Nel secolo XII le comunità giudaiche erano ancora così fiorenti e importanti nella città di Otranto e nella terra che da essa prendeva il nome, che tra gli Ebrei d’Europa si andava ripetendo: “Da Bari viene la scienza, da Otranto la parola di Dio”. Secondo le Cronache di Achimaaz di Oria, che vanno dall’850 al 1054, gli insediamenti giudaici del Mezzogiorno avrebbero avuto origine dai prigionieri di guerra deportati dalla Palestina al tempo di Tito (cioè a partire dal 70 d.C.). Queste Cronache, preziose testimonianze della vita degli Ebrei nei secoli IX-XI, giunte fino a noi grazie a un esemplare miracolosamente conservato nella Cattedrale di Toledo, in Spagna, racconta che Oria, oggi in provincia di Brindisi ma allora in Terra d’Otranto, era la sede principale degli Ebrei pugliesi, vero centro di irradiazione dello studio della Legge e del culto mosaico per tutto il Sud d’Italia. Sinagoghe erano presenti a Oria, Bari, Lecce, Brindisi, Taranto, Otranto, Venosa, Gallipoli, Nardò e Ostuni. Ma, fra tutte, spiccavano per valore culturale e religioso le Accademie Talmudiche di Venosa, Bari, Otranto e della stessa Oria, famosa per il contributo dato alla poesia religiosa, specialmente nel secolo X, con gli inni di Amilthai ben Shefatyah pregni delle idee e dello stile della mistica della Maase Merkabà.[1] In Oria, al tempo di Amilthai e dei suoi discendenti, si diffuse e piantò salde radici la misteriosa dottrina di Ahron di Baghdad, uno dei più famosi santi mistici della Mesopotamia. Secondo Rabbi Stefatyah, figlio di Achimaaz, anch’egli poeta, astrologo e medico che aveva fama di taumaturgo, a Oria il culto giudaico aveva una posizione di privilegio eccezionale rispetto a qualsiasi altra zona vicina e lontana. Difatti, prevalentemente, gli Ebrei erano “affidati”, cioè soggetti privi di una completa capacità giuridica di agire, che, per ottenere una particolare tuitio, o protezione, si mettevano sotto la potestà del principe o signore locale pagando una commendatio.[2] In tutti i principali centri della Puglia sorgevano i quartieri ebraici, detti come a Venezia “giudecca” (le cui tracce nei monumenti, come nelle consuetudini popolari sono ancora vive). Questi “affidati” furono attratti dalla produttività della regione e dalla possibilità di traffici fra le zone costiere e fra i maggiori porti e il Levante. Verso i Giudei, in quanto stranieri, esisteva una naturale diffidenza alimentata di volta in volta dalla Chiesa per motivi religiosi, da Fiorentini e Veneziani per ragioni di concorrenza nel commercio e nell’esercizio dell’usura. Gli Ebrei, difatti, esercitavano il mestiere di tintori o, non potendo possedere proprietà terriere, investivano i loro capitali nella mercatura e nel credito. Anzi, per quest’ultima attività, avevano una funzione calmieratrice nei confronti degli esosi Veneziani e Fiorentini. Tuttavia, tra una persecuzione e l’altra, spesso rivolte a impadronirsi dei loro beni, i giudei trovarono modo di inserirsi nelle città pugliesi come “cetadini”, come “christiani novelli” o “marrani” (cioè falsamente convertiti). Oria [3], oltre al cronista Achimaaz, diede i natali a un altro insigne studioso, Shabbathai Donnolo, medico, astrologo, astronomo e commentatore religioso. Di lui, nato nel 913 e morto dopo il 982, si sa che, catturato dai pirati musulmani, venne riscattato dai suoi parenti a Otranto e lì visse per qualche tempo. “Egli – ha scritto Giovanni Guerrieri – fu il primo ebreo di Europa che si fece conoscere per le sue attività di scrittore, e scrittore di mente filosofica, come mostrano le sue opere di medicina e il suo commento alle parole del Genesi: “Facciamo l’Uomo a nostra immagine” , e al “Libro della Creazione” (il Sepher Yetzirah) dove si palesano le sue cognizioni linguistiche e grammaticali”, e altre opere di astronomia e farmacologia. In questa sede ci interessa soprattutto il sapere mistico di Shabbathai Donnolo e questo doveva essere rilevantissimo nella formazione culturale della sua epoca (egli riprende i temi dell’altro grande filone della mistica ebraica, la Maase Bereshit, o “opera della Creazione”) e per la successiva nascita nella Renania e nella Foresta Nera del movimento degli Hassidim [4], i “Pii”. Ma a questo punto, prima di continuare, occorre sapere di più sulla terminologia esoterica ebraica. L’Opera del Trono e quella della CreazioneLa Maase Merkabà, detta anche “Mistica del Carro” o “del Trono”, è fondata sulla lettura del primo capitolo di Ezechiele, nel quale “l’aspetto della somiglianza della gloria del Signore” si rivela al Profeta in forma di splendore, al di sopra di un carro cosmico, guidato da Hayoth, creature viventi o animali, che irraggiano la luminosità della presenza. A questi accenni della Dottrina del Carro, come punto di contatto tra mondo umano e mondo divino, si diede grande impulso nei primi tre secoli della nostra era, sostituendo a poco a poco al concetto di carro quello del trono (nei trattati dei Piccoli Heikhaloth e Grandi Heikhaloth), e descrivendo l’ascesa alla sfera del divino in termini di viaggio e di passaggio dello spirito mistico attraverso sette stadi di illuminazione conoscitiva. Ogni Stadio è rappresentato da un Palazzo (Heikhaloth significa, appunto, i Palazzi) e vi sono prove iniziatiche di passaggio da un Palazzo all’altro, con gerarchie angeliche e demoniache da convincere o vincere per passare. La mèta finale è il settimo Palazzo, cioè quello del Trono che è da considerarsi “il massimo piano accessibile di conoscenza”, come ha scritto Di Nola. In sintesi, l’Opera del Trono ha come finalità una presa di contatto col divino che presenta caratteri sciamanici (invasamento, estasi, viaggio, raggiungimento del nido delle anime) senza adeguamento conoscitivo del praticante con la realtà a cui ha accesso. La Via del Trono è insomma un annullamento del piano umano, attraverso l’acquisizione di una nuova struttura animica e spirituale che investe l’uomo nella sua tonalità dandogli anche dei riflessi fisiologici: la capacità di irradiare luce, la levitazione, l’apparizione di oggetti, in particolare di cibo, come la biblica manna. Maase Bereshit, l’Opera della Creazione, è la seconda disciplina occulta della quale ci dà testimonianza il Talmud. Insieme all’Opera del Trono consente di entrare nel Pardes, il Paradiso o Giardino, i cui sentieri portano il mistico nel mistero di Dio. Questa Opera, al pari dell’altra, comporta dei rischi per l’iniziato: quattro sono i dottori che penetrarono nel Giardino, ma Ben Azai fu colto da morte, Bem Zoma divenne pazzo, Elisha Ben Abuyah scivolò nell’eresia, e soltanto Rabbì Akibà (il maestro mistico di cui parla il Talmud, vissuto nel secondo secolo della nostra era) ne uscì illeso avendo rinunciato probabilmente alla conoscenza. La differenza tra la Via del Trono e quella della Creazione è che quest’ultima corrisponde a una inclinazione razionale e speculativa, pur essendo una via mistica operativa che comportava l’appropriazione del mistero della Parola Creatrice: Bereshit [5] è difatti la prima parola del Genesi. Attraverso la Parola è stato creato il Mondo, e i seguaci della Maase Bereshit sostenevano che quand’anche la Parola primigenia fosse al limite inconoscibile all’uomo, potevano essere invece conosciute e possedute le dieci principali ipostasi della Parola: Saggezza, Intelligenza, Conoscenza, Potenza, Voce, Forza, Giustizia, Diritto, Grazia e Misericordia. E se il Creatore formò il Primo Uomo raccogliendo la polvere dalla quattro direzioni del mondo, polvere rossa, nera, bianca e verde, impastate e animate dal Soffio, era forse possibile al Santo ripetere la “Creazione” – e non suoni come eresia – a patto di conoscere la Parola animatrice e suscitatrice di Vita. Da questo contesto sono nate le leggende del Golem [6] sulla cui fronte era scritta la parola EMET (verità) che serviva ad animarne l’argilla di cui era formato, e poi bastava cancellarne l’iniziale, ottenendo la parola MET (morte) che serviva a disattivarlo. Da qui sono nate le leggende dei vari homuncoli, riprese da Paracelso, da Enrico Cornelio Agrippa di Nettesheinm e, all’inizio di questo secolo, dallo scrittore Gustav Meyrink che aveva molti legami con gli ambienti ebraici e occultistici di Praga. Qui il limite tra magia “bianca”, cioè rivolta al bene, o “nera”, cioè rivolta al male, si fa tanto sottile da consentire pericolosi sconfinamenti. Non è difficile vedere in queste operazioni il comune legame “imitativo” delle cerimonie magiche di tutti i tempi e paesi, dal bacino del Mediterraneo all’Africa, alla Polinesia. È come se esistesse un nucleo “aureo” di Saggezza primordiale trasmesso di generazione in generazione con un grado crescente di storpiature, di corruzione nell’utilizzo pratico, di applicazioni che possono scadere al livello di stregoneria. La differenza sostanziale è nella purezza dell’operatore e dei materiali usati, oltre che nell’intenzione e nella proiezione verso il Bene o verso il Male, verso l’alto mondo dello Spirito o verso il basso mondo della Materia e delle sue “scorie” (dette qeliphot nella dottrina ebraica). La Cosmogonia del Sepher YetzirahNaturalmente, qualsiasi applicazione pratica (nel contesto ebraico o in qualsiasi altra cultura) comporta una serie di conoscenze teoriche e speculative di non facile acquisizione che vanno dalla teologia alla cosmogonia, alla teleologia. Ma è certo che nel fertile humus dei Giudei pugliesi in costante contatto con gli altri centri della Diaspora queste conoscenze erano ben note e anzi portate avanti in maniera originale e quale contributo di arricchimento per tutta la dottrina ebraica in generale. Difatti lo stesso Shabatay Donnolo ha scritto nel 946 un importante commentario mistico sul Sepher Yetzirah, il “Libro della Creazione” o “Libro della Formazione”, redatto fra il II e il VI secolo e contenente – insieme con il Sepher ha Zohar, il “Libro dello Splendore” redatto nel XIII secolo e attribuito a Mosè de Leon – la base per ogni futuro sviluppo della mistica e dell’esoterismo ebraici. Il Sepher Yetzirah, ha scritto il massimo studioso di mistica ebraica, il prof. Gershom Scholem, morto nel 1982 in Israele, è un volume assai breve, conta al massimo 1.600 parole e rappresenta il primo tentativo di un’opera speculativa scritta in ebraico. “Questo libretto tratta degli elementi del mondo – prosegue Scholem -, come tali indica i dieci numeri primordiali, chiamati Sephiroth [7] , e le ventidue lettere [8] dell’afabeto ebraico. Questi rappresentano le forze segrete dal cui scontro nascono le diverse combinazioni che hanno dato luogo alla Creazione; sono le “trentadue vie segrete della saggezza”, grazie alle quali Dio ha prodotto tutto ciò che esiste”. La magia popolare ebraica Anche se non è pensabile che tali idee filosofiche fossero molto diffuse nel popolo minuto, è certo che l’elaborazione degli elementi astrologici, magici e occultistici, ha avuto larga diffusione e risonanza nella vita e nelle credenze popolari ebraiche come attestano i numerosi trattati di “ricette” e “pratiche segrete” che vanno sotto i titoli di “La Spada di Mosè”, il “Testamento” e le “Clavicole di Salomone”, il “Libro di Raziel”, e lo “Shimmusè Tefillim”, che letteralmente significa “uso magico dei Salmi”. Insomma, dalla “Spada” costituita dal Nome di Dio che esercita la sua protezione su chi la porta e a cui tutti gli angeli e demoni sono costretti a obbedire, fino ai formulari magici da scrivere su pergamene o su amuleti da portare indosso o apporre agli stipiti delle porte come portafortuna o come semplice benedizione, il passo è breve verso forme magiche superstiziose o tipiche del folklore delle nostre campagne anche in quest’epoca post-industriale. Nell’etnia degli Ebrei della Diaspora queste conoscenze e applicazioni sono state sempre presenti e, come hanno ampiamente provato gli studiosi di psicologia dei gruppi, lo “stress” da ghettizzazione o da periodi di tolleranza alternati a periodi di persecuzione (proprio a Lecce, durante la Quaresima, nel Medioevo gli Ebrei erano sottoposti a divieti alimentari e di circolazione e dovevano andare in giro con un segno rotondo di panno dapprima rosso e poi giallo cucito sugli abiti all’altezza del petto) può produrre una specie di fenomenologie diametralmente opposte solo in apparenza. La prima è la sindrome che possiamo definire tipica del sant’uomo, la seconda è affine a quella della “Jenny dei pirati”di Brecht ma con una dimensione superstiziosa e occultistica di ricerca dei poteri magici. Del resto, la Bibbia stessa parla di tali pratiche e non sempre per condannarle, come in Deuteronomio 18,9 e nel Primo Libro di Samuele, al cap. 28. Quest’ultimo parla addirittura della divinazione mediante “Urim e Tummim”, cioè per mezzo del pettorale del Gran Sacerdote [9]. Da questi mezzi “classici”, legati alla cultura religiosa, sono derivati i “sottoprodotti” che ancor oggi con pochi ammodernamenti è possibile ritrovare nei “bazaar” magico-occultistici delle principali città italiane e straniere: i “grimori”, infarciti di ricette “per spandere il terrore”, “per provocare un’epidemia” (come se ce ne fosse bisogno), “se sei nella mani di un nemico e vuole ucciderti”, “se vedi un re o governante e vuoi che ti sia favorevole”, “per aumentare la memoria o farla sparire a un nemico”, “per guarire un uomo da un incantamento o da uno spirito maligno”. Ecco perché questo tipo di ricerche possono avere una loro attualità come momento educativo “laico”, senza alcun preconcetto antireligioso che porterebbe a travisare la reale portata di esperienze spirituali innegabili quanto difficilmente spiegabili. L’origine pugliese dell’Hassidismo Mentre nei centri ebraici del Mediterraneo erano vivi e ricchi i temi talmudici tradizionali non esenti dagli influssi dell’aristotelismo e del platonismo, oltre che del pitagorismo e della gnosi, sia pure con diverse “contaminazioni” di carattere superstizioso, nel resto dell’Europa e, in particolare, in Germania e nella Francia del Nord l’ebraismo si tenne lontano nel IX e X secolo sia da problemi teologici e filosofici sia dall’introduzione di nuovi valori e idee nella concezione di Dio, nell’antropologia, nella cosmologia e nell’etica. Certo, un simile ambiente “chiuso” non fu del tutto immune alle correnti aristoteliche arabizzanti che attraversavano l’Europa e ponevano per tutte le religioni il problema della conciliazione tra ragione e fede. Tuttavia, in Germania avevano maggiore eco le interpretazioni razionalizzanti della fede mosaica con la diffusione dell’opera di Saadia (che fu “gaon” di Soura dal 928 al 942 ed è considerato il primo filosofo di teologia del Medioevo), e più tardi di Abraham ibn Dawud (morto verso il 1180) e di Maimonide (1135-1204), i quali, come ha scritto Di Nola, “ponendo il lume razionale, corroborato dalla rivelazione, al centro di ogni esperienza religiosa”, inaugurano quel “gusto della definizione logica e della dialettica che, pochi decenni dopo, il tomismo introdurrà nel verbo cristiano”. Verso il finire del secolo X, dal ramo di Oria, collegato come abbiamo fin qui visto a tutte le comunità giudaico-pugliesi, si stacca un gruppo di ebrei appartenenti alla famigli dei Kalonymus (abbreviato in Calò) e si trasferisce dapprima a Lucca e, di lì, a Magonza e Spira dove trapianterà i semi di una cultura religiosa strettamente collegata all’ambiente orientale. Questo “piccolo esodo” non fu certo per ottenere migliori condizioni di vita: anzi, vista la relativa tranquillità goduta in Puglia e l’immunità completa in Oria, il trasferimento in Renania equivalse a un cadere “dalla padella alla brace”, come le migrazioni suicide dei “lemming”. Prima ancora del 1094, cioè prima che Goffredo di Buglione giurasse di sterminare “il seme giudaico per vendicare il sangue di Cristo”, gli Ebrei di Germania erano appena tollerati e di tanto in tanto perseguitati. Niente al confronto, tuttavia, degli eccidi perpetrati a Metz, Spira, Magonza e Colonia, dal 1096 in poi, da parte dei reduci della Prima Crociata, nonostante l’opposizione dei vescovi a simili violenze. In questo ambiente e grazie ai Kalonymus di Oria nacque il movimento mistico-religioso degli Hassidim, cioè “Pii” o “Devoti”, che ebbe il periodo di massimo fulgore tra il 1150 e il 1250 e influenzò l’intera comunità ebraica della Germani fino al XVII secolo cioè fino a quando si manifestò l’influsso della cosiddetta “tarda” Qabalah rielaborata in Palestina, a Safed. Benché nato da un gruppo di aristocrazia intellettuale come reazione al razionalismo della fede oltre che per riattingere alla mistica della Merkabà e del Berechit, nonché come espressione del profondo disagio sociale in cui si erano venute a trovare le comunità renane a causa della persecuzione dei Crociati, l’Hassidismo non fu un movimento isolato, ma come ha rilevato Scholem, “esso fu strettamente legato alla vita e agli interessi religiosi di tutto il popolo, e fu riconosciuto come il rappresentante di un ebraismo ideale anche là dove i suoi principi non furono mai completamente messi in pratica”. “In questa atmosfera di tragiche memorie e di odi presenti – ha aggiunto Di Nola – l’Hassidismo riflette la condizione di prostrazione dei gruppi sopravvissuti che reagiscono attraverso una tipica fuga mistica fuori dal mondo, e ricercano, nella tradizione magica, i mezzi per soddisfare la loro legittima sete di vendetta e potenza…Al centro della religiosità hassidica si profila, tuttavia, un ideale santità, la hassiduth, pietà, devozione, come fatto tipico, e, in certa misura, nuovo, che presenta i fondamentali caratteri della santità di tipo yogico. L’hassid, con una pessimistica valutazione di ogni giustizia umana, sperimentata troppo spesso nella sua parzialità e insufficienza, aspira a un isolamento che ricorda l’atarassia cinico-stoica e il monachesimo cristiano”. La rinuncia al mondo, i digiuni, la castità (contrastante con la valutazione positiva del sesso nell’ebraismo) e le tecniche della preghiera a cui si riconosce un valore automatico di potenza consentono agli hassidim l’unione mistica con la gloria di Dio, secondo modalità affini a quelle già viste per la Maase Merkabà. Il “pio” tende a tuffarsi nella gloria divina, a esserne sommerso in un processo unitivo ed estatico che, visto dall’esterno, è simile all’invasamento sciamanico e riverbera di poteri taumaturgici, di poteri magici, di doti di chiaroveggenza e di visione di quanto normalmente è inconoscibile. Pur seguendo un modello di devozione e di prassi virtuosa che quasi disdegna la conoscenza razionale, i mistici dell’Hassidirmo hanno tuttavia fatto progressi da gigante, rispetto ai loro predecessori, negli aspetti creazionistici tipici della Maase Bereshit soprattutto per quanto riguarda il Golem, anche se non tutti gli studiosi ritengono che la creazione del Golem fosse una operazione concreta [10]. Il Golem potrebbe allora essere una proiezione esterna, in forma eterea, una materializzazione del “doppio” o del “corpo sottile” del devoto che sta sperimentando la sua unione mistica. Simili esperienze sono d’altronde note nello yoga come “esteriorizzazione” del guru invisibile e del “maestro interiore”. Se tale ipotesi è giusta, tuttavia, si accrediterebbe ancor di più l’importanza dell’Hassidismo sia nella storia comparata delle religioni, sia nella moderna parapsicologia che ha il torto di voler indagare “a freddo” su fenomenologie personali sì, ma ripetibili e, perciò, universali, qualora si rispettino certi parametri interiori ed esteriori normalmente trascurati dai ricercatori . In attesa, però, che venga inventata una “nuova scienza psico-fisica” che spieghi in un contesto unitario la magia, la religione, la mistica e l’occultismo, ci conviene tornare al nostro tema. Alla famiglia dei Kalonymus di Oria appartengono i principali esponenti dell’Hassidismo tedesco: Samuele he-Hassid, figlio di Kalonymus di Spira, vissuto intorno alla metà del XII secolo; suo figlio Yehuda he-Hassid di Worms, morto a Ratisbona nel 1217, scrisse un’opera di mistica già quasi cabbalistica a sfondo astrologico, il Gematrion, e sistemò il testo principale dell’Hassidismo, il Sepher Hassidim cioè il “Libro dei Pii”, che è una raccolta di sentenze ascetiche e mistiche mescolate con elementi di fede popolare giudaico-tedesca. Discepolo e parente di Yehuda, è Eleazar ben Yehuda ben Kalonymus di Worms, più semplicemente noto come Eleazar di Worms, del quale abbiamo già accennato, che si interessò di astrologia e magia e fu un vero precursore della Qabalah in quanto, sotto l’influsso delle opere di Isacco il Cieco (delle comunità ebraiche della Provenza), applicò la numerologia alle permutazioni delle lettere dell’alfabeto. Scrisse, fra l’altro, il Sepher ha-Habod, il Sepher ha-Hokman sui nomi degli angeli e sulle 72 Porte della Torah, il Sepher ha-Shem, sul nome divino di 22 lettere, lo Eser Shemot sul tetragramma sacro Iod-He-Vau-He (il nome del Signore che gli Ebrei possono pronunciare soltanto in particolari condizioni rituali) e commentari al Sepher Yetzirah e al Pentateuco. Occorre a questo punto precisare che il termine “Qabalah” (dal verbo ebraico qibbel, ricevere, ma usato nel senso di “trasmissione” e poi di “tradizione”) cominciò ad apparire sul finire del secolo XII in Provenza, nella Francia settentrionale e in Spagna. Si distingue anche una Qabalah antica, fiorita in Catalogna, a Gerona, dopo l’espulsione degli Ebrei dalla Spagna (1492), e una seconda Qabalah, quella palestinese di Safed, diffusasi nelle comunità mediterranee e in Germania dal XVI al XVIII secolo. “Nella Qabalah antica – ha scritto Di Nola – è possibile distinguere due fondamentali correnti: una tendenza estatico-profetica, che ha il suo principale rappresentante in Abulafià; e una tendenza teosofico-speculativa, che trova la sua espressione massima nel Sepher ha-Zohar. A questi due indirizzi, che spesso interferiscono tra loro, si affiancano minori sistemi e varianti ideologiche, e si sovrappone la cosiddetta Qabalah pratica, ossia l’insieme delle tecniche di magia operativa di difesa, di offesa e di potenza, risultanti dall’applicazione utilitaria e profanante dei principi del cabbalismo teoretico, e, come tali, decisamente respinte e condannate dai maestri cabalisti”. Non è difficile ipotizzare forti legami tra scuole esoteriche in generale, Hassidismo e Qabbalismo anche in epoche in cui la circolazione di uomini e di idee era estremamente difficoltosa. E come è storicamente provata la migrazione dei Kalonymus dalla Terra d’Otranto in Germania per la trasmissione di un sapere nato in Palestina, così è ovvio che in Puglia siano affluite di prima mano o “di ritorno” dottrine teoriche e pratiche rilevanti per la cultura religiosa non solo ebraica [11]. Da Oria alla Renania: i “perché” di un esodoResta ancora da capire – e non è facile – perché gli Ebrei pugliesi della famiglia dei Kalonymus o Calò abbiano lasciato la fiorente comunità di Oria sul finire del X secolo. Le fonti tacciono a riguardo e si possono formulare soltanto ipotesi che hanno un grado decrescente di fondatezza e di razionalità fino al limite del leggendario e del misterioso. Ipotesi storiche – L’esodo dei Calò dapprima a Lucca e poi nella Renania poteva far parte di un progetto politico studiato dalle più importanti comunità giudaiche della Diaspora al fine di difendere gli interessi e la sopravvivenza stessa del popolo di Israele. Senza voler fare della fantastoria, con la proclamazione del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica (962) sotto il regno di Ottone I il Grande, la Chiesa si trovò per la prima volta in posizione di inferiorità rispetto all’Impero. Ottone aveva sposato una Edith (forse di origine ebrea) e mirò alla conquista pacifica dell’Italia Meridionale facendo sposare la figlia dell’Imperatore d’Oriente, Teofania, al proprio figlio Ottone. Questi, divenuto Imperatore con il nome di Ottone II, si volse alla conquista con le armi dell’Italia Meridionale nel 982. Gli Ebrei di Terra d’Otranto si trovarono perciò in mezzo alla mischia: da un lato le forze imperiali e dall’altro i Bizantini, i Musulmani e i duchi Longobardi (di Benevento) coalizzati a comune difesa. Nulla vieta di pensare, perciò, che i Calò siano andati in Germania come ambasciatori della causa e della cultura d’Israele nelle terre dell’Impero che godeva di una vasta “rifioritura” anche economica. Ipotesi leggendarie – Queste ipotesi traggono origine dalla paura del “Mille e non più Mille” e dalle “frottole” messe in giro dal Robertson nella sua introduzione alla “Storia di Carlo V”, secondo cui nell’imminenza dell’anno Mille le popolazioni d’Europa attendessero la fine del mondo, sempre più imbarbarite e atterrite. Gli Ebrei, per il cui calendario il Mille era semplicemente l’anno 4760, non avevano nulla da temere da presunte apocalissi anche perché non si aveva notizia dell’apparizione del “loro” Messia. E’ perciò presumibile che i Calò siano andati in Germania per tranquillizzare la Casa di Sassonia e averne in cambio qualche beneficio una volta che si fosse verificata la validità della loro teoria sulla continuazione del mondo. Fatto sta che la più antica sinagoga di Worms fu finita di costruire nel 1034, cioè 10 anni dopo la fine della Casa di Sassonia con la morta di Enrico II il Santo. Ma non è neanche da escludere che i tre imperatori Ottone o lo stesso Enrico abbiano avuto per gli studiosi ebrei la stessa considerazione di Carlomagno, soprattutto per avvalersi del loro aiuto nella stesura di un miglior testo della Bibbia. Ipotesi fantastiche – I Calò possono essere partiti dal Tavoliere delle Puglie per il Tavolato Renano in base a un responso di tipo oracolare, o astrologico o mantico [12]. Nulla vieta di credere che l’esodo dei Kalonymus sia stato dettato, cioè, dall’interpretazione profetica od onirica di qualche dotto o santo della comunità di Oria. A meno che, come sostiene un’altra teoria che al momento non è corretto svelare (perché non ancora pubblicata), i Calò non siano andati in Germania per salvarsi dalle calamità naturali e dalle pestilenze che hanno effettivamente prostrato l’Europa qualche tempo prima dell’anno Mille. Secondo questa teoria, una delle “isole” (“arche”) di salvezza note ai soli iniziati di varie fedi sarebbe stata ubicata della Valle del Reno, o, meglio, nelle alture della Foresta Nera.
[1] Uno studio approfondito sullo sviluppo della tradizione cabbalistica in Puglia è stato pubblicato dall’autore il 24 dicembre 1983 in un grande inserto sulla presenza degli Ebrei in Puglia apparso sul “Quotidiano di Lecce, Brindisi, Taranto”. La ricerca traeva spunto, quanto a fonti bibliografiche, da tre opere fondamentali in questo settore e cioè: Gli Ebrei a Brindisi e a Lecce, di Giovanni Guerrieri, Fratelli Bocca, Milano 1900; Magia e Qabalah nell’Ebraismo Medioevale di Alfonso Nola, Editrice S.T.E.M., Napoli 1964; Le Grandi Correnti della Mistica Ebraica, di Gershom Scholem, Casa Editrice Saggiatore, Milano 1965. In una bibliografia “essenziale”, tuttavia, non ci si può esimere dal citare L’Eredità di Israele di Autori Vari, a cura di I. Abrahams, Edwin R. Bevan, Charles Singer, pubblicato dalla Casa Editrice Francesco Vallardi di Milano, nel 1960. [2] La leggenda vuole che tale posizione privilegiata fosse stata ottenuta proprio da Rabbi Stefatyah, il quale, in occasione di una vasta persecuzione ordinata da Basilio il Macedone in tutto l’Impero, riuscendo a curare l’Imperatore da un malanno che gli altri medici, cristiani e musulmani, non erano riusciti a guarire, ottenne nell’868 da Basilio un “crisobulo” che stabiliva di “permettere e rispettare” in Oria l’esercizio del culto giudaico. [3] Oria torna spesso nella trattazione delle comunità giudaiche in Puglia: forse per la radice del suo nome che vuol dire “sorgere” ed è legato a un fonema che significa “luce”. “Oria fuma e Francavilla guarda”: così si diceva fino a qualche anno fa per segnalare la natura vulcanica del luogo e quindi la sua potenzialità magica. Certe cose non accadevano per caso: le case degli ebrei della zona erano quasi tutte orientate verso il Monte Sion (Cfr. Salmo 133); quando ciò non era possibile, le stanze principali (pranzo e letto) avevano un preciso orientamento rituale. [4] L’Hassidismo medievale qui trattato non ha alcun rapporto, se non di nome, con l’Hassidismo del XVIII secolo, fiorito fra numerosi Ebrei sparsi tra i fiumi Oder e Dniestr, in Podolia, Galizia e Ucraina, e che ebbe i suoi maggiori esponenti in: Israel Baal Shem Tov (il “Signore del Santo Nome”), Levi Isaac di Berditchev, Rabbì Beer, Rabbì Yacov Isaac (il “Visionario di Lublino”), Moshé Leiv di Sassov e altri ancora. Tuttavia, i tratti comuni fra i due movimenti hassidici sono molti. Anche quelli del Settecento sono “pii” o “devoti” e in molti casi “santi” nel vero senso della parola. Essi erano ritenuti in grado di dialogare con Dio, intercedere per gli umili e i sofferenti, guarire le malattie. Questi santi uomini non si illusero però mai di essere dei “Messia” ed ebbero molto a cuore la salvezza e l’integrità collettiva di Israele, e il loro messaggio fa parte, pur tra alterne fortune, della religiosità ebraica anche ai nostri giorni, grazie soprattutto agli sforzi dello scrittore Eli Wiesel. Per sapere di più, si consulti “La Via del Chassidismo” di Arnold Mandel (Longanesi, Milano 1965). [5] Bereshit significa “In principio”, o “Al principio”, o “Nel principio”, eccetera, con differenze di implicazioni religiose, filosofiche e magiche su cui, secondo quanto scriveva il grande rabbino Benamozegh di Livorno nel secolo scorso, sono stati scritti migliaia di trattati. [6] Il Golem non ha il dono della parola ed è la forza bruta, cioè materia informe ed embrionale, organizzata per opera di magia, o per arte “demoniaca”, che può essere utile come un servitore, un automa, un robot ante litteram dalla forza smisurata che può rivolgersi anche contro l’incauto manipolatore. Le sue membra, ogni parte del suo corpo, sono analogicamente legate al corpo del suo creatore e seguono con una serie di similitudini e di parole magiche la creazione dell’Adamo Primigenio da parte di Dio. Ogni lettera delle 22 dell’alfabeto ebraico deve essere collocata nella giusta posizione e nella corretta sequenza di un rigoroso rituale. Il minimo errore comporta la paralisi, la bruciatura, la morte dell’incauto operatore. [7] Le Sephiroth rappresentano il momento della Creazione in cui vengono costituiti ex nihilo e mediante la Parola-Ruah i tre elementi fondamentali (Fuoco, Acqua, Aria), che formano e plasmano il Quaternario, cioè lo Spazio-Tempo, il Cosmo, la “Terra”, e le sei direzioni dello spazio tridimensionale (ultime sei Sephiroth) [8] La seconda fase della Creazione, quella in cui vengono poste in essere le realtà individuate di natura, è fondata sulle lettere dell’alfabeto: le “Tre Madri”, alef, mem e scin, ossia le forze plasmatrici che contengono i “semi” di tutte le altre lettere e cose successivamente create; le “Sette Doppie”, beth, ghimel, daleth, kaf, pe, resc, tau ossia il settenario assunto come ritmo creativo dei sette pianeti, sette cieli, sette giorni della settimana, sette terre, sette orifizi del volto umano “a immagine e somiglianza di Dio”; le “Dodici Semplici”, he , vau, zayin, heth, teth, yod, lamed, nun, samec, ayin, tzadé, qof, ossia i 12 segni zodiacali, quali regolatori del ritmo temporale e archetipi collegati a 12 modalità dell’essere. Ogni lettera ha un preciso significato nell’uomo, nel mondo delle stelle e dei pianeti, e nel ritmico flusso dell’anno. [9] Oltre a “Urim e Tummim”, altri oggetti di natura magica protettiva e oracolare sono avvolti in un mistero che ha resistito agli sforzi di tutti gli studiosi: i Terafim, termine che secondo le varie fonti (di epoca diversa e perciò spesso in contraddizione fra loro) indicava gli “spiriti familiari” o statuine o idoli usati per la magia divinatoria o per riti di fecondità agraria e umana. Questi Terafim, definiti in un alcuni passi biblici “abominio e iniquità” hanno dato origine a una delle spiegazioni leggendarie della “testa parlante dei Templari”. [10] Gerschom Scholem, per esempio, è propenso a credere che Eleazar di Worms (Magonza 1176 – Worms 1238), il massimo esponente dell’Hassidismo, nel suo commentario al Sepher Yetzirah, parlando del Golem, alludesse a un’esperienza estatica e non certo a una produzione di homuncoli, più o meno mobili ma privi dell’anima razionale. [11] Del resto è un fatto che il grande cabalista Abulafià trascorse un decennio in viaggi attraverso l’Italia e la Grecia, (dal 1260 al 1270, e non poteva che far scalo a Brindisi, a Otranto o a Gallipoli) e poi peregrinò nel Sud dell’Italia tra il 1280 e il 1291 fino a proclamarsi “Messia” in Sicilia tanto che fu espulso dalle comunità ebraiche. [12] Un documento latino del X secolo, chiamato “Matematica Alcandrii” (dove Alcandrius è una forma distorta di Alessanro), contiene un sistema astrologico fondato sui valori numerici delle lettere dell’alfabeto ebraico e parla anche di “segreti” tipici della sapienza rabbinica di combinare le lettere per formare parole simboliche. Sempre della stessa epoca, benché raccolti per iscritto attorno al 1200 da Iaqov Ha-levì di Margève, sono i “Responsi del Cielo” che contengono sentenze su questioni controverse della legge rabbinica rivelate come risposte a “domande fatte in sogno” dai Signori del sogno, secondo una pratica magica straordinariamente diffusa e di sicura provenienza dalla comunità di Oria, che a sua volta l’aveva ricevuta da Babilonia. |