisamente quella negli spiriti concepiti alla
maniera occidentale, poiché manca spesso a quelle popolazioni il
concetto della personalità, ma esiste invece una credenza comune
in un «potere misterioso» che é ovunque considerato come la
sorgente d’ogni magia e viene chiamato in modo diverso secondo i
diversi paesi.
Questa essenza comune, nella Polinesia ha il nome di mana,
termine che fu poi esteso dagli etnografi ai concetti analoghi
di altre popolazioni.
«Mana» significa fluido, energia, volontà, e poiché tutto ciò
che avviene deve riferirsi in ultima analisi a un qualche
potere, il «mana» é considerato come la ragione ultima di ogni
accadere.
Forse i filosofi presocratici che affermarono esserci una forza
primigenia, un Eros che fa muovere tutte le cose, intendevano
alludere a un’essenza di questo genere. E forse quando, a un
livello mentale ben più alto, Aristotele riprende lo stesso
concetto e afferma che tutte le cose sono mosse da una comune
aspirazione che le fa tendere verso il Primo Motore, egli non fa
altro che sviluppare l’idea fondamentale che è implicita in
tutte le credenze umane fin dalle più antiche età : «Amor che
muove il sole e l’altre stelle».
Max Mueller scrive in proposito :
Il «mana» dei Polinesi ci dimostra come in forma vaga e confusa,
l’idea dell’infinito, dell’invisibile o, come noi lo chiameremo,
del Divino, si presenta presso le razze più umili.
Mh. Codrington, missionario e teologo, scriveva nel 1887
dall’isola di Norfolk: «La religione dei Melanesi consiste nella
credenza che v’è nel mondo un potere soprannaturale che
appartiene a una sfera invisibile: il loro culto non è altro che
l’esercizio di pratiche che hanno lo scopo di far agire quel
potere a loro vantaggio». (Cfr. M. Mueller: Origini e sviluppi
della religione - II, par. 2).
Altrove lo stesso Codrington definisce meglio il medesimo
concetto: «I Malesi credono alla esistenza d’una forza
assolutamente diversa dalle forze puramente materiali, la quale
agisce in modo assai diverso, producendo effetti buoni o
cattivi. É interesse sommo dell’uomo imparare a dominare tale
forza e sapersene servire. Essi la chiamano ‘mana’. Io credo di
comprendere il senso che gl’indigeni attribuiscono a questa
parola: si tratta di una influenza immateriale e in certo senso
sopranaturale. Da essa deriva ogni specie di potere e di
superiorità che un uomo può esercitare sugli altri uomini e
sulle cose». (Codrington : The Melanesians p. 118, segg.).
Se ora passiamo dalla Malesia alle popolazioni indigene
dell’America, che sono tanto diverse per razza e che abitano in
regioni così lontane, troviamo che gli Irokesi e gli Uroni
chiamano col nome di Orenda lo stesso potere magico.
I. N. B. Hewitt, che ha lungamente studiato le religioni degli
indigeni d’America, così ne parla: «L’Orenda é una potenza
misteriosa che i selvaggi concepiscono come inerente a tutti i
corpi, che pervade l’ambiente dove egli vive, che emana dalle
rocce, dai corsi d’acqua, dalle piante, dagli animali, dagli
uomini, dai venti e dalle tempeste. Questa forza é riguardata
dai primitivi come la causa efficiente di tutti i fenomeni e di
tutte le attività che si manifestano intorno a lui». (Orenda and
a definition of religion in American Antropologist 1902 - VI).
Il P. Saintyves scrive in proposito:
«Tutti i primitivi hanno spiegato o tentato di spiegare gli
avvenimenti cosmici per mezzo di un concetto dinamico che si può
chiamare forza magica. É una forza difficile a definirsi,
invisibile e impalpabile, che si può paragonare a una fiamma
oscura, o a un soffio inafferrabile: essa partecipa della natura
intelligente e, senza essere uno spirito, partecipa della natura
spirituale. Si potrebbe definirla una specie di fluido privo di
intelligenza personale, ma suscettibile di ricevere le
impressioni di tutte le idee e di tutti gli spiriti. Essa si
chiama il ‘mana’ e lo stregone e il mago ne sono particolarmente
dotati; da essa traggono i loro poteri. I nomi di tutto ciò che
riguarda la magia sono quasi sempre composti etimologicamente
con questa parola: peimana, gismana, manehisu, e così via. La si
è paragonata all’etere; ma più esattamente si potrebbe paragonar
a una specie di spirito impersonale e senza pensiero proprio,
nel quale tutti i pensieri e le intenzioni degli uomini
confluirebbero come a loro meta». (Cfr. «La force magique; du
mana des primitivs au dynamisme seientifique» pp. 20-22).
Se questo concetto fosse proprio soltanto di qualche popolazione
della Polinesia, esso meriterebbe la nostra attenzione, però non
potrebbe indicarci la soluzione di un problema più universale;
ma il fatto importante è che noi troviamo lo stesso concetto
presso tutti i popoli primitivi, fra i più lontani e diversi,
espresso sempre con le stesse parole e con le stesse immagini
anche quando si tratta di popolazioni che non hanno mai avuto
alcuna relazione fra loro. In Africa questa forza si chiama
Hasina e presso i Malgachi Masina; Dzo presso gli Ewe della
Costa d’Oro, Tilo presso i Ba-Ronga; in America Wakan presso i
Sioux, Orenda presso gli Irokesi. In Oceania: Mana e Kramal
presso i Malesi, Churinga e Arungquiltha in Australia. In Asia
troviamo un concetto del tutto analogo nel Brahman dei più
antichi testi del Rig-Veda.
Possiamo dunque affermare ben fondatamente che il concetto del
Mana è quello che rappresenta l’intuizione religiosa più antica
e più diffusa del mondo.
* * *
Il Prof. Goblet d’Alviella, ritiene che l’idea del Mana possa
identificarsi col concetto schopenhaueriano della volontà. Com’é
noto, secondo il filosofo tedesco, il volere è un impulso cieco,
oscuro e assolutamente inconoscibile in sé, che si manifesta nel
mondo spaziale e fenomenico; tale impulso costituisce l’intima
essenza non soltanto dell’uomo e di ogni essere spirituale, ma
di tutto l’Universo. Ciò che é attrazione e gravitazione e
chimismo nella materia, forza vegetativa nella pianta, istinto
animale e volontà nell’uomo, ha una radice identica. Lo
Schopenhauer riteneva che questo stesso concetto costituisse
l’idea fondamentale del Bramanesimo e del Buddismo. E il D’Alviella
non ha torto mostrando l’analogia di esso col «mana» dei
primitivi. (Cfr. Goblet D’Alviella in Rehabilitation
scientifique de la Magie - Paris 1903).
Marcel Habert, collega del D’Alivella all’Università di
Bruxelles, ammette che il «mana» costituisca il principio
fondamentale dell’universo fenomenico, ma osserva: «questa idea
di un’energia spirituale e tuttavia impersonale ha anche qualche
cosa che turba la nostra mentalità. Resta però un fatto che i
primitivi la ammettono e ne vivono».
Ciò che rende perplesso il prof. Habert, é il fatto che il
«mana» é insieme spirituale e impersonale. Ma se consideriamo
che questa concezione appartiene a tutti i popoli della terra,
dovremo giungere alla conclusione che essa non può contenere
quella contraddizione che l’Hubert crede di vedervi. Le stesse
caratteristiche si trovano nel brahman e akasha degli Indù, nel
fuoco vivente di Zoroastro, nel fuoco generatore di Eraclito,
nel ruh degli antichi Ebrei, nel telesma di Ermete Trismegisto,
nel l’ignis suptilissimus di lppocrate, nel pleuma di Galena,
nell’anima del mondo di Plotino e di Giordano Bruno, nella luce
astrale dei cabalisti, nell’azoth, degli alchimisti, nel magnale
di Paracelso, nell’alcahest di Vanhelmont, nella sostanza
spinoziana, nel magnetismo animale di Mesmer, nell’incosciente
di Hartman, nell’entelechia di Driesch, nel mediatore plastico
di Elifas Levy, nel meta-etere del Myers. ecc. ecc.
Dello stesso principio parla Virgilio, che ne ha attinto la
concezione dai filosofi pitagorici, nei noti versi:
Spiritus intus alit, totamque infusa per artus
Mens agitat molem, et magno se corpore miscet.
(Lo spirito alita nell’interno dell’Universo, penetra in tutte
le sue parti e si mescola nel suo corpo immenso (Eneide 1. VI).
Giustamente il Van Gennep, direttore della Rivista di Studi
Etnografici scriveva : «Il principio fondamentale del umana che
costituisce la base di ogni magia e di ogni religione, non
differisce nella sua essenza dal nostro principio scientifico
dell’energia».
Secondo noi, l’apparente contraddizione del «mana» che viene
affermato come spirituale e insieme impersonale, si può
risolvere ammettendo che esso costituisca ciò che vi è di comune
tanto alle manifestazioni apparentemente materiali quanto, a
quelle apparentemente spirituali. Già lo Spinoza aveva notato
che il pensiero e l’estensione non sono due sostanze o due
entità diverse, ma due aspetti della stessa entità. Questo
sembra a noi il significato più profondo di questo concetto che
esprime la concezione originaria dell’umanità primitiva.
Se ci figuriamo un’epoca nella quale i cosiddetti fenomeni
supernormali avvenivano quotidianamente e in cui non si faceva
distinzione fra fenomeno naturale e soprannaturale, ci sarà
facile comprendere come il «mana» abbia potuto significare nello
stesso tempo il principio della magia e il fondamento di ogni
realtà. Vi fu dunque probabilmente una civiltà anteriore alla
nostra a cui spetta di buon diritto il nome di «civiltà magica»
e tutto ci fa credere che i popoli primitivi, tanto quelli che
ancor oggi si trovano nell’Africa e nell’Asia, quanto quelli
ormai estinti, di cui la storia e la tradizione ci descrivono i
costumi, conservano e conservavano il ricordo inconscio di
quell’antica civiltà.
Ciò che é l’atomo per il materialista, ciò che è la monade
spirituale per lo spiritualista, era il «mana» e il «brahma»
nella concezione magica dei primi abitatori del mondo.
Secondo una dottrina esoterica che si riscontra in molte antiche
scritture, l’evoluzione cosmica ha un movimento ciclico per cui
il passato si ricongiunge misticamente al futuro. Questo era il
significato del mito antico dell’«eterno ritorno» che non si
deve interpretare materialisticamente come una semplice
riproduzione identica di fatti in epoche diverse, bensì come un
movimento evolutivo a spirale che ritorna nella stessa direzione
ma ad un livello ben diverso. Secondo la tradizione esoterica a
cui abbiamo accennato, la civiltà non era dunque soltanto il
primo stadio degli Atlantidi o dell’Uomo originario, ma dovrà
pur essere la meta finale verso cui tende l’umanità.
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