I cabalisti usano due criteri per parlare di Dio che non fanno, in ogni caso, alcun torto all’unità del loro pensiero. Quando cercano di definirlo, in altre parole caratterizzano i suoi attributi, e vogliano, quindi, offrirci un’idea precisa della sua natura, il loro linguaggio è quello della metafisica; esso si articola con chiarezza su tali elementi ed il linguaggio d’esposizione è scorrevole. A volte, però, si limitano a rappresentare la Divinità come l’ente che bisogna rinunciare interamente a comprendere, estraneo ad ogni forma di cui la nostra immaginazione ama rivestirlo. In quest’ultimo caso, tutte le loro espressioni sono poetiche e figurate. Accade allora che, grazie proprio alla stessa immaginazione si oppongono all’immaginazione; in questo caso, tutti i loro sforzi tendono a distruggerne l’antropomorfismo, e riconoscendogli delle proporzioni gigantesche, costringono lo spirito stupito, che non trova così più nessun termine di paragone, ad appoggiarsi sull’idea dell’infinito. Il Libro del Mistero è interamente scritto in questo stile; purtroppo le allegorie che utilizza sono troppo spesso degli enigmi, per questo preferiamo, al fine di confermare ciò che abbiamo appena detto, citare un passo
dell’Idra Rabba.
Shimon ben Jochai ha appena riunito i suoi discepoli. Ha detto loro che è giunto il tempo di lavorare per il Signore, in altre parole di fare conoscere il vero senso della legge, che i giorni dell’uomo sono contati, che gli operai sono poco numerosi, e la voce del creditore (la voce del Signore) è sempre più pressante. Ha fatto loro giurare di non profanare i misteri che andava a confidar loro, poi, sedendosi tra loro in un campo, all’ombra degli alberi, si mostrò pronto a parlare nel silenzio dei suoi discepoli. "Improvvisamente si udì una voce, ed i loro ginocchi tremarono per lo spavento. Di chi era questa voce? Era la voce dell’Assemblea Celeste che si riuniva per ascoltare. Rabbi Shimon, pieno di gioia pronunciò queste parole: Signore, non dirò, come uno dei tuoi profeti quando udì la voce, sono dominato dallo spavento. Non è più il tempo del timore, ma quello dell’amore, così com’è scritto: amerai l’eterno tuo Dio".
Dopo quest’introduzione che non difetta né di ostentazione ma neanche di qualità, segue una lunga descrizione, interamente allegorica, sulle dimensioni divine.
"È l’Antico degli Antichi, il mistero dei misteri, l’ignoto degli ignoti. Ha una forma che gli appartiene, poiché ci appare come l’Antico per eccellenza, come l’Antico degli Antichi, quanto di più sconosciuto tra gli ignoti. Ma, sotto questa forma che lo fa conoscere, resta tuttavia l’ignoto. Il suo vestito sembra bianco, ed il suo aspetto è splendente. É seduto su di un trono di baleni che sottomette alla sua volontà. La bianca luce della sua testa illumina quattrocentomila mondi. Quattrocentomila mondi nati da questa bianca luce sono l’eredità dei Tsaddîqîm (Giusti) nella vita a venire. Ogni giorno vede sorgere dal suo cervello tredicimila miriadi di mondi che ricevono da lui esistenza, e di cui sopporta da solo tutto il peso. Dalla sua testa scende una rugiada che ridesta i morti e li richiama ad una nuova vita. Per questo è scritto: la tua rugiada è una rugiada di luce, è lei il cibo dei santi dell’ordine più elevato. È la manna che si prepara ai Tsaddîqîm (Giusti) per la vita a venire. Scende nel campo dai frutti sacri. L’aspetto di questa rugiada è bianco come il diamante il cui colore presenta tutti i colori... La lunghezza di questo Viso, dalla cima della testa, è di trecentosessanta e dieci volte diecimila mondi. Si chiama il Lungo Viso; perché tale è il nome dell’Antico degli Antichi".
Mancheremmo tuttavia alla verità se lasciassimo supporre che il resto deve essere giudicato su questo esempio. La bizzarria, l’affettazione e l’abitudine così comune in Oriente, di abusare dell’allegoria fino alla sofisticheria, occupano più spazio della nobiltà e la grandezza. Così, questa testa abbagliante di luce per la quale si rappresenta l’eterno focolare dell’esistenza e della scienza, diviene, in qualche modo, l’argomento di uno studio anatomico; né la fronte, né la faccia, né gli occhi, né il cervello, né i capelli, né la barba, niente è dimenticato; tutto diventa un’opportunità per enunciare dei numeri e delle proporzioni che ricordano l’indeterminato. È evidentemente questo modo di presentare la divinità, che ha promosso, contro i cabalisti, l’accusa di antropomorfismo e quella di materialismo, avanzata da alcuni scrittori moderni.
Ma né questa accusa, né la forma che ne è il pretesto, meritano il nostro tempo. Andiamo, invece, a tradurre alcuni passi in cui lo stesso argomento è trattato con una terminologia più interessante sia per la filosofia sia per la storia dell’intelligenza umana. Il primo che citeremo costituisce un tutt’uno abbastanza esteso. Con il pretesto di fare conoscere il vero significato di queste parole di Isaia: "A cosa potrete paragonarmi che mi sia uguale" ci spiega la generazione delle dieci Sephiroth, o principali attributi di Dio e la natura stessa della divinità, quando ancora si occultava nella sua sostanza.
"Prima ancora di avere creato forma in questo mondo; prima di aver prodotto immagini, era solo, senza forma, non somigliando a niente. E chi potrebbe concepirlo com’era allora, prima della creazione, considerato che non aveva forma? Ecco perché è proibito rappresentarlo con qualche immagine e con qualsiasi forma, persino rappresentarlo con il suo santo nome o con una sola lettera o con un punto. Tale è il senso di queste parole: non avete visto nessuna figura il giorno in cui l’eterno vi ha parlato; in altre parole, non avete visto nessuna cosa che possiate rappresentare con una forma o con un’immagine. Ma dopo avere prodotto la forma dell’Uomo Celeste, \da halu, se ne servì come un carro, hbkrm, Mercaba, per scendere. Volle, allora, essere chiamato con questa forma, che è il santo nome di Yhvh. Volle farsi conoscere tramite i suoi attributi; da ciascun attributo separatamente e si fece chiamare Dio di grazia, Dio di giustizia, Dio onnipotente, Dio degli eserciti, e Sono chi sono. Il suo scopo era di fare comprendere le sue qualità e come la sua giustizia e la sua misericordia si distendessero sul mondo e sulle opere degli uomini. Se non avesse sparso le sue luci su tutte le sue creature, come faremmo a conoscerlo? Come potremmo sostenere che l’universo è colmo della sua gloria? Sventura a chi osasse paragonarlo anche ad uno dei suoi attributi! Bisogna formularlo al di sopra di tutte le creature e di tutti gli attributi. Ora, quando è libero da queste cose, non c’é più né attributo, né immagine, né figura e ciò che resta è simile al mare; giacché le acque del mare sono per se stesse senza limite e senza forma; ma quando si spargono sulla terra, allora producono un’immagine,]wymd, e ci permettono di fare il calcolo che segue. La sorgente delle acque del mare e il getto che ne fuoriesce per spargersi sul suolo contano due. Poi si forma un bacino immenso, come quando si scava una vasta profondità; questo bacino è riempito dalle acque uscite dalla sorgente, è il mare stesso e deve essere contato come terzo. Ora, questo immenso bacino si divide in sette canali simili ad altrettanti lunghi vasi in cui fluisce l’acqua del mare. La sorgente, la corrente, il mare ed i sette canali formano insieme il numero dieci. Se l’operaio che ha costruito questi vasi decidesse di romperli, le acque tornerebbero alla loro sorgente e resterebbero soltanto dei cocci, sterili e senza acqua. Proprio in questo modo la Causa delle Cause ha prodotto le dieci Sephiroth. La Corona, è la sorgente di dove sgorga una luce senza fine e di là viene il nome dell’Infinito,]ya [ws,
Aïn Soph, questo per indicare che la Causa Prima non ha, in questo stato, né forma né figura. Non esiste allora nessun mezzo per comprenderla, nessun modo per conoscerla; è con riferimento a tutto ciò che è stato detto: non meditare su cose che sono al di sopra di te. In seguito si forma un vaso tanto ristretto da contenere appena un punto o una lettera, ma nel quale, tuttavia, penetra la luce divina, è la sorgente della Saggezza, grazie alla quale la Causa Suprema si fa chiamare, Dio saggio. In seguito costruisce un vaso immenso come il mare, chiamato Intelligenza: di là deriva il titolo, Dio intelligente. Sappiamo, tuttavia, che Dio è Intelligente e Saggio per sua natura; giacché la saggezza non merita questo nome per se stessa, ma a causa di Lui che è saggio e la produce dalla sua luce; e l’intelligenza non è tale per se stessa, ma grazie a Lui che è l’essere intelligente e la riempie della propria sostanza. Dovrebbe soltanto ritirarsi per lasciarla interamente inaridita. In tal senso bisogna intendere le parole: le acque si sono ritirate dal mare, ed il letto del fiume è diventato secco ed arido. Infine, il mare si divide in sette rami, ecco che emergono i sette preziosi vasi che si chiamano, Misericordia o Grandezza, Giustizia o Forza, Bellezza, Trionfo, Gloria, il Regno ed il Fondamento. Per questo è chiamato, Grande o Misericordioso, Forte, Magnifico, Dio delle Vittorie, il Creatore cui ogni gloria appartiene e il Fondamento di ogni cosa. È quest’ultimo attributo che sostiene tutti gli altri, come anche la totalità dei mondi. È infine, anche il Re dell’universo; giacché tutto è in suo potere, sia voglia diminuire il numero dei vasi ed aumentare la luce che ne sgorga, sia fare il contrario, se questo gli sembra più opportuno".
Tutto ciò che i cabalisti hanno pensato della natura divina è pressoché riassunto in questo brano. É inverosimile, in ogni modo, che non lasci del confuso, anche negli spiriti più familiarizzati con le domande ed i sistemi metafisici.
Comprendiamo che occorrerebbe, da una parte, un approfondimento abbastanza ampio; dall’altro, al contrario, sarebbe utile presentare, sotto una forma contemporaneamente più sostanziale e precisa, ciascuno dei principi che sono stati enunciati. Per raggiungere questo doppio scopo senza compromettere la verità storica, senza avere il timore di sostituire il nostro pensiero a quello di cui vogliamo essere lo strumento, ridurremo il passaggio appena letto, in un piccolo numero di proposizioni fondamentali, di cui ciascuna sarà chiarita e giustificata da altri brani dello
Zohar.
1° - Dio è, prima di ogni cosa, l’essere infinito; non è possibile, conseguentemente, considerarlo né come l’insieme degli esseri, né come la somma dei propri attributi. Ma senza questi attributi e gli effetti che ne derivano, in altre parole senza una forma determinata, è impossibile comprenderlo o conoscerlo. Questo principio è enunciato abbastanza chiaramente quando si afferma che "prima della creazione Dio era senza forma, non somigliando a niente e che, in questo stato, nessuna intelligenza può concepirlo". Non volendo limitarci, però, a questa unica asserzione, speriamo che lo stesso pensiero non sia difficile da riconoscere nelle seguenti parole: "Prima che Dio si fosse manifestato, quando ogni cosa era nascosta ancora in lui, era il meno conosciuto tra tutti gli sconosciuti. In questa condizione non potrebbe avere altro nome se non quello dell’interrogazione. Cominciò con il formare un punto impercettibile, questo fu il suo pensiero; poi edificò con questo punto una forma misteriosa e santa; infine, la ricoprì di un vestito ricco e splendente, intendiamo l’universo il cui il nome entra necessariamente in quello di Dio".
Ecco quanto si legge
nell’ldra Zouta (la Piccola assemblea) di cui abbiamo più di una volta segnalata l’importanza: "L’antico degli antichi è, al contempo, l’ignoto degli ignoti; si separa da tutto e, tuttavia, non ne è separato; giacché tutto si raccoglie in Lui, come Lui, a sua volta, si raccoglie in ogni cosa; non c’è niente che sia al di fuori. Ha una forma, e ,tuttavia, si può affermare che non ne ha. Prendendo una forma, ha dato l’esistenza a tutto ciò che è; inizialmente ha fatto sgorgare del suo seno dieci luci che brillano grazie alla forma che hanno preso in prestito da lui, e spargono ovunque un giorno abbagliante, è simile ad un faro che diffonde da ogni parte i suoi raggi luminosi. L’antico degli antichi, l’ignoto degli ignoti, è un faro elevato, che si intuisce soltanto grazie alle luci che brillano ai nostri occhi con grande splendore. Quanto si indica con il suo Santo Nome, altro non sono che queste luci".
2° - Le dieci Sephiroth tramite le quali l’essere infinito si fa inizialmente conoscere, altro non sono che gli attributi, i quali, per loro stessi, non hanno nessuna realtà sostanziale. In ciascuno di questi attributi, la sostanza divina è presente interamente e nel loro insieme costituiscono la prima, la più completa e la più elevata di tutte le manifestazioni divine.
Tale sostanza è chiamata "uomo primitivo o celeste", halu \da ]wmdq \da, figura che domina il carro misterioso di Ezechiele e di cui l’uomo terrestre, come vedremo in seguito, è soltanto una pallida copia. "La forma dell’uomo, dice Shimon ben Jochai ai suoi discepoli, la forma dell’uomo racchiude tutto ciò che è nel cielo e sulla terra, gli esseri superiori come quelli inferiori. Per questo l’Antico degli Antichi l’ha scelta per la sua. Nessuna forma, nessun mondo poteva sussistere prima della forma umana; giacché essa racchiude ogni cosa e tutto ciò che è, sussiste grazie a lei. Senza di lei, non ci sarebbe mondo, ed è in questo senso che bisogna intendere queste parole: l’Eterno ha fondato la terra sulla saggezza. Occorre, in ogni modo, distinguere l’uomo superiore, alyuld \da, da quello inferiore, attld \da, perché l’uno non potrebbe esistere senza l’altro. Su questa forma dell’uomo riposa la perfezione della fede in tutte le cose; è di lei che si vuole parlare quando si afferma che si vedeva al di sopra del carro come la figura di un uomo; è sempre lei che Daniele ha indicato con queste parole: ed io vivo come il figlio dell’uomo che veniva con le nubi del cielo, che si avvicinò fino all’antico dei giorni, ed essi lo presentarono davanti a lui".
Così, l’uomo celeste o la prima manifestazione divina, altro non è che la forma assoluta di tutto ciò che è, là sorgente di tutte le altre forme, o piuttosto di tutte le idee; in una parola, il pensiero supremo, quello stesso che, altrove, è indicato come il Logos o il Verbo. Non pretendiamo esprimere qui una semplice congettura, ma un dato storico di cui si apprezzerà l’esattezza non appena si avrà una conoscenza più precisa di questo sistema. Tuttavia, prima di procedere, citeremo ancora queste parole: "La forma dell’Antico ( il suo nome sia santificato) è una forma unica che abbraccia tutte le forme. È la Saggezza suprema e misteriosa che racchiude tutto il resto".
3° - Le dieci Sephiroth, se crediamo agli autori dello Zohar, sono già indicate nel vecchio Testamento con altrettanti nomi particolari, consacrati a Dio. Si è voluto ritrovarli anche nella Mischna, allorquando riferisce che Dio ha creato il mondo con dieci parole (\lwuh arbn twrmam hrcub) o con altrettanti ordini emanati dal suo verbo sovrano. Sebbene tutti ugualmente necessari, gli attributi e le distinzioni che esprimono non possono farci comprendere la natura divina; la rappresentano, però, sotto diversi aspetti, i quali, nel linguaggio in uso tra i cabalisti, sono chiamati, Visi o Persone, ]ypwxrp ]ypna. Shimon ben Jochai ed i suoi discepoli fanno frequente uso di questa espressione metaforica; ma non ne abusano come invece hanno fatto i loro successori moderni. Ci fermeremo un poco su questo punto, senza dubbio il più importante di tutto l’insegnamento della Qabalah; e prima di determinare il carattere particolare di ciascuna delle Sephiroth, andiamo ad esaminare il problema generale della loro essenza. In poche parole esporremo le diverse opinioni che tale questione ha fatto nascere tra gli adepti della dottrina.
Tutti i cabalisti inizialmente si sono rivolti queste due domande: perché ci sono le Sephiroth? Che cosa sono le Sephiroth considerate nel loro insieme, sia in rapporto a se stesse, sia rispetto a Dio? Sulla prima domanda i testi dello Zohar sono troppo chiari perché diano adito ad ulteriori dubbi. Ci sono le Sephiroth perché ci sono i nomi di Dio, questi due elementi si confondono nello spirito, giacché le Sephiroth sono soltanto le idee e le cose espresse dai nomi. Ora, se Dio non può essere nominato, o meglio, se di tutti i nomi, nessuno indicasse una cosa reale, non solo saremmo impossibilitati a conoscerlo, ma non esisterebbe neanche per se stesso; giacché non può comprendersi senza intelligenza, né essere saggio senza saggezza, né agire senza potere. La seconda domanda non trova risposte univoche.
Alcuni, basandosi sul principio che Dio è immutabile, vedono nelle Sephiroth dei semplici strumenti del potere divino, delle creature di una natura superiore ma completamente distinte del primo Essere. Sono quelli che vorrebbero mettere d'accordo il linguaggio della Qabalah con la lettera della Legge. Altri, spingendo alle estreme conseguenze l’antico principio che nulla viene dal nulla, identificano interamente le dieci Sephiroth con la sostanza divina. Ciò che lo Zohar chiama Aïn Soph, vale a dire lo stesso infinito, è, ai loro occhi, l’insieme delle Sephiroth, niente di più, niente di meno; e ciascuna di loro è soltanto un punto di vista differente di questo stesso infinito così compreso. Tra queste due opinioni estreme, viene a collocarsi un sistema più profondo e più coerente all’insegnamento originale: senza considerare le Sephiroth come gli strumenti, come creature e conseguentemente come esseri distinti da Dio, non intende, tuttavia, neanche identificarli con Lui.
Ecco, brevemente, su quali idee riposa. Dio è presente nelle Sephiroth, diversamente non potrebbe rivelarsi tramite esse; ma non vi permane tutto intero; ma soltanto quanto si scopre di lui sotto queste forme sublimi del pensiero e dell’esistenza. Le Sephiroth, infatti, non possono comprendere mai l’infinito, Aïn Soph, che è la sorgente stessa di tutte queste forme, e che, in questa qualità, non ne ha nessuno o, per servirmi dei termini dedicati, mentre ogni Sephirâ ha un nome noto, egli solo non ha, e non può averne.
Dio resta dunque sempre l’essere ineffabile, incomprensibile, infinito, collocato sopra di tutti i mondi che ci rivelano la sua presenza, persino di quello dell’emanazione. Con ciò si pensa di evitare anche l’accusa di ignorare l’immutabilità divina: giacché le dieci Sephiroth possono essere paragonate ad altrettanti vasi dalle differenti forme o a dei bicchieri con sfumature di diversi colori. Qualunque sia il vaso con cui vogliamo misurarla, l’essenza assoluta delle cose è sempre la stessa; la luce divina, come la luce del sole non cambia natura a causa del mezzo che attraversa.
Aggiungiamo a questo, che tali vasi e mezzi hanno per se stessi, alcuna realtà concreta, nessuna esistenza che gli sia propria; rappresentano soltanto dei confini in cui la suprema essenza delle cose si è racchiusa, i differenti gradi di oscurità di cui la divina luce ha voluto velare la propria chiarezza infinita, per lasciarsi contemplare. Da tutto questo deriva che si è voluto riconoscere in ogni Sephirâ due elementi, o meglio due aspetti differenti: uno, puramente esterno, negativo, che rappresenta il corpo, il vaso propriamente detto (ylk); l’altro, interiore, positivo che raffigura lo spirito e la luce. É così che si è potuto parlare di vasi frantumati che hanno lasciato sfuggire la luce divina. Questo punto di vista, condiviso anche da
Isaac Louria e da Mosé Cordovero, esposto per altro da questo ultimo con logica rigorosa e precisa, è quello, ancora una volta, che crediamo storicamente esatto e sul quale ci appoggeremo con solida fiducia come base di tutta la parte metafisica del Qabalah. Dopo avere stabilito questo principio generale sull’autorità dei testi e quello dei commenti più stimati, occorre adesso presentare il ruolo particolare di ciascuna delle Sephiroth ed i diversi modi in cui si raggruppano, per trinità e per persone.
La prima e più elevata di tutte le manifestazioni divine, in una parola la prima Sephirâ, è la Corona, rtk, così chiamata in ragione stessa del posto che gli si riconosce, sopra di tutte le altre. "
È, dice il testo, il Principio di tutti i Principi, la Saggezza misteriosa, la corona di tutto ciò che vi è di più elevato, il diadema dei diademi".
Non è, però, questa totalità confusa, senza forma e senza nome, questo misterioso sconosciuto che ha preceduto ogni cosa, anche gli attributi, [ws ]ya. Essa rappresenta l’infinito, distinto dal finito; il suo nome nella Scrittura significa, SONO hyha, perché è l’essere in sé; l’essere considerato da un punto di vista in cui l’analisi non penetra, dove nessuna qualifica è ammessa, ma dove, in un punto indivisibile, entrambe sono riunite. È per questo motivo che si chiama, anche, il punto primitivo o per eccellenza hfwcp hdwqn hnwcar hdwqn.
"Quando l’ignoto degli ignoti volle manifestarsi, cominciò con il produrre un punto; fin quando questo punto luminoso rimase chiuso in Lui, l’infinito era ancora completamente ignorato e non diffondeva nessuna luce". È quanto i cabalisti moderni hanno spiegato con una concentrazione assoluta di Dio nella propria sostanza, \wxmx. È questa concentrazione che ha dato nascita allo spazio primitivo, rywa ]wmdq, che non è un vuoto reale, ma un certo grado di luce inferiore alla creazione. Proprio per questo, Dio, ritirato in se stesso, si distingue da tutto ciò che è finito, limitato e determinato; proprio per questo non si può dire ancora ciò che è, si indica con una parola che non distingue nessuna cosa, non-essere ]ya.
"Si chiama così, dice l’Idra Zouta,
perché non conosciamo, ed è impossibile conoscere ciò che c’è in questo principio; perché non scende mai fino alla nostra ignoranza e che è al di sopra della stessa Saggezza".
Non possiamo impedirci di fare notare che si ritrova la stessa idea e persino le stesse espressioni in uno dei più vasti e più celebri sistemi di metafisica di cui la nostra epoca possa gloriarsi. "Tutto inizia, dice Hegel, con l’essere puro, che è soltanto un pensiero interamente indeterminato, semplice ed immediato, giacché il vero principio non può essere altro.... Ma questo essere puro è soltanto la più pura astrazione; è un termine assolutamente negativo, che può anche, se si concepisce in una maniera immediata, essere chiamato non-essere".
Infine, per ritornare ai nostri cabalisti, la sola idea dell’essere o dell’assoluto, considerata del punto di vista che abbiamo appena considerato, costituisce una forma completa, o, per adoperare il termine dedicato, una Testa, un Viso; lo chiamano la Testa Bianca, acyr arwwj, perché tutti i colori, in altre parole tutte le nozioni, tutte i modi determinati sono fusi in lei, oppure l’Antico, perché è la prima delle Sephiroth. Soltanto, in questo ultimo caso, occorre prestare attenzione dal confonderla con l’Antico degli Antichi, in altre parole con Aïn Soph stesso, davanti al quale la sua splendente luce è soltanto tenebra. Generalmente si indica con il termine più generale di Grande Viso, \yypa ]yra, probabilmente perché rinchiude tutte le altre qualifiche, tutti gli attributi intellettuali e morali di cui si forma. "Il primo, afferma il testo,
è l’Antico, visto faccia a faccia, esso è la Testa Suprema, la sorgente di ogni luce, il principio di ogni saggezza, e non può essere indicato diversamente che tramite l’unità".
Del seno di questa unità assoluta, ma distinta dalla varietà e da ogni unità relativa, fluiscono simmetricamente due principi in apparenza opposti, ma in realtà inseparabili. Uno maschio o attivo, chiamato la Saggezza, hmkj; passivo o femminile l’altro, indicato da una parola che si ha costume di tradurre con Intelligenza, hnyb. "Tutto ciò che esiste, dice il testo,
tutto ciò che è stato formato dall’Antico, il cui nome sia santificato, può sussistere soltanto grazie ad un maschile e ad un femminile".
La saggezza è chiamata, anche, il padre; perché ha, si dice, generato ogni cosa. Tramite le trentadue meravigliose vie con cui si diffonde nell’universo, impone a tutto ciò che è, una forma ed una misura. L’intelligenza, "è la madre,come è scritto: chiamerai l’intelligenza con il nome di madre (Proverbi, II 3)".
Tuttavia, senza distruggere l’antitesi che si viene a determinare come la condizione generale dell’esistenza, si fa talvolta derivare il principio femminile o passivo da quello maschile. Dalla loro misteriosa ed eterna unione viene in essere un figlio che, secondo l’espressione originale, prendendo al tempo stesso i tratti del padre e quelli della madre, rende testimonianza ad entrambi. Questo figlio della Saggezza e dell’Intelligenza, chiamato anche, a causa della sua doppia eredità, il figlio primogenito di Dio, è la Conoscenza o la Scienza, tud. Queste tre persone rinchiudono e riuniscono tutto ciò che è stato e sarà; ma esse stesse sono, a loro volta, riunite nella Testa Bianca, nell’Antico degli Antichi, giacché tutto è lui, e lui è tutto. Si rappresenta ora con tre teste che ne formano una sola, a volte si paragona al cervello che, senza perdere la sua unità, si divide in tre parti, e, per mezzo di trentadue fasci di nervi, si diffonde in tutto il corpo, proprio come, con l’aiuto delle trentadue Vie della Saggezza, la Divinità si diffonde nell’universo. "L’Antico (sia santificato il suo nome) esiste con tre teste che ne formano una sola; e questa testa è quanto di più elevato esista tra le cose elevate. E giacché l’Antico (il nome sia benedetto!) è rappresentato con il numero tre, ]ydb tltb \ycrta acydq aqytud, tutte le altre luci che c’illuminano con i loro raggi (le altre Sephiroth) sono anche comprese nel numero tre".
Nel passo che segue, i termini di questa trinità sono un poco differenti; si vede raffigurare Aïn Soph stesso, ma non vi si ritrova, in compenso, l’Intelligenza, probabilmente perché è soltanto un riflesso, una certa espansione o divisione del Logos, di quello che qui è indicato come Saggezza. "Ci sono tre Teste scolpite una nell’altra e una al di sotto dell’altra. In questo numero, contiamo inizialmente la Saggezza misteriosa, la Saggezza nascosta e che non è mai senza velo. Questa Saggezza misteriosa, è il principio supremo di ogni Saggezza. Di sotto a questa prima Testa è l’Antico (sia santificato il suo nome), il più misterioso tra i misteri. Viene infine la Testa che domina tutte le altre; una testa che non è una. Quanto racchiude, nessuno lo sa né può saperlo; giacché sfugge contemporaneamente alla nostra scienza ed alla nostra ignoranza. Ecco perché l’Antico ( sia santificato il suo nome) è chiamato il non-essere".
Pertanto, unità nell’essere e trinità nelle manifestazioni intellettuali o nel pensiero, ecco esattamente a cosa si riduce tutto ciò che abbiamo appena detto.
Talvolta i termini, o se si vuole, le Persone di questa trinità sono rappresentate come tre fasi successive ed assolutamente necessarie nell’esistenza come nel pensiero, o, per servirci di un’espressione in uso in Germania, come un processo logico che costituisce nello stesso tempo la generazione del mondo. Non dubitiamo che qualche stupore possa emergere, soprattutto dopo aver letto le righe che seguono: "Venite e vedete, il Pensiero è il principio di tutto ciò che è; ma, in quanto Pensiero, è inizialmente ignorato e rinchiuso in se stesso. Quando il Pensiero comincia a diffondersi, giunge nel luogo in cui diviene lo Spirito: giunto a questo punto, prende il nome di Intelligenza e non è più, come prima, richiuso in se stesso. Lo spirito a sua volta si sviluppa nel seno stesso dei misteri di cui è ancora circondato, ed egli estrae una Voce che è la riunione di tutti i cori celesti; una Voce che si diffonde in parole distinte ed in parole articolate; giacché viene dello Spirito. Ma riflettendo a tutti questi gradi, si vede che il Pensiero, l’Intelligenza, questa Voce e questa Parola sono una sola cosa, che il Pensiero è il principio di tutto ciò che è, che nessuna interruzione può esistere in lui. Il Pensiero stesso si lega al non-essere e non se ne separa mai. Tale è il senso di queste parole: Yhvh è uno ed il suo nome è uno".
Ecco un altro passo dove si individua facilmente la stessa idea sotto una forma più originale e, secondo noi, più antica: "Il nome che significa SONO, hyha, indica la riunione di tutto ciò che è, il grado dove tutte le vie della Saggezza sono ancora nascoste e riunite insieme senza potere distinguersi le une dalle altre. Ma quando si stabilisce una linea di demarcazione; quando si vuole indicare la madre che porta nel suo seno ogni cosa e sul punto di metterle alla luce per rivelare il nome supremo, allora Dio dice di lui: IO SONO, hyha rca. Infine, quando tutto è ben formato ed uscito del seno materno, quando ogni cosa è al suo posto e si vuole indicare sia l’individuo sia l’esistenza, Dio si chiama Yhvh, o, IO SONO CHI SONO, hyha rca hyha. Tali sono i misteri del Santo Nome rivelato a Mosé, e di cui nessun altro uomo condivideva la conoscenza".
Il sistema dei cabalisti non riposa dunque semplicemente sul principio dell’emanazione o sull’unità di sostanza; essi si sono spinti oltre; come si consta, hanno insegnato una dottrina abbastanza simile a quella che i metafisici della Germania considerano oggi come la più grande gloria del nostro tempo, hanno creduto all’identità assoluta del pensiero e dell’esistenza; e di conseguenza il mondo, come vedremo in seguito, non poteva essere ai loro occhi che l’espressione delle idee o delle forme assolute dell’Intelligenza: in una parola, ci lasciano intravedere ciò che può la riunione di Platone e di Spinoza. Affinché non resti alcun dubbio su questo fatto importante, e per mostrare nello stesso tempo che i più istruiti tra i cabalisti moderni sono rimasti fedeli alle tradizioni delle origini, andiamo ad aggiungere ai testi che abbiamo tradotto dello Zohar un passo molto importante dei commenti di Cordovéro. "Le prime tre Sephiroth, vale a dire: la Corona, la Saggezza e l’Intelligenza devono essere considerate come una sola e identica cosa. La prima rappresenta la Conoscenza o la Scienza, la seconda chi Conosce, e la terza ciò che è Conosciuto. Per spiegare questa identità, bisogna sapere che la Scienza del creatore non è come quella delle creature; giacché, da queste ultime, la Scienza è distinta dal soggetto della Scienza e si esercita su degli oggetti che, a loro volta, si distinguono dal soggetto. È quanto si intende con questi tre termini: il pensiero, chi pensa e ciò che è pensato. Il creatore è, al contrario, contemporaneamente la Conoscenza, chi conosce e ciò che è conosciuto. Il suo modo di conoscere, infatti, non consiste nel dirigere il suo pensiero sulle cose che sono fuori di lui; è conoscendosi e sapendosi che conosce e vede tutto ciò che è. Niente esiste che non sia unito a lui e che non si trovi nella sua propria sostanza. È il tipo, swpd
tipus, di ogni essere e tutte le cose esistono in lui con le loro forme più pure e più complete; in modo tale che la perfezione delle creature è in questa esistenza stessa con la quale si trovano unite alla sorgente del loro essere, e come se ne allontanano, decadono da questo stato così perfetto e così sublime. É così che tutte le esistenze di questo mondo hanno la loro forma nelle Sephiroth, e le Sephiroth nella sorgente da cui emanano".
I sette attributi di cui ancora ci resta a parlare e che i cabalisti moderni hanno chiamato le Sephiroth di costruzione, ]ynbh twryps, probabilmente perché rispondono più direttamente all’edificazione del mondo, si sviluppano, come i precedenti, sotto forma di trinità in ciascuna dalle quali due estremi sono uniti da un termine medio. Dal seno del pensiero divino, giunto per se stesso alla sua più completa manifestazione, emergono inizialmente due principi opposti, uno attivo o maschile, l’altro femminile o passivo. Il carattere del primo si trova nella Grazia o nella Misericordia, dsj; il secondo è rappresentato dalla Giustizia, ]yd. Ma è facile intuire per il ruolo che svolgono nell’insieme del sistema che questa Grazia e questa Giustizia non devono essere prese alla lettera; si tratta piuttosto di ciò che chiameremmo l’estensione e la concentrazione della volontà. É dalla prima, infatti, che emergono le anime virili, e dalla seconda, quelle femminili. Questi due attributi sono anche chiamati le due Braccia della Divinità: uno elargisce la vita e l’altro la morte. Il mondo non potrebbe sussistere se rimanessero separati; ed è anche impossibile che si impieghino separatamente, perché, secondo l’espressione originale, non c’è Giustizia senza Grazia; così vanno a riunirsi in un centro comune che è la Bellezza, trapt, e il cui il simbolo materiale è il petto o il cuore.