Le
feste natalizie sono costellate di cerimonie ed
usanze di cui non tutti conoscono il significato
profondo, l’origine e l’evoluzione. Alcune di
esse derivano da tradizioni pagane
cristianizzate. Questa commistione di usanze di
ispirazione evangelica con altre precristiane è
dovuta alla collocazione calendariale del Natale
che, diversamente dalla Pasqua, è errata
storicamente. Nel vangelo di Luca si narra
soltanto che nel periodo in cui nacque Gesù
c’erano a Betlemme dei pastori che vegliavano di
notte facendo la guardia al gregge. Siccome
sappiamo che i pastori ebrei partivano per i
pascoli all’inizio della primavera, in occasione
della loro Pasqua, e tornavano in autunno, è
evidente che il Cristo nacque tra la fine di
marzo e il primo autunno; tant’è vero che fino
alla fine del III secolo il Natale veniva
festeggiato, secondo i luoghi, in date
differenti: il 28 marzo, il 18 aprile o il 29
maggio.
Nella seconda metà del secolo III si affermò
nella Roma pagana il culto del sole, di cui
l’astro non era se non una manifestazione
sensibile. In suo onore l’imperatore Aureliano
aveva istituito una festa al 25 dicembre, il
Natalis Solis Invicti, il Natale del Sole
Invitto, durante il quale si celebrava il nuovo
sole “rinato” dopo il solstizio invernale. Molti
cristiani erano attirati da quelle cerimonie
spettacolari; sicché la Chiesa romana,
preoccupata per la nuova religione che poteva
ostacolare la diffusione del cristianesimo più
delle persecuzioni, pensò bene di celebrare
nello stesso giorno il Natale di Cristo. La
festa, già documentata a Roma nei primi decenni
del IV secolo, si estese a poco a poco al resto
della cristianità.
La coincidenza con il solstizio d’inverno fece
sì che molte usanze solstiziali, non
incompatibili con il cristianesimo, venissero
recepite nella tradizione popolare. D’altronde
non si trattava di una sovrapposizione
infondata, perché fin dall’Antico Testamento
Gesù era preannunciato dai profeti come Luce e
Sole. Malachia lo chiamava addirittura “Sole di
giustizia”.
Per questi motivi già nei primi secoli
l’accostamento del sole al Cristo era abituale,
come testimonia Tertulliano: “Altri ritengono
che il Dio cristiano sia il sole perché è un
fatto notorio che noi preghiamo orientati verso
il sole che sorge e nel giorno del sole ci diamo
alla gioia, a dire il vero per un motivo del
tutto diverso dall’adorazione del sole”.
Collegata a questo simbolismo di luce è l’usanza
di adornare l’uscio di casa con piantine come il
pungitopo o l’agrifoglio dalle bacche rosse,
mentre quella del vischio è una tradizione
celtica cristianizzata. La si considerava una
pianta donata dagli dei poiché non aveva radici
e cresceva come parassita sul ramo di un’altra.
Si favoleggiava che spuntasse là dov’era caduta
una folgore: simbolo di una discesa della
divinità, e dunque di immortalità e di
rigenerazione. La natura celeste del vischio, la
sua nascita dal Cielo e il legame con i solstizi
non potevano non ispirare successivamente ai
cristiani il simbolo di Cristo: come la
pianticella è ospite di un albero, così il
Cristo, si dice, è ospite dell’umanità, un
albero che non fu generato nello stesso modo con
cui si generano gli uomini. Alla luce delle
antiche feste solstiziali si seguivano alcune
usanze, come ad esempio quella di accendere
fuochi e falò che hanno, si dice, la funzione
simbolica di “bruciare” le disgrazie e i peccati
dell’anno morente, di purificare, ma anche di
ricevere dal sole, composto di fuoco, nuova
energia, fertilità e fecondità: sole che altro
non è se non il simbolo di Cristo, come si è già
detto.
Ma torniamo alla notte di Natale quando, una
volta e ancora adesso in qualche famiglia
toscana o emiliana, si accendeva dopo la cena di
magro un ceppo che rappresenta simbolicamente
l’Albero della Vita, il Cristo, dicendo: “Si
rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane;
ogni grazia di Dio entri in questa casa, le
donne facciano figlioli, le capre capretti, le
pecore agnelletti, abbondino il grano e la
farina e si riempia la conca di vino” – “Il
giorno del pane”, lo chiamavano: per questo
motivo si mangiavano, come oggi d’altronde,
dolci a base di farina che hanno nomi diversi
secondo le regioni: pangiallo, pane certosino,
pandolce, panforte, pampepato e panettone.
Perché mai il pan dolce? L’usanza di consumare
questo alimento nei periodi solstiziali potrebbe
risalire agli antichi Romani, perché Plinio il
Vecchio riferisce che alla festa del Natalis
Solis Invicti si confezionavano le sacre e
antiche frittelle natalizie di farinata. Con
l’avvento del cristianesimo si modificò
l’interpretazione riferendosi alle parole di
Gesù: “lo sono il pane della vita; chi viene a
me non avrà più lame e chi crede in me non avrà
più sete; io sono il pane della vita”. Il Pane
della Vita s’incarnò proprio a Betlemme, che
nell’ebraico Bet Lehem significava Casa del
Pane, nome dovuto probabilmente al fatto che
proprio in quella cittadina era un immenso
granaio, essendo circondata da campi di
frumento.
Quanto al ceppo, non è il solo simbolo arboreo
natalizio: lo è anche l’abete che fin dall’epoca
arcaica tu considerato un albero cosmico che si
erge al centro dell’universo e lo nutre. Fu
facile ai cristiani del nord assumerlo come
simbolo del Cristo. Nei paesi latini l’usanza si
diffuse molto tardi, a partire dal 1840, quando
la principessa Elena di Maclenburg, che aveva
sposato il duca di Orléans, figlio di Luigi
Filippo, lo introdusse alle Tuileries suscitando
la sorpresa generale della corte. Persino i suoi
addobbi sono stati interpretati cristianamente:
i lumini simboleggiano la Luce che Gesù dispensa
all’umanità, i frutti dorati insieme con i
regalini e i dolciumi appesi ai suoi rami o
raccolti ai suoi piedi sono rispettivamente il
simbolo della Vita spirituale e dell’Amore che
Egli ci offre.
Anche l’usanza della tombola nel pomeriggio del
Natale ha una derivazione pagana: durante i
Saturnali, che precedevano il solstizio e sui
quali regnava Saturno, il mitico dio dell’Età
dell’Oro, si permetteva eccezionalmente il gioco
d’azzardo, proibito nel resto dell’anno: esso
era in stretta connessione con la funzione
rinnovatrice di Saturno il quale distribuiva le
sorti agli uomini per il nuovo anno; sicché la
fortuna del giocatore non era dovuta al caso, ma
al volere della divinità.
Nella Roma antica, in occasione dell’inizio
dell’anno si usava anche donare delle strenae
che arcaicamente erano rametti di una pianta
propizia che si staccavano da un boschetto sulla
via Sacra, consacrato a una dea di origine
sabina, Strenia, apportatrice di fortuna e
felicità. Poi a poco a poco si chiamarono
strenae anche doni di vario genere, come succede
ancora oggi.
É invece soltanto cristiana l’usanza del
Presepe. Il primo, vivente, con il bue e l’asino
nella mangiatoia, risale al 1223 a Greccio, un
paese vicino a Rieti: lo ideò san Francesco
d’Assisi ispirandosi a una tradizione liturgica
sorta nel secolo IX, quando in molti Paesi
europei si formarono dall’ufficio quotidiano
delle ore i cosiddetti uffici drammatici a
rievocare le principali scene evangeliche con
brevi dialoghi. Successivamente quei primi
esperimenti si ampliarono in strutture più vaste
e complesse, sicché il tema della Natività
ispirò nel monastero di Benedikburen un vero e
proprio dramma al cui centro campeggiava quella
del presepe.
Ispirandosi a quelle sacre rappresentazioni
Francesco volle rievocare la scena della
Natività con un bue e un asino in carne ed ossa.
“L’uomo di Dio” scrisse san Bonaventura da
Bagnoregio “stava davanti alla mangiatoia,
ricolmo di pietà, cosparso di lacrime,
traboccante di gioia”. Ancora oggi a Greccio si
celebra il presepe vivente da cui sono derivati
quelli inanimati. La mangiatoia era vuota ma il
cavaliere Giovanni di Greccio, molto legato a
Francesco, affermò di avere veduto un bellissimo
fanciullino addormentato che il beato Francesco,
stringendolo con entrambe le braccia, sembrava
destare dal sonno.
Buon Natale
|