Sullo stesso argomento è possibile consultare in questa sezione:
Pico della Mirandola e gli inizi della cabala cristiana La versione cristiana della Qabalah
Il mondo della Qabalah
Nessuna scienza può essere più efficace a dimostrare la divinità di Cristo che non la Magia e la Qabalah.
Così affermava Pico della Mirandola per testimoniare l'interesse che gli Umanisti del Rinascimento riservarono alla Qabalah, della quale certamente subirono il fascino e l'influenza, e non solo alla "magia" o "all'ermetismo" o "all'alchimia" come, raffinati e profondi studiosi - con particolari riferimenti alla cultura ermetica e magica del Rinascimento senese - hanno brillantemente documentato nei loro articoli saggistici pubblicati nel n. 3/2005 di Hiram, numero quasi monografico.
Ciò premesso, anche se tra le righe di questi scritti di Hiram emerge con sufficiente chiarezza che la "magia" non impedì né contrastò gli studi cabalistici, l'interesse per la Qabalah, che l'impegno del quotidiano non sempre mi consente di coltivare come vorrei, mi spinge a raccogliere lo stimolo alla ricerca, per tentare di ritagliarmi nell'affascinante, pur se complesso mondo della Qabalah un piccolo "spazio" di riflessione e di studio, che, devo confessare, non sembra proprio privo di difficoltà, anche perché, in effetti, questo "spazio" forse riguarda uno dei primi, se non il primo vero e serio approccio occidentale alla tradizione ebraica e cabalista.
Tuttavia, per entrare, per così dire, nel cuore dell'argomento, è necessaria qualche premessa.
Un'ormai antica impostazione mentale o culturale mi spinge, ogni qualvolta mi trovo ad affrontare un tema di studio e di riflessione, a fissare, con ogni possibile chiarezza, i termini che delimitano gli elementi da indagare.
Ma, in questo caso, ritengo di dover mettere da parte l'antico sistema, dato che un'esposizione, sia pure sintetica, delle caratteristiche proprie della Qabalah o del Rinascimento rasenta l'impossibile, essendo quanto meno necessario uno spazio assai più ampio di quanto ci si possa permettere in questa sede.
Tuttavia, pur dovendo sacrificare l'antica consuetudine metodologica di studio, credo che sia necessario fare qualche sforzo per avvicinarci ad almeno uno dei due termini in esame, vale a dire la Qabalah, e cercare di individuare quanto più è possibile l'oggetto della nostra indagine, o almeno una sua idea-guidasmo, che partendo da antichissimi movimenti mistici arriva fino alla grande fioritura del classicismo moderno, ma anche come una dottrina di profonda spiritualità che spesso, con dolo o con colpa, è ignorata dalla "cultura ufficiale" o male interpretata nella sua vera essenza, nonostante l'influenza esercitata nei secoli su tante attività del pensiero. Si può pertanto affermare che, ancora oggi, in parte anche nella cultura ebraica in cui affonda le proprie radici, la Qabalah sia un po' una "Cenerentola" della cultura e della conoscenza esoterica.
Ma che cosa significa Qabalah?
Propriamente significa "tradizione", in un certo senso orale, di fronte alla "scrittura" della Torà. Inoltre se la Torà si rivolge alla folla dei fedeli, passivamente prostrati davanti al Tabernacolo del Santo dei Santi, la Qabalah viene sussurrata all'orecchio dei più mistici ed impegnati dei Sapienti.
Quali sono le sue fonti?
Ve ne sono di leggendarie. Infatti, molti cabalisti, negano l'esistenza di un qualunque sviluppo storico nella Qabalah, in quanto per molti essa è una rivelazione primordiale concessa ad Adamo o alle prime generazioni. Questa particolare natura della sapienza esoterica venne espressa in opere.
Cominciamo perciò con il definire la Qabalah non solo come la corrente più vitale ed apocrife come il Libro di Enoch ed è addirittura riportata dallo stesso Zohar.
É anche abbastanza nota ed accettata la leggenda secondo la quale la Qabalah sarebbe la parte esoterica della Legge data a Mosè sul Sinai.
Mosè si contrappone ad Aronne, il Sacerdote, perché, differenza del primo, questi poteva tradurre la verità per il popolo e talvolta ripiegare sul Vitello d'Oro, più adatto a ridestare la loro obbedienza e ad accendere il loro fanatismo. Mosè invece aveva diretto contatto con Dio, e non poteva tradire la Verità a nessun costo. Pertanto ad Aronne spettava il ricorso alla Torà; Mosè invece aveva accesso alla Torà ma soprattutto alla Qabalah, la sua essenza più profonda e nascosta.
Questo rapporto, con acuta sensibilità, direi non solo musicale, ha ben messo in evidenza Arnold Schoenberg nel suo Moses und Aaron.
Ma anche a prescindere dalle sorgenti leggendarie e mitiche della Qabalah, le sue radici effettivamente storiche sono nobilissime. Gershom Sholem, una delle massime autorità negli studi cabalistici, in una delle sue opere più famose (1) così si esprime:
[la Qabalahl [...] in quanto fenomeno storico nell'ebraismo medievale, è nata in Provenza, o più esattamente nella sua parte occidentale in Linguadoca. Di là è stata trapiantata nel primo quarto del secolo XIII, in Aragona e in Castiglia, dove in seguito doveva conoscere il suo classico svolgimento. Essa rappresenta dunque una manifestazione della vita ebraica nell'Occidente cristiano.
Pur accettando sostanzialmente il discorso dello Sholem, che, come abbiamo visto, afferma che la Qabalah come fenomeno storico nasce nel XIII secolo, dobbiamo dire che il suo è uno svolgimento lungo e vario, che copre un periodo di quasi duemila anni.
Infatti, la fase iniziale, che è anche la più lunga, si può far risalire ad almeno un secolo prima della nascita di Cristo, mentre le sue ultime manifestazioni giungono fino ai nostri tempi.
Per comodità quindi possiamo distinguere due periodi: il primo, quello che si estende fino al XIII secolo, ed è il periodo della crescita graduale, dello sviluppo e del progresso della dottrina cabalistica, il secondo è quello che va dal XIV secolo in poi e che ha avuto alterne vicende.
Lo Zohar (XIII sec.), vero tesoro, supporto e codice del sistema, costituisce l'apice nella storia della Qabalah, ma non va comunque dimenticato che la letteratura cabalistica vanta almeno tremila volumi editi ed un numero ancora maggiore di testi inediti.
Per mantenerci in un campo non leggendario né mitico ma, per quanto possibile storico, possiamo individuare una prima epoca della mistica ebraica che, senza dubbio, ebbe una non trascurabile influenza sullo sviluppo posteriore della Qabalah. Si tratta di quel periodo che, raccogliendo l'eredità dell'opera di esegesi della Torà iniziatasi con i Soferim approfondita dai Tannaìm e dalle Scuole targumiche, passando per l'epoca della composizione della doppia redazione del Talmud, vede sviluppare ai margini della letteratura tradizionalista della Torà un’importante circolazione d'idee che assumeranno corpo e consistenza dottrinaria.
Le tracce di queste dottrine sono chiaramente riscontrabili nel Talmud, ma la loro genesi è estremamente complessa, anche perché non si può escludere una certa influenza di correnti mistiche riservate e segrete (come del resto gli scavi di Qumran ci hanno confermato e dai quali è emerso con chiarezza che gli Esseni, gli Autori degli ormai famosi rotoli, avevano una impostazione cabalista) né di correnti di pensiero filosofico grecoa-lessandrino; in verità la Qabalah, come meglio vedremo, pur sfiorata o coinvolta da altri sistemi di pensiero, assorbì quel tanto o quel poco che era congeniale alla tradizione ebraica e sostanzialmente riespresse concetti già affrontati come idee assolutamente originali.
La mistica ebraica ebbe origine dunque in Palestina e certamente venne praticata nelle cerchie dei più importanti rappresentanti della Mishnà rabbinica ortodossa. Mishnà significa "ripetizione, insegnamento" e rappresenta il nucleo sostanziale della "Legge orale" del Giudaismo e della raccolta canonica della giurisprudenza scritta dei Tannaìm.
Inoltre il Talmud riferisce più volte di discipline esoteriche fiorite nell'ambito dell'esegesi biblica. Si tratta dei Sitrè Torà ("Misteri della Legge") che assumono il doppio aspetto di Màaseh Merkavah – "Opera del Carro" o "del Trono" – e di Màaseh Bereschith – "Opera della Creazione".
Sempre nel Talmud (Hag. 12a), in tema di mistica del Berechithh, troviamo evidenti tracce di quell'ideologia della parola creatrice che tanta importanza avrà nel Sepher Yetzirah ("Libro della Formazione", una delle più antiche opere di Qabalah) e forse le prime tracce di quelle che saranno poi le dieci Sephiroth:
Dieci cose furono create nel primo giorno, e cioè Cielo e Terra, Deserto e Vuoto, Luce e Tenebre, Aria ed Acqua, e la Divisione della Notte e del Giorno.
Devarim, che in ebraico significa "detti, parole", è il termine usato per indicare queste dieci realtà archetipali che non sono altro che lo strumento creativo di cui si serve la divinità. Ecco il "Verbo" di cui tanto si disputerà, ecco i "dieci detti" con i quali Dio crea l'universo. Se leggiamo la storia della creazione, sebbene Dio parli più di dieci volte, solo dieci volte è scritta la frase:
VAIOMER ELOHIM, "e Dio disse". La prima di tutte è il fiat lux: Vaiomer Elohim iehi or veiehi or, "e Dio disse sia la Luce e la Luce fu" (1,3).
Lasciati i lidi sicuri della storia e della tradizione, più arduo è affrontare il mare aperto delle concezioni cabalistiche e tentare, non dico di penetrare, ma almeno di avvicinarsi alla Qabalah, e magari cercare di darne una definizione, il che non solo è estremamente difficoltoso, ma ogni tentativo in tal senso non può che essere assolutamente inadeguato. Infine, va anche considerato che la Qabalah non è un sistema unico che può essere definito e spiegato in maniera sistematica, ma consiste piuttosto in una molteplicità di sistemi con vari approcci spesso separati e talora completamente diversi l'uno dall'altro.
Ciò premesso, dobbiamo, comunque, sforzarci di individuare quanto più è possibile l'oggetto della nostra indagine, o almeno una sua idea-guida.
La Qabalah, per le piccole e modeste idee che siamo riusciti a costruirci, può essere definita come la scienza dei rapporti con ildivino che si avvale di un complesso di tecniche, anche rituali e talora ascetiche, per instaurare tali rapporti.
L'idea fondamentale che non deve mai essere ignorata è l'assoluta inadeguatezza della creatura a penetrare il mistero dell'essenza intima di Dio e della possibilità, invece, di accedere alla sfera del numinoso attraverso le manifestazioni del divino.
Pertanto, stadi successivi di illuminazione conoscitiva porteranno all'esperimentazione di piani e di livelli diversi dove la contingenza storica annulla la sua presa sull'io che si avvicina e/o si unisce al numinoso, senza però che avvenga un totale o finale annullamento, come spesso accade in tanti ambiti religiosi.
Nella Qabalah, anche in quella più antica, lo scopo viene raggiunto attraverso una duplice possibilità. Si tratta di quelle che possiamo chiamare le due anime della Qabalah, non sempre scindibili e separabili: la tendenza estatico-profetica e quella teosofico-speculativa (2).
La prima si connette alla via mistica ed operativa, nota come Opera del Trono o del Carro: il ritorno all'origine è realizzato attraverso una esperienza psicofisica tra sformante (l'estasi), nella quale le conoscenze intellettuali hanno un fine che possiamo definire preliminare, di esercitazione preparativa all'unione mistica.
Tutta la letteratura di riferimento di questa via è il racconto della visione di Ezechiele: quindi viaggi fantastici attraverso mondi altrettanto fantastici.
La seconda, il cabalismo teosofico e speculativo è una via tipicamente conoscitiva, connessa all'Opera della Creazione, all'ideologia del linguaggio e della scrittura: in essa si opera attraverso un'ascesi della mente, trasformata nelle sue attitudini conoscitive e resa capace di accedere al luminoso.
La letteratura di riferimento di questa seconda via è il racconto della creazione: si parte dunque dalla visione cosmogonica per aggiungere poi momenti teosofici e speculativi di natura diversa (3).
In tale ultima via conoscitiva e speculativa, la Qabalah, oltre che come commento alla Torà, è anche vista come un secondo senso da attribuire alla Bibbia e di conseguenza, in tale contesto, assume una particolare importanza la parola, la quale aiuta a scoprire una serie di "chiavi" adatte a spiegare vari "modi di essere" dell'Universo sensibile e di quello sottile. Ogni realtà può essere "captata", "sentita", "vissuta" su diversi piani e in diverse tonalità. La parola (orale o scritta) è una conseguenza di fonemi o segni grafici (come forma, mai casuale, ma sempre portatrice di arcane significazioni) o un simbolo, o un significato. In ogni caso essa è un'orma di Dio e nello stesso tempo un mezzo strumentale evocativo.
Lo Zohar – la summa della sapienza cabalistica – non è altro che un commento alla Torà, ma un commento del tutto particolare: fatto parola per parola, o meglio lettera per lettera, segno per segno, che penetra in una profondità d'intensa e luminosa spiritualità che si eleva in esaltanti vicinanze con Dio.
Tuttavia, una delle prime difficoltà che si incontrano quando si affronta un testo cabalistico è l'assenza di una struttura logica, nel senso della logica filosofica moderna.
Invece di un argomento che viene svolto seguendo una linea sintattica e morfologica intellettuale, troviamo una struttura assai diversa, più intima, più legata a quella che si potrebbe chiamare la "logica del cuore".
La tecnica è più musicale che letteraria o filosofica: c'è un "soggetto", un "contro-soggetto", un "trattamento", uno "sviluppo". Non mancano le "variazioni", né il "contrappunto" - attento a tutti gli echi e alle profonde risonanze intime dell'Autore – né "l'armonia" che trasforma la lettura in un raffinato e continuo fluire di verità contemplate, di sentimenti che si intrecciano in un tessuto finissimo.
Basta aprire, per esempio, il Libro dello Splendore (lo Zohar) per comprendere quanto sia diverso un tale testo da un'opera filosofica; ma anche da un libro di rivelazione nel senso cristiano.
Per poter analizzare le parole delle Scritture Sacre, per scoprire i significati nascosti nel testo letterale, i maestri cabalisti idearono una vasta serie di raffinati strumenti e di tecniche particolari che spesso finiscono con il complicare le cose ai non addetti ai lavori. Tale è per esempio il notaricon che usa le lettere come nozioni indipendenti, in modo che la parola diventa un intero concetto, un pensiero, un discorso; il tziruph la "permutazione", che traspone le parti componenti una parola in tutte le possibili combinazioni così da trarre parole nuove; oppure, infine, la gimatreya che utilizza la possibilità di trasformare le lettere in un valore numerico e quindi impiegarle a mo' di numeri.
Con quanto precede, appare chiaro che, nonostante ogni buon volere, non siamo riusciti a dare della Qabalah se non una modesta immagine, perché essa è innanzitutto e soprattutto un'atmosfera, un mezzo tecnico d'integrazione dell'Io e di perfezione spirituale. Attraverso la Qabalah, dice il cabalista, si lasciano le bassezze della vita quotidiana e ci si dilata in mondi di sconfinata dolcezza e di terrificante potenza.
Anche se ci fermiamo a considerare la Qabalah soltanto dal suo esistere storico e ne datiamo la nascita, come fa lo Sholem, in quel Medioevo che l'uomo moderno sistematicamente cerca di ricacciare nelle tenebre del suo inconscio collettivo, non possiamo non ritrovare nell'introversione dell'uomo medioevale il suo tendere all'antinomia intellectus – ascetica (Scolastica e Misticismo francescano) e cioè quello stesso conflitto creativo da cui traggono origine alcune altissime espressioni medioevali, come la Divina Commedia e le Cattedrali Gotiche.
Dalla terra bruciata di Spagna, all'angolo opposto di Europa, il "sapiente" ebreo – anche se a volte è detto Sefardita (o spagnolo) e a volte Askenazita (o tedesco) – vive l'antinomia ed il conflitto, e porta con sé la Qabalah che offre allo "studioso" di ogni regione la consolazione di una concezione eterna e mutevole, immensa e raccolta, adatta per il Santo e per il peccatore, per l'eroe e per il mendicante.
È chiaro che con le rapide note innanzi esposte e con una più o meno arida esposizione di piccolissimi frammenti della struttura cabalistica non ho inteso fare altro che cercare di suscitare l'interesse ed il gusto per una dottrina che ha certamente avuto un suo peso ed una sua influenza su tante manifestazioni del pensiero.
Proprio quest'influenza sarà oggetto dell'ulteriore sviluppo della presente ricerca, sia pure limitata, come abbiamo enunciato nel titolo, ad una determinata epoca storica e a quei personaggi che si sono avvicinati alla Qabalah fiduciosi di scoprire in essa un pensiero solido, capace di offrire qualche risposta ai numerosi interrogativi che l'Universo ci propone.
Prima di affrontare le possibili influenze della Qabalah su particolari correnti di pensiero, credo che non sia fuori tema porsi la domanda contraria, ovvero cercare di indagare se negli elementi essenziali o fondamentali della Qabalah si possono rintracciare o si trovano, in qualche modo presenti, dottrine estranee all'Ebraismo. In altri termini è possibile individuare dottrine o correnti di pensiero che in modo conscio o inconscio siano rifluite nella Qabalah, oppure essa nel suo aspetto originale si collega prevalentemente al genio giudaico? In particolare, ed in chiare lettere, possiamo ritenere che influssi di natura platonica o neoplatonica, o addirittura gnostica o cristiana o perfino islamica abbiano permeato di sé il misticismo ebraico?
La vexata quaestio ha avuto protagonisti imponenti, sia culturalmente che scientificamente (4).
Tuttavia prima di indagare se esiste qualche analogia fra quelle dottrine e i princìpi metafisici della Qabalah, dobbiamo osservare che la vexata quaestio, come l'abbiamo innanzi definita, va affrontata con un metro particolare, in quanto l'Ebraismo e la Qabalah, più di qualunque altra dottrina, sembrano rispondere ad esigenze interne proprie, che si avvalgono delle circostanze esterne solo per meglio essere se stesse; pertanto, esse prendono dall'esterno quel tanto o quel poco che è loro congeniale e si esprimono in maniera del tutto originale.
Facciamo un esempio: consideriamo il tema fondamentale dell'Ebraismo (e non solo), quello del Dio Unico.
La percezione di una energia, di una forza, di una potenza che non si presta ad alcuna figura, ad alcun oggetto, ad alcun segno palpabile di antropomorfismo, in un mondo dall'immaginazione popolata da centinaia di miti, è una luce spirituale di una portata considerevole, unica nel suo genere e costituisce un elemento chiave della vita non solo religiosa del popolo eletto. È l'indizio di un processo spirituale che supera in profondità gli apporti di tutte le epoche. Questa essenza astratta concentrata nel Dio Uno, totalità suprema, afferrata e sentita con una intuizione penetrante, si pone d'un tratto nel cuore stesso della più alta speculazione filosofica.
Questo Dio Uno fu certamente percepito anche da altri popoli, ma solo per l'ebreo quell'Entità unica è tale per sua stessa natura e non per l'esclusiva scelta di un uomo o di un popolo, il che lo differenzia in modo assoluto dal Marduk di Hammurabi e dall'Aton egiziano. Questo Dio che non trova riscontro nella volontà di un uomo o di un popolo è dunque per conseguenza il Dio dell'Universo, dell'umanità intera, anche se un popolo solo lo conosce e lo serve.
Prescindendo comunque da queste considerazioni che rischiano di farci apparire solo come appassionati difensori, magari di ufficio e peraltro non richiesti, di una certa concezione dell'Ebraismo, riteniamo doveroso osservare che il mondo ebraico ha sempre manifestato onestà intellettuale su quelli che ha stimato suoi maestri o maestri in generale. Il Talmud, ad esempio (Trattati Rosh Hashanà e Sanedrin), non ha alcuna difficoltà ad ammettere che furono gli Assiri che fornirono i caratteri di cui gli Ebrei si servono ancora. La Misnhà non lesina positivi apprezzamenti alla lingua greca. Aristotele, conosciuto con l'intermediazione araba, è rispettato quasi come un saggio locale. Lo Zohar non nasconde la sua considerazione per libri dell'Oriente che rispettano la legge divina. Ed infine il Talmud condanna chi si appropria di idee altrui senza citarne le fonti.
Tutto questo, dunque, per dire che se il cabalista avesse utilizzato altri sistemi di pensiero non avrebbe avuto difficoltà ad ammetterlo. Pertanto la vexata quaestio va affrontata e risolta alla luce di queste impostazioni e di conseguenza, con tutto il possibile rispetto, diventa difficile accettare perfino l'approccio teorico dello Sholem,tuttora condiviso da molti, proprio per l'autorevolezza dell'Autore, che sostanzialmente consiste nel far derivare molti aspetti del pensiero mistico giudaico dallo Gnosticismo, così da spiegare le dottrine cabalistiche alla luce di una categoria storica e concettuale a essa in gran parte estranea (5).
E pur vero che lo Gnosticismo, al pari della Qabalah, nasce come speculazione teologica, ma purtroppo la sua accesa simpatia per sistemi metafisici sovraccarichi di allegorie, di reminiscenze classiche e di astruserie neo-teologiche ben presto l'allontanano da ogni accostamento alla tradizione ebraica.
Infatti, è sufficiente considerare che il radicale dualismo di un Dio estraneo, opposto ad un universo malvagio, è in totale contraddizione con la tradizione ebraica, nella quale la creazione divina è sostanzialmente buona e il Dio trascendente finisce con il concedersi alla conoscenza della sua creatura. È inoltre assolutamente estranea alla mistica ebraica la visione di un cosmo dove dominano il peccato e la morte e dove il mondo divino è nettamente separato da quello della materia.
Com'è possibile inglobare nel corpo delle dottrine cabalistiche l'influenza di temi e di esperienze il cui scopo – fra l'altro è l'interpretazione del messaggio cristiano, e che partono dal tempo degli Apostoli per giungere alla fine del IV secolo, ma che affondano le loro radici nelle concezioni astrologiche dei Babilonesi, nella mistica popolare orientale, nella misteriosofia ellenistica?
Al di là di certe immediate analogie, o di certi rapporti accidentali, se non artificiali, quegli enigmatici pensatori dei primi secoli che logoravano la loro vita in un'opera sterile di disposizione degli eoni, in logomachie fantastiche ritenute di tanto valore da indurre uomini come Ireneo ed Epifanio a scrivere confutazioni voluminose, non ci sembrano adatte ad animare il misticismo ebraico e le risposte che esso ha dato, in quanto "visione del mondo" ai problemi dell'esistenza, all'origine dell'universo e alla composizione dell'uomo.
Tuttavia, non possiamo escludere tratti comuni fra scritti cabalistici e antiche testimonianze dello Gnosticismo, come, peraltro, accade con altri movimenti spirituali, ma questo fa parte della storia delle idee.
Non è sufficiente la somiglianza delle idee metafisiche che sono alla base di una dottrina, per dire che sono state prese in prestito da altre scuole di pensiero; anzi al contrario la facile percezione di affinità non deve trarre in inganno, in quanto molto spesso, più che di contatti storici e concreti si tratta solo di relazioni fenomenologiche.
Anche se nelle dottrine di celebri eresiarchi gnostici, come Basilide o Valentino non è difficile trovare elementi caratteristici della Qabalah – come l'unità della sostanza, il passaggio dalla concentrazione all'espansione graduale della luce divina necessario per formare le cose, la teoria dei quattro mondi, le tre anime, fino al significato simbolico dei numeri e delle lettere dell'alfabeto – non è sufficiente per codificare rapporti tra Qabalah e movimenti gnostici, in quanto è inaccettabile che apporti culturali esterni caratterizzati da concezioni dualistiche abbiano potuto alimentare un mondo in cui la creatività trova la sua manifestazione e la sua possibilità di espressione unicamente in forme antidualistiche.
Infine, tenuto conto della stretta connessione tra lo Gnosticismo e il Cristianesimo si può affermare – senza timore di smentite – che tutti i princìpi metafisici e religiosi che sono serviti di base alla Qabalah sono anteriori ai dogmi cristiani e che pertanto non possono aver influenzato, in alcun modo diretto o indiretto, la sua dottrina fondamentale.
L'elemento essenziale del misticismo ebraico, la base indiscutibile del sistema cabalistico, vale a dire l'unità assoluta, può aiutarci a dimostrare che esso resta indenne anche dalla influenza dei pensatori
greci e in particolare dal platonismo e dal neoplatonismo che sembrano avere una parentela più intima con la Qabalah.
Per quanto attiene alla filosofia di Platone, mentre ribadiamo ancora che, se i cabalisti vi si fossero ispirati, non avrebbero esitato a riconoscerlo, dobbiamo dire che è del tutto estraneo al loro mondo il dualismo tra spirito e materia, o tra causa intelligente e sostanza inerte. L'unità è fondamentale ed irrinunciabile: Dio è in egual tempo causa, sostanza e forma di tutto ciò che è, come di tutto ciò che può essere.
Tuttavia nella lotta tra bene e male o tra spirito e materia, tra forza fisica e morale, di cui parla il profeta nella Bibbia, silenziosamente compare la dualità, che i cabalisti fanno derivare da ciò che distingue la generazione delle cose finite da quelle infinite.
Inoltre, in nessun modo, la teoria delle idee di Platone può essere avvicinata alle Sephiroth. È vero che entrambe le teorie si riferiscono alle forme inferiori, ma la prima è fondata sulla dualità e la seconda sulla potenza dell'Unità.
Infine, le "idee" di Platone si distinguono dalla sostanza inerte, hanno per essenza il bene, sono eterne ed incorruttibili, recano l'impronta divina, rappresentano l'essenza degli esseri, ma escludono ciò che si riferisce alla materia, al principio inerte.
Invece, ricordando Spinoza per meglio penetrare il sistema, nelle Sephiroth predomina l'essenza metafisica ma la materia non è separabile dalla struttura del Tutto.
Esse rappresentano insieme le forme dell'esistenza e del pensiero, gli attributi della sostanza inerte e della causalità intelligente.
Sono i padri e le madri, che derivano da un'unica fonte, l'En-Sof, che poi si confondono nel figlio, per poi separarsi nuovamente e di nuovo confondersi.
Se non è facile separare il mondo cabalista da quello platonico, ancor più difficile diventa porre delle distinzioni nei confronti della filosofia neoplatonica.
La difficoltà consiste proprio nel sapere se certe idee parallele che si trovano in Plotino e nei suoi discepoli e negli adepti della Qabalah hanno origine da questi o da quelli.
Ma lo stretto legame di queste idee con elementi biblici e midrashici dà sempre una colorazione tanto ebraica che diventa poi difficile non assumerle come un'emanazione della vita intellettuale cabalistica.
Tuttavia le somiglianze fra le due dottrine non sono di poco conto. Entrambe, ad esempio, postulano la necessità di un principio assoluto (l'Uno) da cui è stato originato il mondo. Ma si tratta di un Uno che è il più alto grado dell'astrazione, è l'ignoto, il mistero che trascende tutte le categorie del conoscere ed è pertanto indefinibile sul piano teologico.
Per quanto abbiamo detto e come vedremo in seguito, non c'è da meravigliarsi se il Neoplatonismo del Rinascimento si troverà straordinariamente a suo agio a contatto della Qabalah, il che farà dire a Frances A. Yates: se si dovesse cercare il punto culminante del neoplatonismo rinascimentale, lo si troverebbe nel libro De arte Cabalistica di Joannes Reuclin, pubblicato nel 1517 (6).
Nonostante l'affermata e scarsa differenza che esiste fra i due sistemi innanzi indicati, dobbiamo dire che non è facile ammettere che i dottori della Palestina abbiano potuto attingere alla cultura greca, in quanto non avevano una conoscenza tale della lingua da poter penetrare nel suo pensiero filosofico. Infatti, era loro nota, solo per sentito dire, la versione biblica dei Settanta e, non si può proprio dire che essi avessero un filo diretto con gli ebrei che parlavano greco e che conoscevano la filosofia pagana.
Accantonata, in qualche modo, l’idea di rivendicare alla cultura greca e al neoplatonismo momenti ispiratori della Qabalah, dobbiamo chiederci se non abbia esercitato, su di essa, un'influenza diretta o indiretta il filosofo Filone.
Cominciamo con il precisare che Filone, pur essendo ebreo e, com'è noto, avendo parlato di tutto e di tutti, non fa alcun cenno all'autorità giudaica, al Gran Sacerdote, ai Tannaìm, alle famose polemiche di Hillel e Shammai; eppure sono tuttora in molti quelli che lo indicano come il vero ispiratore o inventore del misticismo ebraico.
Anzi, anche questa è una leggenda da sfatare. Basterebbe solo considerare che, nonostante la sua fama, non solo ad Alessandria d'Egitto, il Talmud non parla assolutamente di lui, ed è completamente ignorato dagli ebrei del Medioevo, da Sa'adià, da Maimonide, dai loro discepoli e dai cabalisti antichi e moderni.
Fermo restando il più assoluto rispetto per Filone, dobbiamo dire che, in fondo, il suo sistema fu il migliore esempio di quella fusione di idee e di dottrine che si manifestarono nel centro della cultura ellenistica allora predominante: Alessandria. Nella sua filosofia, in sostanza, entrarono elementi platonici, stoici, rabbinici e non si può proprio dire che essi siano frammisti in modo sempre armonioso.
Il tentare un esame completo del misticismo di Filone va oltre lo scopo di questo lavoro. Tuttavia in questa sede è opportuno rilevare quanto sia fondamentale per Filone l'idea che tutta la materia è male; perciò Dio deve essere messo fuori dal mondo.
Ma se questa è la sua filosofia, la sua religione, il Giudaismo, gli insegnava altrimenti. Obbligato a trovare qualche via di uscita che Io togliesse dalle difficoltà, si fermò sull'idea dei Logoi, agenti divini che, pur essendo in qualche senso inerenti a Dio, sono sotto altri aspetti ed in tempi diversi esteriori a Lui. A questo punto sembra piuttosto difficile dire che egli abbia derivato questa teologia da fonti cabalistiche o abbia ispirato gli adepti di questa dottrina.
In definitiva, dunque, tutto concorre ad evidenziare che gli scritti di Filone di cui peraltro non vi è proprio nessuna traccia né nello Zohar, né nel Sefer Yetzirah, non hanno esercitato alcuna influenza sulla Qabalah.
Eliminata, per così dire, "la concorrenza" della civiltà greca di Alessandria o del Platonismo, prima di definitivamente affermare l'originalità della costruzione cabalistica, dobbiamo ancora dare uno sguardo a possibili rapporti con l'Islam.
Già dal punto di vista religioso, pur essendoci apparentemente delle somiglianze importanti, non vi è un rapporto diretto fra le idee arabe e quelle ebraiche, anche se si può ammettere che, molto probabilmente sono fiorite, attraverso vie diverse, da una fonte comune.
Inoltre, mentre la dottrina ebraica tende più particolarmente alla metafisica, quella araba si rifà ad idee di ordine generale comuni a tutti i misticismi.
Infine c'è anche da rilevare l'assenza di ogni traccia di metempsicosi nell'Islam, teoria che ha un aspetto non trascurabile nella tradizione ebraica.
Gli studi ebraici dei pensatori cristiani del Rinascimento
Fatte queste modeste premesse, possiamo ora affrontare lo studio del davvero enorme interesse manifestato per la Qabalah all'epoca della fioritura degli studi umanistici e rinascimentali.
Il distacco da quanto abbiamo appena accennato è comunque grande e, innanzi tutto, il problema da chiarire, è quello di cercare di capire come le idee e i motivi della Qabalah, che nella storia – almeno fino ad ora – ci appaiono prevalentemente se non esclusivamente validi e vitali nell'ambito dell'ebraismo, possono aver interessato i pensatori cristiani e come e perché gli ebrei – in qualche modo – aprirono le porte se non a sistemi di pensiero diversi, perlomeno a personaggi che tali sistemi rappresentavano.
Per penetrare il problema e per tentare di avvicinarci alla soluzione dobbiamo andare, per così dire, "al di là della barricata", cioè dobbiamo cercare di sforzarci nella comprensione del mondo ebraico, più che di quello cristiano.
Gettando solo un rapido sguardo alla società e alla cultura ebraica che costituivano l'alveo naturale della Qabalah, notiamo che, come spesso accade nella storia di questo popolo, gli ebrei dell'epoca, pur avendo essi stessi messo in moto un processo di evoluzione tipico dell'epoca di cui stiamo parlando, erano pur sempre presi dalla necessità di definire la propria identità, fatto che rendeva poi estremamente difficile la ristrutturazione della società e della cultura verso la secolarizzazione e la modernità.
Occorreva pertanto un qualcosa che facilitasse l'operazione. Questo ruolo fu affidato alla Qabalah la quale, dopo un lungo periodo d'incubazione esoterica, coltivata da un numero assai ristretto di seguaci, era uscita dalla clausura per occupare un posto d'onore nella cultura della società ebraica, nella quale era ormai largamente penetrata.
Inoltre, essa appariva, oltre che come un sistema di pensiero, anche come una produzione letteraria, profondamente influenzati l'uno e l'altra da tendenze mistiche.
Sicché essa al momento si presentava, in particolare a quella parte del mondo ebraico tesa verso il nuovo, come un'interpretazione originale, piena d'idee neoplatoniche della tradizione midrashica (la tradizione orale), soprattutto delle sue parti speculative, cosmogoniche e teosofiche, il che le faceva assumere un ruolo, in un certo senso, antagonista della filosofia scolastica.
A causa della crisi di quest'ultima, crisi dalla quale l'intero pensiero europeo uscì completamente rinnovato, la Qabalah ebbe campo libero presso gli ebrei.
Riempì, quindi, il vuoto lasciato dalla scolastica e penetrò in tutti i campi dall'attività intellettuale alla pratica religiosa quotidiana. Il suo successo, a nostro avviso risiedette, fra l'altro nella sua natura ambivalente, antropocentrica per un verso, ma al tempo stesso teocentrica per un altro. Fu proprio quest'ambivalenza a permetterle di fungere da agente di modernità rimanendo radicata nel Medio Evo, di promuovere la secolarizzazione pretendendo di essere profondamente religiosa, di favorire la mondanità presentandosi ammantata di mistica ultraterrena (7).
Non fu difficile, a questo punto, avendo, come si suol dire, sistemato le cose all'interno delle proprie coscienze, arrivare perfino all'insegnamento pubblico della Qabalah, sia pure con le dovute cautele.
Tornando ora alla cultura e alla società cristiana nella quale fioriva, come sappiamo, insieme al culto dell'antichità il Neo platonismo, dobbiamo riconoscere che non fu difficile – in un'epoca, in qualche modo di transizione, che accettava, talora acriticamente, i testi più strani provenienti dalle tradizioni più diverse: ermetica, zoroastriana, pitagorica – arrivare allo studio e ad un utilizzo particolare della Qabalah, che peraltro ne decretò il successo da lì in avanti.
E qui, anticipando qualche conclusione, ed anche per la migliore comprensione di quanto vedremo in seguito, diciamo subito che la Qabalah venne utilizzata come "strumento di ricerca" di motivi e sostegni alla fede cristiana.
Ebbe così inizio un contatto umano e personale particolare tra gli spiriti assetati di sapere della cultura cristiana da una parte, e dei più colti fra gli ebrei, in particolare quelli convertiti, dall'altra.
Queste le cause esterne o storiche dell'incontro, ma in realtà, dobbiamo dire che i cristiani, nel profondo della loro ricerca, aspettavano (se non pretendevano) dagli ebrei un servizio e cioè quello di ottenere da loro argomenti giustificativi della verità cristiana allo scopo di condurre a buon fine il processo d'appropriazione della Bibbia ebraica già iniziato al tempo dei Padri della Chiesa. In pari tempo non avevano abbandonato l'idea di sfruttare il contesto dell'incontro intellettuale per aggiungere altre conversioni di ebrei al trionfo finale del Cristianesimo.
Ciò premesso, cerchiamo ora di evocare o perlomeno di avvicinarci il più possibile al clima del Rinascimento, epoca enormemente ricca di fermenti e di sviluppi tanto da poterla – e non a torto – definire "irripetibile" nella storia del pensiero. Fra le tante caratteristiche tipiche dell'epoca stessa spicca quell'ardore appassionato di ricerca e di investigazione dell'antichità, che spingeva gli umanisti a peregrinare di paese in paese per disseppellire, dalla polvere delle biblioteche monastiche, i capolavori dimenticati della letteratura classica.
A questa sete di conoscenza e di ricerca non potevano certamente sfuggire i monumenti dell'antica letteratura ebraica, conservati o consacrati nelle pagine delle Sacre Scritture, e le opere degli ebrei medioevali che insieme con gli arabi erano stati, per lunghi secoli, i depositari dell'antica sapienza ellenica.
Inoltre, da lunga data, la tradizione cristiana riconosceva l'utilità dello studio dell'ebraico sia per l'esegesi biblica, sia per la conoscenza del Talmud, il cui contenuto poteva diventare materia di dibattito nelle dispute teologiche.
Uomini come Ruggero Bacone o Raimondo Lullo avevano indicato la strada da percorrere.
Infine, non fu estraneo all'interesse per l'ebraico, il desiderio di un approccio indipendente al testo biblico, mentre la Chiesa cattolica del periodo rinascimentale consumava una crisi profonda e da più parti si auspicava la riforma dei costumi e degli atteggiamenti religiosi.
Contro questa tendenza insorsero anche qualificati testimoni dello spirito riformatore e della lettura umanistica del Testo biblico, come Erasmo da Rotterdam, che temeva, come effetto di questo culto della lingua e della cultura ebraica in genere, di veder trionfare quest'ultima piuttosto che il Cristianesimo.
Ma numerosi umanisti italiani e stranieri furono di tutt' altro avviso: Poggio Bracciolini, Giannozzo Manetti, Egidio da Viterbo, papa Leone X de' Medici, Domenico Grimani, Francesco Zorzi, ma soprattutto Marsilio Ficino e ancor più, come vedremo, Pico della Mirandola.
Gli umanisti italiani, per studiare la lingua e la letteratura greca si erano rivolti agli eredi diretti dell'antico ellenismo, cioè ai dotti greci di Bisanzio, così per lo studio della lingua e della letteratura ebraica ricorsero all'insegnamento degli eruditi ebrei.
Firenze, in modo particolare, fu centro cospicuo di studi ebraici. Già fin dall'inizio del Quattrocento incontriamo due umanisti,fiorentini di elezione, che si danno allo studio della lingua sacra: uno, l'abbiamo già citato, fu Poggio Bracciolini (1380-1459) e l'altro fu Ambrogio Traversari (1436-1489), i quali entrambi si limitarono ad una conoscenza superficiale della grammatica e del lessico.
Ma già un altro studioso, Giannozzo Manetti (1396-1459), come ci risulta dalle Vite di uomini illustri del sec. XV di Vespasiano da Bisticci, ebbe una conoscenza più ampia e sicura della lingua e della letteratura ebraica.
Senza far torto a questi eruditi personaggi, spostiamo la nostra attenzione sui grandi protagonisti del pensiero dell'epoca che ebbero una conoscenza vasta e non superficiale degli autori ebrei.
Innanzitutto ricordiamo il maestro ed il capo del Neoplatonismo fiorentino Marsilio Ficino (1433-1499), il quale ebbe due, ed entrambe valide, motivazioni allo studio della cultura ebraica.
Infatti, da una parte, la sua fede cristiana gli suggeriva l'approfondimento della letteratura ebraica sia religiosa che filosofica, allo scopo di potervisi validamente contrapporre ed anche per scoprire elementi di sostegno alla sua religione (a somiglianza di quanto si proponevano in molti e così anche il Manetti).
D'altra parte poi lo sconfinato amore per Platone ed i suoi seguaci, lo spingeva penetrare ed acquisire la conoscenza del misticismo cabalistico che presentava non pochi punti di contatto con il misticismo neoplatonico.
Né Marsilio poteva ignorare quella corrente neoplatonica che faceva capo al sistema del celebrato autore del Fons Vitae, Shelomò ibn Gabirol, per quanto l'intera generazione di Ficino non ne conoscesse l'origine ebraica.
Tuttavia, per molti studiosi ed anche da un modesto esame che io stesso ho potuto fare di qualche sua opera, appare abbastanza chiaro che Ficino ebbe una relativa conoscenza, diretta o indiretta, della lingua ebraica. Molto probabilmente egli faceva ricorso a traduzioni latine, oppure a quei vasti commenti sparsi in tante opere in latino. Era questo il sistema al quale ricorreva nei confronti dei testi arabi; infatti, del Corano, che spesso cita nel De cristiana religione, e di un trattato di Avicenna possedeva una traduzione che fra l'altro prestò a Pico della Mirandola e che, come risulta dalle Epistole, con una lettera dell'8 settembre 1486, ne sollecitò la restituzione.
Dall'insieme della sua produzione letteraria, mentre da una parte appare una indiscussa conoscenza della cultura e della tradizione ebraica, dall'altra è possibile constatare inesattezze, se non addirittura errori che provano la mancanza di effettiva conoscenza dell'ebraico ovvero una conoscenza per vie indirette.
Infatti, in particolare nell'opera innanzi indicata, si muove con estrema facilità nei campi più vari della letteratura ebraica. Cita i Targumim, il Seder Olam, il Talmud, i Midrashim, i commenti biblici di Rashi e di Nachmanide, il Libro delle cose da credere di Sa'adia Gaon, il Deuteronomio e la Guida dei perplessi di Maimonide e così via.
Dimostra inoltre una non superficiale conoscenza di cose ebraiche in genere, attribuisce il giusto valore alla venerazione del Tetragrammaton, all'autorità del Targum presso gli ebrei, non ignora le modalità di computo del calendario, e perfino episodi della storia post biblica degli ebrei (come la rivolta sotto Adriano).
Ma, nonostante tutto questo, a titolo di esempio e diciamo pure di curiosità, che nulla toglie alla statura del personaggio e dei suoi studi, specialmente i nomi propri citati da Marsilio risultano assolutamente storpiati, come quando cita Chalchadias per Sa'dia, Camedrim per Sanhedrim, Ceder Lophan per Seder Olam.
Talvolta, i titoli di trattati talmudici sono presi per titoli di libri autonomi e qualche volta incorre in malintesi nelle idee e nei fatti (come quando parla del nome di Dio Élohïm e precisa heloym plurale est, singulare enim eius est heluel e non, come avrebbe dovuto dire, El).
Tuttavia nelle opere posteriori al De cristiana religione si può dire che le cose migliorano, anche perché Marsilio diminuisce le citazioni, ed addirittura nel De vita celitus comparanda (1489), parlando dei sacrifici presso gli ebrei, esplicitamente dichiara di volerne lasciare l'investigazione all'amico Pico della Mirandola, dimostrando di avere un relativo interesse agli studi ebraici e non quel fervore e quella profondità, con la quale vi ci si dedicherà Pico.
A differenza di Marsilio Ficino, Angelo Poliziano (1454-1494) ebbe nozione diretta della lingua ebraica, e pur senza addentrarsi nello studio della relativa letteratura, seppe certamente trar profitto dalle sue conoscenze per accostarsi al testo ebraico della Bibbia e ai commentatori ebrei medioevali.
Chi invece ebbe una conoscenza larghissima, profonda e diretta dei testi ebraici fu certamente il dotto amico del Poliziano, che probabilmente gli fu di valido aiuto nei suoi studi e cioè Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), il quale, sin da quando, giovanissimo studente a Padova, si dedicò allo studio dell'ebraico, non abbandonò per tutta la sua vita, anche se fu condizionato dai suoi studi filosofici.
Infatti, in un primo periodo, quando Pico era preso dalla filosofia aristotelica, la letteratura ebraica ebbe la sola funzione di facilitare l'accesso ai pensatori arabi e ai loro commenti alle opere aristoteliche e pertanto in questa fase furono sufficienti anche delle semplici traduzioni dall'ebraico.
Ma ben presto Pico passò ai testi originali quando i suoi studi filosofici assunsero una caratteristica più eclettica e, fra l'altro perseguivano, da una parte, l'ideale di conciliare Platone ed Aristotele, e dall'altra la religione e la filosofia, nonché il desiderio di cercare e trovare prove di verità cristiane ed una migliore comprensione della Scrittura.
Nel primo periodo egli ebbe a guida Elia del Medigo, il quale a torto è indicato come suo maestro di ebraico, mentre in realtà si limitò a tradurre per lui in latino opere ebraiche; nel secondo, dopo aver appreso la lingua ebraica e quella caldaica o aramaica dal dottissimo convertito Samuel ben Nissim Abulfaraj, divenuto Raymond Moncada e conosciuto anche come Flavio Mitridate, trovò, per la letteratura e per il pensiero ebraico, un maestro degno di lui, in Jochanan Alemanno.
Purtroppo la sede non consente di occuparci, in modo specifico e diretto, di questi personaggi che ebbero tanta parte nella vita e nella cultura del Signore di Mirandola. Essi, però, non furono i soli ebrei con i quali Pico ebbe rapporti per ragioni di studio. È noto, infatti, che a Firenze, Pico, teneva presso di sé un giovane ebreo di nome Clemente che, poi, indotto da lui e forse ancor più da Girolamo Savonarola, si convertì al Cristianesimo e indossò l'abito monacale.
La vastissima dottrina ebraica che Pico acquistò con le frequentazioni di molti dotti ebrei e le larghissime letture di testi ebraici, che raccolse in numero considerevole, determinarono l'indirizzo del suo pensiero. Anzi, oserei affermare, che proprio in questa forte commistione di elementi ebraici consiste l'originalità di Pico.
Infatti, il suo sistema filosofico, sostanzialmente, non è che un Neoplatonismo entro il quale sono commisti svariati elementi eterogenei, ma con ciò non si può ancora parlare di originalità, la quale, invece, scaturisce dalla fusione organica di tutti questi elementi – che abbiamo definito "eterogenei" – con la Qabalah ebraica, che tentò di cristianizzare e di adattare alle credenze cattoliche.
D'altra parte, la Qabalah, come abbiamo visto, in alcuni suoi momenti, trova accordo o riscontro nella filosofia neoplatonica e in diversi punti delle dottrine cristiane in quanto derivate dall'Ebraismo.
Anteriormente a Pico, già c'erano stati altri tentativi di far conoscere la Qabalah ebraica al mondo cristiano, ma in verità solo il Signore di Mirandola raggiunse risultati efficaci nel collegamento di diverse manifestazioni del pensiero che diede origine a quell'indirizzo che si chiamò appunto con il nome di Qabalah cristiana.
Lo Sholem fa risalire la Qabalah cristiana a due fonti: la prima che fu rappresentata dalle speculazioni cristologiche di un numero rilevante di ebrei convertiti, speculazioni che – dato il loro scopo missionario, scopertamente tendenzioso – non ebbero molta presa sugli spiritualisti cristiani seri, a differenza, invece, della speculazione cristiana che si sviluppò intorno all'Accademia platonica fiorentina che proseguì gli orizzonti aperti dal Rinascimento.
Questi circoli fiorentini – afferma lo Sholem – ritenevano di aver scoperto nella Qabalah una rivelazione divina originale all'umanità che era andata perduta e che ora veniva recuperata, e con l'aiuto della quale era possibile non soltanto comprendere gli insegnamenti di Pitagora, Platone, gli orfici, da loro grandemente ammirati, ma anche i segreti della fede cattolica (8).
Il vero fondatore di questa scuola di Qabalah cristiana fu dunque Pico, il quale, come appare dalle sue opere, aveva acquistato una profonda conoscenza non solo nelle dottrine cabalistiche, ma anche in altri rami della vasta e molteplice letteratura ebraica, e nei più diversi indirizzi del pensiero ebraico.
La dimostrazione migliore di tutto ciò la troviamo nella sua produzione letteraria che può essere classificata tenendo conto dei diversi interessi dell'Autore. Infatti, dalla conoscenza della lingua e della letteratura ebraica ottenne il risultato e la soddisfazione di poter tradurre in latino l'opera di Abu Bekr ibn Tofeil: il Chaj bel Joktan.
Dai filosofi ebrei medioevali attinse motivi e riflessioni non solo per le Conclusioni, ma anche per altre opere nelle quali appare spesso anche la menzione di medici, astronomi e astrologi ed anche di storici ebrei.
Anche dei costumi degli ebrei non solo contemporanei, del loro calendario e delle loro vicende Pico si mostra informato.
Conosceva la letteratura talmudica, certamente per quanto attiene alla Haggadà cioè ogni insegnamento non giuridico (religioso, morale, storico) con un certo carattere omiletico, anche se la Halakah ("via, procedimento, norma") non era sconosciuta alle opere da lui possedute. Inoltre, cita qualche passo talmudico nel testo originale, con esatta indicazione del luogo.
Dimostra familiarità con tutti gli sviluppi dell'esegesi ebraica dalle versioni caldaiche o Targumim, ai Midrashim (le tradizioni orali) e agli esegeti medioevali ed arriva infine allo studio della Bibbia, oltre che nelle antiche versioni caldaica, greca e latina, direttamente nel testo ebraico.
Questa conquista gli consente una conoscenza ed una penetrazione delle Scritture molto più profonda ed esatta di quanto avrebbe potuto ottenere dalle versioni note alla sua epoca. Di qui all'opera esegetica, il passo è breve. Scrive infatti un opuscolo in difesa della versione di S. Girolamo contro le critiche ad essa mosse da parte degli ebrei; una difesa analoga della traduzione greca dei Salmi; un'illustrazione del racconto biblico della creazione di cui parleremo più avanti e un amplissimo commento ai Salmi, diretto ad illustrare il senso letterale e i molteplici significati che sotto il velo della lettera egli credeva di poter riscontrare.
Ma, come abbiamo già accennato, ciò che a Pico più interessava nell'Ebraismo era la Qabalah. Tra le novecento Conclusioni vi sono due serie di argomento cabalistico: quarantasette (9) sono altrettanti estratti opere di cabalisti ebrei e altre settantadue (10) esprimono opinioni personali di Pico nel campo della Qabalah. Entrambe le serie richiedono una decisa conoscenza della Qabalah e delle opere cabalistiche.
Nonostante l'uso della Qabalah per dimostrare la validità delle credenze cristiane Pico fu condannato dal papato e pertanto nella sua "Apologia" egli ebbe occasione, per giustificare se stesso, di parlare ampiamente della Qabalah, di cui sostiene l'identità con la legge orale e di chiarire quella che secondo lui ne era l'origine prima e cioè che sarebbe stata insegnata da Dio a Mosè insieme con la legge scritta, e che, trasmessa verbalmente di generazione in generazione, sarebbe poi stata posta per iscritto da Ezra in libri conservati gelosamente come tesori di segreta dottrina dei sapienti ebrei.
In questi libri cabalistici che gli ebrei tramandarono attraverso i secoli, Pico crede di poter trovare, contro le loro credenze e da loro inconsciamente custodita, la migliore e più efficace testimonianza della verità cristiana.
Infine, completamente fondata sulle dottrine cabalistiche è l'opera di Pico intitolata Heptaplus, de septiformi sex dierum geneseos enarratione, dedicata a Lorenzo il Magnifico nel 1489.
L'opera contiene sette successive interpretazioni del racconto biblico della creazione: nelle prime quattro, con l'aiuto delle parole della Sacra Scrittura, riscopre i quattro mondi della Qabalah; la quinta vede nel testo un accenno a tutti e quattro i mondi successivamente; la sesta espone i rapporti dei mondi tra di loro, ed infine la settima mostra come tutte le cose create tendano a Dio, nel quale esse ritrovano la beatitudine suprema.
Alla fine dell'opera Pico si propone di dare al lettore un'idea del sistema cabalistico delle permutazioni delle lettere e riferisce a titolo di saggio quanto egli è riuscito a dedurre con questo sistema dalla prima parola del testo biblico: Bereshith.
L'esempio di Pico contribuì forse ad indurre allo studio dell'ebraico altri eruditi fiorentini fra i quali certamente Girolamo Benevieni (1453-1542), la cui passione per la Qabalah giunge a fargli ritenere che perfino nella Guida dei perplessi, opera squisitamente filosofica di Maimonide, sotto il velame della forma filosofica si possa trovare un recondito senso cabalistico.
E, per finire, è il caso di citare l'ampia erudizione ebraica di Sante Pagnini (1470-1541) che consacrò la maggior parte della sua vita, a questi studi ai quali fu probabilmente avviato, certamente incoraggiato, da Girolamo Savonarola, dal 1494 provinciale dei domenicani, il quale, con vivo zelo, promosse fra i suoi frati lo studio dell'ebraico e delle altre lingue orientali, non solo per migliorare la comprensione dei testi sacri, ma anche allo scopo di valersi di queste conoscenze linguistiche per la conversione degli infedeli.
Naturalmente anche oltre le mura di Firenze e anche al di là delle Alpi la Qabalah esercitò il suo fascino e la sua caratteristica influenza.
Come di consueto, la sede non consente di dilungarci più di tanto, ma non possiamo assolutamente tacere di qualche grande personaggio che al pari di Pico si è lasciato conquistare dal pensiero cabalistico.
È questo il caso di Joannes Reuclin (1455-1522), uno dei più illustri sapienti del Rinascimento, che nutriva un profondo disprezzo per la scolastica tedesca e che trovò nella Qabalah una base positiva, un fattore di grande importanza per i movimenti religiosi della Riforma.
Reuclin ebbe occasione di soggiornare a Firenze intorno al 1490; rimase incantato dall'aria platonica che vi spirava, raccolse l'eredità di Pico, morto giovane, ed elevò la Qabalah a livello di scienza filosofica platonica.
La sua profonda conoscenza della Qabalah gli consentì la pubblicazione, in latino, di due scritti (De verbo mirifico – Sul nome miracoloso, 1494 – e De arte cabalistica – Sulla scienza della Qabalah, 1517) che furono le prime opere di Qabalah redatte da un non ebreo.
Secondo lui la convergenza della Qabalah con i dogmi dell'insegnamento cristiano avrebbe garantito la verità dell'una e dell'altro.
L'influenza dell'opera di Reuclin sugli ebrei è la prova migliore del suo impatto sul pensiero dell'epoca. Taluni, come Todros ha Koen si convinsero a tal punto delle verità esposte da Reuclin da farne la base ideologica della loro conversione al Cristianesimo. Todros ha Koen, chiamato in seguito Ludovico Carretto, pubblicò a Parigi nel 1544, un libro dal titolo Epistola Ludouici Carreti ad Iudaeos, nel quale espone le sue ragioni ed invita i confratelli di un tempo a seguirlo nel suo cammino.
Invece, gran parte dei confratelli di Todros erano terrorizzati dalla pericolosità delle teorie di Reuclin per la purezza della fede ebraica e cercarono di dimostrarne la non appartenenza al campo dell'elaborazione cabalistica.
Eppure, nella prima delle due opere citate, che è anche la più originale, Reuclin cerca di dimostrare che ogni saggezza e vera filosofia vengono dagli ebrei e che Platone, Pitagora, Zoroastro hanno attinto le loro idee religiose dalla Bibbia, la cui lingua e le cui credenze hanno lasciato tracce nei libri sacri di tutti i popoli.
Il principale contributo di Reuclin fu la sua associazione del dogma della Incarnazione con una serie di ardite speculazioni sui nomi divini.
È sua la tesi che la storia umana poteva essere divisa in tre periodi: nel primo, o "periodo naturale", Dio si rivelò ai patriarchi con il nome di tre lettere (shin-dalet-yud = Shaddai). Nel periodo della Torà si rivelò a Mosè con il nome a quattro lettere (Yud-Hey-Vav-Hey), a proposito del quale Reuclin riteneva possibile che la tetractys pitagorica ne fosse un ricordo e di conseguenza Pitagora con il suo culto della decade intendeva ricordare ed onorare le dieci Sephiroth della Qabalah. Infine, nel terzo periodo, cioè quello della redenzione, Dio si rivelerà con il nome a cinque lettere che si ottiene con l'aggiunta al Tetragrammaton di una shin significante il Logos (e quindi avremmo Yud-Hey-Vav-Shin-Hey e cioè Yehoshua o Gesù).
La sostanza divina nella sua assoluta unità, indicata con il nome proibito di Dio, a quattro lettere, diventa pronunciabile con il nome Jehova.
A questo punto, purtroppo, non mi resta che chiudere, senza spingere oltre le ricerche sull'influenza che la Qabalah ha esercitato nei secoli. Tuttavia, possiamo notare che la sua tendenza, i suoi simboli appaiono in modo talora evidente nelle dottrine e nel pensiero di molti uomini illustri non solo del `500, come, ad esempio, mi limito solo a citare, il tedesco Teofrasto Paracelso, l'italiano Gerolamo Cardano, l'olandese pannes Baptista van Helmont, l'inglese Robert Fludd e soprattutto il mistico tedesco Jacob Boehme, la cui dottrina è considerata dagli studiosi tedeschi come lo Zohar per la Qabalah.
Ma di là dagli elementi mistici, gli elementi metafisici della Qabalah appaiono in maniera ancora più decisa in personaggi come Giordano Bruno, Spinoza, Leibniz, Pascal, Milton, etc.
Secondo l'Enciclopedia Giudaica, Bruno ha desunto molte idee dalla Qabalah. In ogni modo le sue concezioni del mondo relative ad un'emanazione della monade divina, alla totalità o al Tutto che è insieme materiale e animato, alla presenza di Dio motore in ogni cosa, presentano aspetti che ricordano la Qabalah. L'onnipresenza di Dio, dove il tutto partecipa all'infinità divina, è proprio un'idea cabalista.
Il legame che collega Spinoza alla Qabalah è forse ancora più deciso, nonostante il fatto che egli ne parli in tono sprezzante nel suo Trattato teologico-politico. È pur vero, però, che Spinoza rifiuta l'eccesso di immaginazione, l'aspetto fantasioso e talora puerile della Qabalah specialmente pratica, ma molti elementi fondamentali della metafisica della Qabalah si avvicinano largamente alle sue idee.
Per finire, un rapidissimo accenno anche a Leibniz, che certamente studiò la Qabalah, da cui attinse l'idea, che fece propria, dell'uomo concepito come un piccolo mondo, un universo in compendio, insomma un microcosmo; né è estranea alla Qabalah l'idea del tutto continuamente creato e della sua conservazione, che è una "creazione continua", e senza dire della visione della monade come qualcosa di completo che contiene in sé tutto, così come ognuna delle Sephiroth, che pur essendo in sé definita e completa, si ricollega a tutte le altre, per costruire e reggere l'universo.
1- Sholem 1965.
2 - Di Nola, 1984: 97-103.
3 - Solo per completezza di esposizione, ma sostanzialmente rifiutandola, insieme ai maestri cabalisti, dovremmo far cenno della cosiddetta Qabalah pratica, e cioè quell'insieme di tecniche di magia operativa, di difesa, di offesa, di potenza, che risulta dall'applicazione per fini utilitaristici di principi di cabalismo teoretico, il quale ne esce assolutamente profanato.
4 - Per tutti: Sholem 1966 e dello stesso Autore 1965; Franck 1842; Serouya 1989.
5 - Busi 1989.
6 - Yates 1982.
7 - Bonfil 1991.
8 - Sholem 1982.
9 - Conclusiones cabalisticae numero XLVII secundum secretam doctrinam sampientum Haebreorum cabalistarum, quorum memoria sit semper in bonum.
10 - Conclusiones cabalisticae numero LXXI [sono però 72] secundum opinionem propriam, ex ipsis Hebraeorum sapientum fundamentis Christianam religionem maxime confirmantes.
Riferimenti bibliografici
Bonfil, R. (1991) Gli ebrei in Italia nell'epoca del Rinascimento. Sansoni, Firenze.
Busi, G. (1989) La Cabala. Edizioni Mediterranee, Roma.
Di Nola, A.M. (1984) Cabbala e Mistica Giudaica. Carocci, Roma.
Franck, A. (1842) La Kabbale. Parigi.
Serouya, H. (1989) La Cabala. Edizioni Mediterranee, Roma.
Sholem, G. (1965) Le grandi correnti della mistica ebraica. Il Saggiatore, Milano.
Sholem, G. (1982) La Cabala. Edizioni Mediterranee, Roma.
Yates, F. (1982) Cabbalà e occultismo nell'età elisabettiana. Einaudi, Torino.
_______________________________________
Questa pagina è stata letta |
| Volte |