In tutti i corsi di ebraico biblico, quando si giunge alla quarta parola del Genesi, úà, l’insegnante commenta che questo vocabolo non ha alcun significato, che è intraducibile, ed è un lemma che annuncia, semplicemente, il complemento oggetto determinato.
Una parola del Berechith, della Torah, che non avrebbe, quindi, significato?
Come questa supposizione sembra stridere per chiunque, a maggior ragione lo fa con il genio della lingua ebraica. Questa ipotesi appartiene, infatti, alla grammatica latina o greca!... appartiene dell’ebraico di Atene.
Tralasciamo, qui, la grammatica essoterica con le sue spiegazioni vuote, insensate e assurde, e sforziamoci, al contrario, di comprendere, di seguire l’estrosità ebraica nella parola úà, genio che non scrive mai un solo vocabolo, una sola lettera che non abbia contenuto, o significato. L’ebraico è una lingua concisa, densa: una parola non ha sempre una sola accezione, ma molto spesso diversi significati; e frequentemente questi stessi significati sono, generalmente contraddittori. Se la parola úà non può essere tradotta, non è perché essa non ha significato, ma probabilmente perché essa ha troppi significati (o troppo significato) e quindi ogni tentativo di traduzione sarebbe un tradimento, perché la traduzione renderebbe, e certamente in maniera forzosa, una sola delle accezioni e lascerebbe fuori tutte le altre.
Nel caso di úà la Qabalah aritmologica del Dottor Azoulay ha già mostrato la via verso un ritorno al genio ebraico. Questa parola, spiega Azoulay, è costituita dalla prima e dall’ultima lettera dell’alfabeto ebraico. Questo termine è un condensato che include tutto: “Con il principio, Élohïm ha creato úà tutto; tutto il cielo e tutta la terra”. Il significato di úà è, perciò, l’idea della totalità nella sua essenza. É quindi logico che non possa essere tradotta.
L’idea di totalità contenuta in úà è confermata da altre prove aritmologiche ed etimologiche.
La gimatreya di úà secondo il mispar quatan (il piccolo numero, il numero ontologico), corrisponde a 1+4(00) = 5.
Ora la parola ebraica per indicare la totalità relativa, descrittiva, quantitativa, è ìë = 20+30, cioè secondo il mispar quatan: 2+3 = 5.
Etimologicamente úà è formata dalla consonante ú e dalla lettera muta à. Ora, nelle parole italiane della stessa famiglia di TUTTO, ritroviamo la T e anche la A (TotAle), della radice ebraica.
La Qabalah ontologica spingendosi più in profondità della Qabalah aritmologica, sviluppa e conferma l’interpretazione del Dottor Azoulay.
úà è 1 - 400. Ora 1 - 4 formula l’antinomia, la dualità essenziale della conoscenza, quindi dell’essere, e tutte le parole nelle quali compartecipa il binomio antinomico 1 - 4, sono delle espressioni sfumate della coscienza d’essere. Ora la coscienza nella sua essenza è dualità, á. E quali sono i due termini di questa dualità? Sono 1 e il 4. Questi numeri sono il “c’è”, come il Suarès e noi stessi abbiamo dimostrato diverse volte, essi sono il contenente della coscienza d’essere, sono l’Essere. E qui, ancora, l’etimologia comparata arricchisce di prove supplementari questa tesi.
Trascriviamo le lettere e le vocali sonore di úà in caratteri latini. Otteniamo: ET o ES o EST. La derivazione ebraica di EST - cioè di Essere - salta agli occhi. Di più, la gimatreya ontologica (il mispar quatan) di úà è 5, cioè la lettera e il suono della Hé ä, lettera essenziale e predominante del verbo ESSERE, in ebraico äéä.
Che una parola, sottintendente l’essere, non sia traducibile, è conforme allo spirito originale della tradizione ebraica. Ma questa non traduzione è colma di significato (o di significazioni). Si constata come ognuno di questi dati si conferma ed è logico. Ma non è tutto.
La parola úà alla sua origine, cioè nel primo versetto del Genesi, simboleggia la coscienza d’essere, la quale è doppia, antinomica, contraddittoria, quindi... intraducibile. E se si è scelto i suoi due numeri ontologici, 1-4, per intercalarli in una grande quantità di espressioni (Nel primo versetto del Genesi: esplicitamente, in 5 parole su 7; implicitamente, in tutte) e tra il verbo e il complemento - cioè nel luogo più vitale, più animato della frase - è per attirare l’attenzione del lettore sul carattere essenzialmente dialettico della lingua santa, ogni parola della quale, può avere diversi significati contraddittori e antinomici. Quando in una frase si incontra la particella úà ci si può attendere che il senso di questa sia doppio, ambiguo; non bisogna dunque fidarsi del significato letterale, aperto, superficiale delle parole di questa locuzione, ma tenere conto dell'accezione duplice, ontologica di ciascuna di esse. Così quando il testo dice: “Élohïm creò úà il cielo e la terra”, è probabile che questo cielo non sia il... cielo. Un esame ontologico serrato, preceduto da una riflessione rigorosa sul contesto, ci rivelerà se questo cielo sia o no un cielo, o contemporaneamente un cielo e un non cielo.
Tale è il genio sbalorditivo, vertiginoso della lingua ebraica.