Oggi, nella liturgia cristiana
occidentale, l'Epifania celebra la manifestazione di Dio agli uomini
nel suo Figlio, del Cristo ai Magi.
Ma inizialmente questa festa, nata in Oriente intorno al 120-140 fra
gli gnostici basilidiani, celebrava il battesimo di Gesù. «Quelli
della setta di Basilide» scrive Clemente Alessandrino «festeggiano
anche il giorno del suo battesimo trascorrendo tutta la notte
precedente in letture. E dicono che fu il 15o giorno del mese di
Tubi del 15o anno di Tiberio Cesare (per alcuni l'11° giorno dello
stesso mese).»
La celebrazione del battesimo aveva un significato particolare per
coloro che, come gli gnostici basilidiani, credevano che
l'incarnazione del Cristo fosse avvenuta non alla nascita ma al
battesimo. Il 15o giorno di Tubi - ovvero il 6 gennaio - era la data
paleoegizia del solstizio invernale nella quale tradizionalmente si
festeggiava il nuovo sole. Fu dunque naturale celebrare
l'«incarnazione» del Cristo in quella data simbolica; analogamente i
cristiani di Roma fissarono più tardi il Natale nel giorno in cui si
celebrava la nascita del Sol Invictus.
Poi la festa venne adottata dalle Chiese orientali purificata dagli
elementi gnostici: sicché si trasformò nella quadruplice
celebrazione della nascita del Cristo, dell'adorazione dei Magi, del
suo battesimo e del primo miracolo a Cana.
E anche il nome mutò significato:
inizialmente era Epipháneia, ovvero in greco «apparizione» e in
senso traslato «manifestazione sensibile di una divinità». Il
battesimo del Cristo, secondo gli gnostici basilidiani, era dunque
una Epipháneia.
Le Chiese cristiane orientali la
modificarono in tà Epipháneia ierá con la variante tà Epiphánia ierá,
ovvero «le feste della manifestazione», dove Epipháneia o Epiphánia
era aggettivo neutro plurale; e infine semplicemente tà Epiphánia,
le Epifanie, per indicare le varie «manifestazioni» del Cristo: la
nascita, il battesimo e il primo miracolo di Cana.
Gli orientali la chiamavano e la chiamano anche eortè ton phôton,
ovvero «festa delle luci», come riferisce san Gregorio Nazanzieno:
espressione in cui si avverte l'eco dell'antica tradizione mazdeica
della Luce.
La festa delle Epifanie si diffuse
intorno al secolo IV in Occidente, e all'inizio del V fu adottata a
Roma dove si modificò perché nello stesso periodo la Chiesa romana
aveva cominciato a celebrare il Natale del Cristo il 25 dicembre:
divenne prevalentemente la celebrazione della venuta dei Magi e fu
tradotta in Epiphânia, «manifestazione» - al singolare -, oppure in
Manifestatio (Fulgenzio) o in Festivitas declarationis (san Leone
Magno); ma vi si univa inizialmente anche il ricordo del battesimo
di Gesù e del suo primo miracolo a Cana.
Nel secolo V era ormai popolare a Roma, come dimostrano vari
Sermones di papa Leone Magno letti in occasione della festa. «Una
stella più fulgente delle altre» diceva il papa «attira l'attenzione
dei Magi, abitanti dell'Estremo Oriente. Essi erano uomini non
ignari nell'arte di osservare le stelle e la loro luminosità, per
questo compresero l'importanza del segno. Certamente operava nei
loro cuori la divina ispirazione...»
I Magi, soggiunge in un altro
sermone, erano stati istruiti anche dall'oracolo di Balaam: «Un
astro spunterà da Giacobbe, uno scettro sorgerà da Israele». Come si
ricorderà, Balaam è descritto nell'Antico Testamento come mago e
indovino; ebbene, molti esegeti cristiani affermavano che
l'istituzione dei Magi risaliva a Balaam, che identificavano, con
Zoroastro.
Papa Leone Magno sembra accettare
questa interpretazione: ancora una volta si rivela la fitta trama di
connessioni fra la religiosità iranica e il cristianesimo.
Infine san Leone Magno offre dell'Epifania il suo profondo
significato: «...è il segno sacro di quella grazia e l'inizio di
quella vocazione per cui non solo nella Giudea ma in tutto il mondo
si sarebbe predicato il Vangelo», soggiungendo: «Ciò che era
iniziato nell'immagine si compie ora nella realtà. Infatti, irraggia
dal cielo, come grazia, la stella, e i tre re Magi, chiamati dal
fulgore della luce evangelica, ogni giorno in tutte le nazioni
accorrono ad adorare la potenza del sommo Re».
Tutti questi temi confluirono in vari testi medievali, dalla
Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine all'Historia Scholastica di
Pietro Comestore e alle Meditationes, un testo erroneamente
attribuito a san Bonaventura da Bagnoregio, ma riconducibile
all'ambiente francescano toscano verso la fine del secolo XII. Le
Meditationes giustificano la data del 6 gennaio raccontando che «nel
tredicesimo giorno della sua nascita Gesù Bambino si manifestò ai
Gentili, cioè ai Magi, che erano pagani». E soggiungono che il
motivo per cui si deve festeggiare l'Epifania è che «oggi la Chiesa
viene ricevuta da Lui nella persona dei Magi poiché la Chiesa è
formata dai Gentili, cioè dai pagani. E il giorno della sua nascita
Egli apparve ai Giudei, personificati dai pastori, ma solo pochi
Giudei accolsero il Verbo, ovvero il Figlio di Dio. Oggi Egli appare
ai Gentili, o pagani, e questa è la Chiesa degli Eletti».
Mentre l'Epifania, penetrata in Occidente, diventava prevalentemente
la festa della rivelazione di Gesù al mondo pagano, in Oriente la
diffusione del Natale «romano» che cadeva il 25 dicembre trasformava
tà Epiphánia, le Epifanie, nella celebrazione del battesimo del
Cristo nel Giordano e del primo miracolo.
Riti e usanze dell'Epifania
La notte dell'Epifania è considerata nelle campagne una notte
magica: si dice che gli animali parlino nelle stalle e nei boschi.
«La notte di Befana nella stalla parla l'asino, il bove e la
cavalla»; «La notte di Pasquetta parla il chiù con la civetta»,
affermano due proverbi, il secondo intendendo Pasquetta per Epifania
perché un tempo si chiamava «pasqua» o «pasquetta» qualsiasi festa
religiosa solenne: Pasqua di Resurrezione, ma anche Pasqua di Natale
e Pasqua Epifania.
In Toscana si tramandano anche le
parole che si scambiano i bovi ormai scomparsi con l'avvento della
meccanizzazione - nelle stalle: «Biancone!» «Nerone!» «Te l'ha data
ricca la cena il tuo padrone?» «No, non me l'ha data.» «Tiragli una
cornata!» Per questo motivo si dice che alla vigilia dell'Epifania i
contadini governano senza risparmio le loro bestie per evitare che
nella magica notte dicano male del padrone o del loro custode.
L'Epifania è celebrata in Italia con
tante feste e usanze che ne riflettono i vari aspetti.
Un'altra è il Rito della Stella che si svolge a Sabbio Chiese in
provincia di Brescia. Nella tarda serata un coro di giovani,
accompagnato da un'orchestrina, esegue il «canto della Stella». Un
cantore regge per mezzo di un'asta una stella di carta a cinque
punte illuminata all'interno, e che talvolta contiene persino un
minuscolo presepe di carta.
In passato i tre cantori principali,
che interpretavano la parte dei Re Magi, si travestivano con
mantelli dorati e corone di cartone, e uno di loro, Baldassarre,
aveva la faccia dipinta di nero. Il coro di giovani passa per le vie
del paese sostando sulla porta di ogni casa e rievocando la nascita
del Bambin Gesù tra il bue e l'asinello, la venuta dei Magi guidati
dalla stella, e i loro doni. Il canto finisce con questa strofetta:
Or noi ce n'andiam ai nostri paesi da cui venuti siam ma qui resta
il cuore in mano al Signore in mano al Bambino al Bambinel Gesù.
Al termine della cantatina i giovani raccolgono mance e doni in
natura che servono poi per la cena in comune a tarda notte a base di
polenta taragna, ovvero polenta mescolata abbondantemente con
formaggio.
Il «canto della Stella» è un esempio
anomalo delle classiche befanate, un tempo diffusissime nei paesi e
durante le quali gruppi di contadini correvano per le vie del paese,
di casa in casa, cantando «la befana» con canzoni dette di questua
perché, finite le strofette, chiedevano e ottenevano doni in natura.
A Piana degli Albanesi, in provincia
di Palermo, l'Epifania non rievoca l'arrivo dei Magi ma, come per
tutti i cristiani di rito orientale, il battesimo del Cristo nel
Giordano.
Il rito è solenne.
Il vescovo, accompagnato dai sacerdoti, giunge in processione presso
la fontana dei Tre Cannoli. Il corteo è preceduto da gruppi di
ragazzi che portano in mano alcuni bastoni su cui sono infilate
arance. Giunto alla fontana, il vescovo immerge la croce nell'acqua
tenendo in mano tre candele accese e alcune foglie di ruta.
Contemporaneamente una colomba si alza in volo dal campanile della
chiesa di Maria Odighitria - ovvero Guida in greco - e si posa sulla
spalla del vescovo. Allora i ragazzi immergono le arance nella
fontana e le distribuiscono, benedette, agli abitanti e agli ospiti
come simboli dei frutti del Cristo, Arbor Mundi.
Sorprendentemente un'eco
dell'Epifania orientale è rimasta nella Pasquella di Recanati, in
provincia di Macerata. Durante la notte che precede il 6 di gennaio
cori di bambini cantano, fra le altre, una strofetta significativa:
Sulle rive del Giordano, dove l'acqua diventa vino per lavare Gesù
Bambino per lavare la faccia bella, giunti siamo alla
Pasquella.
Vi sono invece in Italia due usanze che sembrano collegarsi a
tradizioni precristiane. Prima che si affermasse la consuetudine dei
regali natalizi ai bimbi, ai quali si raccontava che li aveva
portati Gesù nella notte, erano i Re Magi ad avere questa funzione
all'Epifania, in ricordo dei tre doni offerti al Bambino per
eccellenza.
Oggi ancora, in Spagna, è l'Epifania
il giorno dei regali che vengono portati dai Reyes Magos. A
Siviglia, la sera del 5 gennaio, una festosa cabalcada di bambini e
ragazzi accompagna i tre Re, impersonati da adulti, per le vie della
città.
In Italia invece si è avuto uno sdoppiamento: Gesù Bambino è
diventato il dispensatore dei regali importanti mentre una figura
anomala e non inquadrabile nella tradizione cristiana, la Befana,
porta regalucci e addirittura carbone se il bambino non si è
comportato bene nell'anno appena trascorso.
La Befana è rappresentata in una vecchia brutta che vola su una
scopa come una strega, ma tenendo il manico davanti a sé: una
vecchia benefica e, tutto sommato, simpatica che scende di notte per
la cappa del camino e lascia nelle calze o nelle scarpe dei bimbi
doni, dolci e talvolta, come si diceva, carbone.
Il suo nome deriva dall'aferesi del latino Epiphânia, che diventa
dapprima Pifania, poi Bifania, Befania e infine Befana: tentativo
evidente di cristianizzare il misterioso e inquietante personaggio
trasformandolo nella personificazione femminile della festa.
Ma - ci si domanderà - perché
scegliere una vecchia a rappresentare una festa che celebra la
nascita del Bambino? E perché mai in alcune feste popolari
dell'Epifania si usa segare o bruciare la Befana? Per esempio a
Goito, in provincia di Mantova, si accende allo squillare dell'Ave
il boriello, ovvero un grande fuoco.
La catasta di legna è preparata con
ramaglie su cui si pongono rovi e castagne cavalline che
scoppiettano al fuoco come petardi, e infine paglia. Il mucchio può
raggiungere anche sei o sette metri e deve avere forma conica. Su di
esso si sistema un pupazzo, detto la vecia o la stria, che
rappresenta la Befana.
Si dice che i fuochi si accendono
perché la Madonna possa asciugare i pannolini del Bambino o per
illuminare la via ai Magi. Ma allora la stria che ruolo ha?
D'altronde, la cerimonia di Sega-la-Vecchia, tipica della mezza
Quaresima e analoga a questa, si svolge all'inizio della primavera .
Se pensiamo che fino a non molti
secoli fa l'anno legale cominciava sia all'inizio di gennaio che
all'inizio di marzo oppure all'Annunciazione, si capisce come
l'usanza sia collegata in realtà al passaggio da un anno all'altro.
E allora si può proporre un'ipotesi interpretativa: la Befana è la
sopravvivenza di una figura arcaica, simbolo di Madre Natura che,
giunta alla fine dell'anno invecchiata e rinsecchita, è una
«befana», una «comare secca» da segare o da bruciare.
Segata, offre una cascatella di
dolciumi e regalini, che altro non sono se non i «semi» grazie ai
quali risorgerà a primavera come giovinetta Madre Natura.
Bruciata, offre carbone che,
simbolicamente è l'energia latente nella terra, pronta a rivivere
col nuovo sole. Come la luna, altro simbolo della Grande Madre,
muore diventando «nera» per rinascere falce virginea, così la Befana
muore per rinascere giovinetta fiorente.
A un simbolismo diverso si riallaccia un'altra usanza diffusa in
varie nazioni europee fino a qualche decennio fa e ora in via di
estinzione: si eleggeva il giorno dell'Epifania un Re della Fava,
così chiamato perché aveva trovato una fava nascosta nella focaccia
tipica di questa festa, detta in Francia Galette des Rois e
sormontata da una coroncina di cartone. A sua volta il Re nominava
una Regina gettando la fava nel bicchiere della donna prescelta.
Secondo una tradizione che risale ai
Pitagorici la fava sarebbe il simbolo dell'incessante ciclo di vita
e di morte nella caverna cosmica. Nella Vita di Pitagora Porfirio
spiega che la fava nasce, come l'uomo e con l'uomo, nella
putrefazione. Figura perciò il polo della morte e delle rinascite
necessarie, opposto alla vita eterna riservata agli dèi immortali e
alle anime che, scese nella generazione, sanno tornare al luogo di
origine dopo essere vissute secondo giustizia e aver compiuto azioni
gradite agli dèi.
Mangiar fave, sosteneva, è dividere il cibo dei morti, è uno dei
mezzi per mantenersi nel ciclo delle metensomatosi, e piegarsi così
alle forze della materia.
Questo simbolismo applicato al Re della Fava ispirerebbe uno
scherzoso memento mori con l'allusione al rinnovamento ciclico
dell'anno e della vita.
Ma perché allora chiamare la focaccia con la fava Galette des Rois?
soltanto una denominazione ironica? O forse cela un simbolo diverso
da quello pitagorico?
L'alchimista Eugène Canseliet ha spiegato a sua volta che «la fava
non è altro che il simbolo del nostro zolfo imprigionato nella
materia; vero sole minerale, è anche quello dell'oro nascente,
affatto estraneo al metallo prezioso, dispensatore di ogni piacere
in terra; lui quell'oro giovane verde che doterà l'artista,
abbastanza fortunato per giungere fino alla maturità, del triplo
privilegio della salute, della fortuna e della saggezza.
Ecco perché l'espressione trovare la
fava nel dolce significa sia fare una scoperta geniale e importante
sia un affare ricco ed eccellente.
Inoltre occorre notare che la fava della Focaccia dei Re è spesso
sostituita con un minuscolo bimbo di porcellana, chiamato bagnante,
o con un pesciolino, anch'esso di porcellana, esattamente una
sogliola (che nel latino solea ha la stessa radice sol, sole), e che
Cristo all'origine era rappresentato con il pesce il cui emblema
abbonda nelle catacombe romane e il cui nome, Ichthús, preso come
monogramma, riunisce nell'ordine le prime lettere greche delle
parole che costituivano l'antica divisa: Iesûs Christós Theoû Uiós
Sotér, ovvero Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore.
Buon Natale a Tutti |