Prima di dare inizio al seminario di quest’anno, e di dare la parola al coordinatore degli interventi che ringrazio per la puntuale organizzazione, vorrei spendere alcune parole chiarificatrici per coloro che si sono avvicinati da poco allo studio di questa particolare tradizione. Solamente comprendendo il metodo dell’insegnamento tradizionale ebraico è possibile avvicinarsi alla comprensione del messaggio profondo del giudaesimo e, nello stesso tempo, scoprire le affinità e i punti di contatto che lo legano al metodo usato in alcune delle nostre logge o, se mi è consentito, nell’intera Massoneria, anche se i componenti sono spesso inconsapevoli. Partiamo un po’ più da lontano. Vi è una celebre massima mišuica – ripetuta per secoli in innumerevoli testi cabalistici – nella quale il dissidio tra urgenza della ricerca spirituale e rischio che tale ricerca comporta, vibra acutamente: "Chiunque indaga quattro cose, meglio per lui (sarebbe) se non fosse venuto al mondo: ciò che è sopra, ciò che è sotto, ciò che è davanti e ciò che è dietro". Questa enigmatica frase della Mišuah pare costringere il lettore ad una assoluta immobilità e a scoraggiarlo dal proseguire ogni indagine, ma ha anche la solidità e l’efficacia di un programma empirico nel quale il paradosso sancisce il divario tra il significato apparente – "non è possibile alcuna conoscenza" – e il significato reale: "la vera conoscenza si estende a tutto l’uomo e a tutto il creato". Cosa sta al centro di questo spazio oltre al quale non si può andare? Tutto converge verso l’uomo e dall’uomo, con un doppio movimento: verso l’intimo del suo spirito e verso l’esterno del creato. Nella mistica ebraica, conoscere l’uomo e conoscere il creato significa celebrare la gloria del Dio d’Israele, che si dispiega nella creazione e ne pervade ogni suo aspetto. Ma significa anche arrestarsi davanti al limite dell’inconoscibilità di Dio. É in questo senso che si deve interpretare, dunque, la massima mišuica citata. Per sciogliere (decifrare) la cifra del cosmo, l’esoterismo ebraico si limita a scendere lungo le radici della propria cultura: poiché il segreto della creazione è rinchiuso nella Thorah, bisognerà volgersi ad essa per cercare l’intimo significato delle cose. Nella tradizione ebraica tutto questo ruota intorno al riferimento fisso rappresentato dalla Thorah. Traendo linfa vitale dall’interno stesso della materia scritturale, la mistica giudaica [e il senso della parola mistica ritrova la sua originaria ed etimologica connotazione do "dottrina del mistero" proprio nell’ambito di questa tradizione, e il mistero a cui si allude è quello occultato nella Thorah] si arricchisce di nuovi significati simbolici, ed è proprio l’armonia dei risultati a persuadere la conoscenza e a renderla possibile. Si tratta di un simbolismo che organizza il reale in una rete di analogie tanto stretta da poter catturare ogni accadimento. E senza la padronanza delle norme che regolano la grammatica simbolica, la comprensione della letteratura mistica è pertanto impensabile. L’individuazione dei principi che regolano la dinamica analogica, offre la chiave di lettura che può dirsi valida per tutte le opere cabalistiche, poiché il percorso simbolico è la strada che la dottrina segreta ebraica addita verso la conoscenza, che diviene in tal modo possibile e attingibile, una vera e propria empiria dell’anima. Ogni simbolo, ogni singolo anello della catena simbolica implica tutti gli altri, ed è sufficiente la menzione di un solo termine perché i rimanenti siano simultaneamente evocati e sottintesi. E questo è vero non solamente nella Qabalah o nella tradizione giudaica. L’intensificazione di un’idea, man mano che si sale, e che si passa dalla corporeità all’incorporeità, avviene in senso verticale. Ciascun grado dell’asse simbolico approfondisce progressivamente la medesima nozione, in modo da permettere al mistico di penetrare a poco a poco nel mistero della conoscenza. Il simbolismo è per la mistica un’esigenza primaria e irrinunciabile. É il solo sistema di pensiero – infatti – capace di penetrare, per via di intuizione, nel velo del mistero più profondo e nascosto, ed è al contempo uno strumento di comunicazione che permette di adeguare il messaggio al grado di conoscenza del destinatario. La natura peculiare della comunicazione simbolica è infatti di essere passibile di diversi gradi di interpretazione, a seconda del livello di colui che interroga il testo: una data espressione rimarrà muta davanti al neofita o gli comunicherà un messaggio debole; ma per colui che possiede la giusta chiave interpretativa e la corretta sensibilità, un solo accenno simbolico spalancherà tutto un mondo di analogie e di implicazioni, schiudendogli il senso profondo della ricerca interiore. Ivan Mosca era solito dire: "si vede quel che si sa". E veniamo finalmente a dominare il metodo. L’insegnamento tradizionale ebraico inizia con una metodica ripetizione dei versetti della Scrittura, che il bambino recitava ad alta voce affinché il suono penetrasse nella memoria e ne venisse assimilato. La guida paziente del maestro accompagnava il piccolo allievo – stiamo riferendoci ad un bambino di appena quattro o cinque anni – verso una comprensione innanzitutto intuitiva e sensibile della lingua sacra. Prima delle parole, talvolta, il bambino aveva imparato a conoscere i contorni misteriosi dell’alfabeto ebraico, assaporando le forme delle lettere cosparse di miele. Un testo medioevale (Machsoh Vitery…) narra infatti che "quando si avvia il proprio figlio allo studio della Thorah, si ritagliano nel legno le lettere; il bambino viene lavato e vestito accuratamente; una fanciulla impasta per lui tre dolcetti di farina fina e di miele, e gli vengono date tre uova bollite, mele e altri frutti… Gli si leggono poi le lettere dell’alfabeto. Si spalmano di miele le lettere ritagliate nel legno e gli si dice di leccarle". Queste strategie di apprendimento infantile muovevano dalla fondamentale convinzione che, coinvolgendo la percezione fisica, l’emotività e le facoltà prelogiche della conoscenza, s’instaurasse un legame più intuitivo e duraturo con la tradizione. Lo studio, inteso come ripetizione, avrebbe continuato a dominare l’intero "cursus" di acculturazione del giovane ebreo. Pronunciare, di nuovo, un versetto già ripetuto infinite volte, era una testimonianza di fedeltà, ma anche un gesto di innovazione, giacché quella frase risuonava in un assoluto presente, grazie ad un processo di restituzione del significato originale e di contemporanea produzione di un nuovo verso [ad ulteriore conferma di questo concetto, essenziale per il giudaesimo, si noti che la radice ebraica ‘snh’ (shin, un, he) significa tanto ripetere, quanto studiare, ma anche mutare, cambiare]. Sarà capitato un po’ a tutti di leggere un libro più volte: io ho inoltre l’abitudine di sottolineare i concetti che condivido con l’autore. L’educazione giudaica tradizionale comportava anche la suddivisione del testo in unità facilmente memorizzabili, in versetti, cioè, che potessero venir agevolmente ricordati e pronunciati in una sola emissione della voce. Un profondo legame univa il respiro e il senso, in quanto la cesura che divide i versi della Bibbia l’uno dall’altro (che si chiama "sof pasuq" in ebraico) segnava la pausa dopo l’espirazione. Con il "sof pasuq" per un attimo la continuità del discorso s’interrompeva e lo sforzo del leggere, del parlare e del comprendere trovava ristoro. Questo ritmo di lettura rifletteva, d’altra parte, la struttura profonda del testo sacro, poiché i versetti che venivano studiati come compiute unità significative, erano stati pensati fin dall’origine come frammenti autonomi di realtà: gli autori biblici si erano infatti costantemente sforzati di racchiudere, entro il breve spazio di una frase, un messaggio definitivo. Questo fenomeno di autosufficienza espressiva è particolarmente evidente nei salmi, dove ogni versetto rappresenta un mondo a sé; ma anche nelle parti in prosa il discorso procede per giustapposizioni, in cui frasi di pochissime parole si succedono senza sottintesi a una rigida gerarchia di strutturazione retorica. É ciò credo debba rifarsi alle formule proprie delle tradizioni orali, dove poche frasi, facili da ricordare, dovevano contenere un insegnamento fondamentale ed essenziale. L’intera vicenda dell’esegesi giudaica è permeata dall’esigenza della comprensione del testo sacro, ma anche da un senso profondo di limitatezza e precarietà. La lunga opera di rielaborazione a cui fu sottoposto il dettato biblico, nei secoli successivi alla chiusura del canone, in età tardoantica, sembrò prediligere un approccio, per così dire, frammentario alla scrittura, poiché i maestri ebrei tralasciarono le considerazioni sul senso generale e si concentrarono sulle unità elementari del discorso. Anziché muovere dal significato generale verso il particolare dell’analisi delle singole emanazioni, gli interpreti procedettero di particolare in particolare, portando così alla luce la struttura profonda delle opere bibliche. Come se la forza di persuasione di un testo, per gli interpreti rabbinici, non fosse data dalla somma delle sue parti, ma potesse essere attinta incontaminata, solo mettendo a fuoco in ogni dettaglio l’equilibrio che regola le parole e i suoni di un singolo verso. É questo forse l’aspetto più moderno di un metodo esegetico che risale almeno agli inizi dell’era volgare. Tale procedere dissolveva la continuità del discorso a favore della ricerca di una chiave ermeneutica che dischiudesse il senso ulteriore risposto dietro alle parole. Il solo modo di intuire il vero significato di quelle parole impervie, divenne la rinuncia, ovvero il rifiuto, di sostituire alla consapevolezza della precarietà di ogni nozione umana una serie di enunciati lineari e senza incertezze. L’esegesi fu dunque, nella concezione giudaica, una ricerca in quanto ebbe come scopo il ritrovamento di un significato già contenuto nel testo – deposito della Sapienza divina sin dall’inizio dei tempi – che doveva essere riportato in superficie e liberato dal velame che lo aveva reso a lungo invisibile. L’esegesi procedette attraverso l’individuazione di centri simbolici rappresentati da parole chiave che, grazie alla loro pregnanza espressiva, rappresentarono autentiche icone del pensiero, cioè immagini verbali esprimenti un contenuto simbolico; parole simbolo con una costellazione di sensi pressoché infinita. Si seguì di preferenza la linea che congiunge le ricorrenze di un termine, nella convinzione che il ripetersi di una parola non fosse mai casuale, ma dovuto ad una precisa intuizione, e che ciascuna delle attestazioni servisse a chiarire quelle precedenti (ma anche le rarefazioni dovevano risultare eloquenti, caricando di stupore per un incontro inaspettato). Poiché i ventiquattro libri della Bibbia ebraica venivano considerati sostanzialmente come una struttura circolare, ciascuna parola ricorrente fu valutata senza alcuna preoccupazione per il variare degli stili e per la stratificazione cronologica dei diversi contesti. L’uso di una stessa parola implicava l’esistenza di una sinergia profonda tra ambiti espressivi a prima vista contrastanti e creava un continuum nel quale i singoli episodi potevano essere evocati simultaneamente. La cultura rabbinica tese cioè a costruire uno sfondo metastorico, sul quale alcuni modi simbolici potessero stagliarsi con evidenza, catturati in una loro pregnanza priva di determinazioni temporali. I maestri ebrei avevano scelto il simbolo poiché esso permetteva loro di rendere attuale l’insegnamento della tradizione senza che, tra passato e presente, si mostrasse alcuna frattura insanabile ma, piuttosto, i nuovi significati si depositassero su quelli più antichi, in una tenace ricerca del vero. |