Il Sepher yetzirah e il Pensiero Cabalista Il Sepher Yetzirah si ispira al Ma’aseh Berechith della tradizione talmudica essendo sostanzialmente un commento del I° capitolo del Genesi. Nel suo stile stringato ed essenziale, il Sepher Yetzirah costituisce però, al tempo stesso, il nucleo essenziale della Qabalah. Non c'è testo della complessa letteratura cabalistica, dal Sepher ha-Bahir al Sepher ha-Zohar e anche dopo, che non ne abbia ripreso i concetti sotto forma di commentari o di opere più originali. Ciò ha comportato spesso uno stravolgimento di senso, con interpolazioni dottrinarie suggerite dalle condizioni storiche e ambientali, senza riuscire, tuttavia, ad intaccare quello che ho chiamato il nucleo essenziale della Qabalah. D'altra parte, proprio guardando a questo nucleo e ai suoi svolgimenti più maturi contenuti nello Zohar, ci si accorge dell'infondatezza della tesi condivisa da autorevoli studiosi contemporanei quali, per esempio, Gershom Scholem e Isaia Tishby. La tesi è quella di una sostanziale ispirazione della Qabalah ora al pensiero mitopoietico degli gnostici ora al neoplatonismo, con conseguente allontanamento dalla più autentica tradizione ebraica, fondata sulla Thorah e sul Talmud. Esaminerò ora questo nucleo essenziale del Sepher Yetzirah o Libro della formazione senza tuttavia avere la pretesa di tentarne una trattazione ben più ampia di quella che ci si propone in tale contesto. L’Indicibile, colui del quale non è dato pronunciare il nome, neppure nella forma del tetragramma ha creato tutto con il numero, con la lettera e con la parola Egli ha innanzi tutto creato le condizioni del molteplice che si fonda sui primi dieci numeri. Sephiroth o numeri beli-mah cioè autosufficienti per produrre il molteplice e l'uno viene dall'altro ma è in sé autosufficiente. Il dieci è l'ultima delle condizioni possibili del molteplice. In realtà, tali condizioni sono già esaurite con il numero 9, il 10 altro non essendo che la riproposizione dell'unità colta non più come unità di misura - fonte di ogni possibile numero - bensì come la forma estrema in cui è dato cogliere il molteplice. Non a caso, nel 10, all'uno si affianca lo zero, cioè il termine delle possibili radici della molteplicità. D'altra parte, dopo il dieci noi possiamo seguitare a contare all'infinito, perché infinito è il molteplice, anche se le forme della manifestazione sono finite: i numeri che ci servono per contare all'infinito sono solo i primi dieci e nel numero 10, insieme alla riproposizione dell'unità, appare lo zero come nullificazione contingente dei fenomeni. Lo zero-nulla, dunque, non è il presupposto dell'esserci dell'Essere, perché, al contrario, è a partire dall'Essere che il nulla può manifestarsi, almeno a quanto è dato saperne. Se entro in una stanza e dico: Non c'è nessuno è perché mi aspetto di trovarvi delle presenze e, invece, proprio sullo sfondo di chi dovrebbe esserci, mi si manifesta la negazione come nullificazione contingente della presenza. In un certo senso, allora, il nulla è contenuto nell'essere come possibilità contingente del suo manifestarsi Quando parliamo del nulla, tuttavia, lo facciamo sempre con un doppio significato: il nulla come concetto metafisico e il nulla come esperienza sensibile dell'assenza, della mancanza, dell'annientamento. Di questo secondo nulla possiamo dire soltanto che esso rappresenta una breve interruzione del flusso dell'essere: quella stanza che ho trovato vuota, presto tornerà ad animarsi di presenze. Del primo nulla, il nulla metafisico, non siamo autorizzati a parlare, perché non ne sappiamo niente e, di tutto ciò che non si sa, conviene tacere - ammonisce Wittgenstein - Ecco, persino quando dico: del nulla non so niente, mi accorgo come il nulla si riveli alla superficie dell'essere: non so nulla, cioè, di ciò che dovrei sapere. A tale proposito molto chiaramente si esprime lo Yetzirah: E prima dell'uno che numero puoi tu contare? si domanda polemicamente ai presuntuoso lettore che intendesse iniziare a contare dallo zero. In conclusione, dunque, lo zero - nulla non è né fine né principio. In successivi testi cabalistici questo zero-nulla diviene l'Aïn di Aïn-Soph, concetto, questo spesso erroneamente assimilato all'apeìron di Anassimandro. In realtà, l'apeìron" del pensatore ionico è il senza-limite, dall'alfa privativo greco che indica la negazione, ed esprime il caos originario della materia, la mescolanza primigenia di tutte le cose. L'Aïn ebraico, composto dalle lettere Aleph Yud Nun, invece, non è privativo di qualità ma di luogo: Aïn-Soph indica perciò l'impossibilità di cogliere l'origine e il fine, oltre ciò che é manifesto (il fenomeno kantiano), e ha solo la funzione di far desistere il pensiero dalla pretesa prometeica di voler essere dappertutto e tutto risolvere in se stesso. Consulta a proposito di Aïn, nella sezione "Tavole Architettoniche" Il Non-Essere nella Tradizione Il Sepher Yetzirah esprime questo concetto in tre punti: Dieci sephiroth beli mah, la loro qualità è dieci e non hanno fine. Dieci sephiroth beli mah, il loro aspetto è l'aspetto della folgore e la loro direzione non ha fine. Dieci sephiroth beli mah, è insita la loro fine nel loro principio ed il loro principio nella loro fine. La successiva letteratura cabalistica ha finito col sostanzializzare questa semplice impossibilità logica di cogliere la fine e il principio. Così facendo, ha facilitato l'interpretazione dualistico-gnostica della Qabalah. Da una parte Aïn-Soph divenuto il Deus abscondidus, dall'altra il Demiurgo dell'universo. Così facendo, ha altresì reso possibile l'interpretazione neo-platonica del pensiero cabalistico: Aïn Soph è l'ineffabile Uno di Plotino e si svela mediante l'estasi o, meglio, si rivela a chi, librandosi sul fango della materia e ripercorrendo a ritroso il cammino emanativo, giunge infine a immedesimarsi con lui. Lo Scholem, al quale va peraltro riconosciuto gran merito negli studi cabalistici, ha oscillato tra le due, interpretazioni. Nello scritto del 1914, Le grandi correnti della mistica ebraica, identifica esplicitamente Aïn-Soph con il Dio nascosto. In Origini della Qabalah del '62, pur non tralasciando di sottolineare, soprattutto nell'analisi del Sepher ha-Bahir, le influenze gnostiche sul corpo della Qabalah, sembra inclinare verso un'interpretazione in chiave neoplatonica di Aïn-Soph. Se, nell'intento di verificare quel nucleo essenziale della Qabalah, di cui si parlava prima, esaminiamo ora lo Zohar, ci accorgiamo che il significato dato dallo Yetzirah a un concetto ancora embrionale di Aïn-Soph non risulta affatto stravolto, nel Libro dello splendore , ma, semmai, rafforzato: Aïn-Soph, infinito: in lui non c'è alcuna apertura, ogni interrogativo è vano, come ogni idea per le possibilità del Pensiero. Più avanti Aïn-Soph è detto chiusura inaccessibile e sconosciuta.... resiste ad ogni possibile conoscenza e non se ne può fare né una fine né un principio. C'è di più: non solo Aïn-Soph non è il principio, non lo è neanche l'uno. II principio è il due, come attesta la nostra esperienza, come sostenevano gli antichi pitagorici, com'è scritto nello Zohar: È scritto:In principio (Berechith), ma è la lettera beth che si trova all'inizio, ella che è il due, la seconda lettera dell'alfabeto. Perché il due è chiamato principio, allorché la Corona suprema (l'uno), benché sia la prima, si ritrae. Poiché ella non si mette in questione, è il due che è il principio. La spiegazione rimanda alle prime parole del Genesi, come chiarisce un altro passo dello Zohar: In principio. Rabbi Amnouna l'anziano disse: incontriamo nelle prime parole del Genesi una inversione nell'ordine alfabetico delle lettere: prima una beth seguita da un'altra beth in Berechith barah (In principio creò), poi soltanto un'aleph seguita da un'altra aleph in Élohïm eth (Il Signore). Il racconto del Rabbi Amnouna prosegue poi con la storia assai nota delle ventidue lettere che, cominciando dall'ultima, la tav, si presentano davanti al Signore per chiedergli di cominciare la creazione a partire da ognuna di loro. Il Signore, sottolineando vizi e virtù di ciascuna, le respinge benevolmente una dopo l'altra, finché non si presenta la beth, che viene, infine, prescelta per dare inizio alla creazione del mondo. Unica lettera a non presentarsi è aleph, allora il Signore così le si rivolge: Aleph, aleph perché non ti presenti davanti a me come tutte le altre lettere? La aleph rispose: Signore dell'universo, ho visto tutte le lettere comparirti davanti senza alcun risultato, dovrei fare anch'io la stessa cosa? ...Inoltre tu hai già accordato questo dono prezioso alla lettera beth e, certo, non conviene al Re supremo di ritirare il dono che ha appena fatto a un servitore per accordarlo a un altro servitore. Il Santo, baruk ha-shem, così le rispose: Aleph, aleph, anche se creerò il mondo con la lettera beth, tu sarai la prima di tutte le lettere dell'alfabeto. Io non avrò unità che in te, tu sarai il coronamento di tutti i disegni e di tutte le opere del mondo. Ogni unificazione risiederà unicamente nella lettera aleph. Per la versione completa del passo consultare nella sotto sezione Sepher ha-Zohar La lettera Creatrice La stessa narrazione si incontra in un altro testo della letteratura zoharica, il Midrash-ha Neelam su Ruth. Il racconto è più o meno lo stesso, più sintetico dell'altro ci permette, tuttavia, di apprendere altre qualità di ciascuna delle lettere dell'alfabeto sacro. Differisce solo nel finale, allorché il Signore dice ad aleph: ... attraverso te io mi esalterò quando il mio nome sarà reso con te, Uno. Dall'esame dei passi citati emergono due considerazioni essenziali. La prima è che in principio è il due. Non a caso, le lettere del tetragramma corrispondono rispettivamente alla seconda, alla terza, alla sesta e alla decima Sephirâ Yud H’ocmâ, il padre, Hé Binâ, la madre; vav Tiphereth, il figlio; seconda Hé Malcouth, la figlia o la sposa La seconda considerazione, di non minore importanza, è che l'uno in sé è Aïn nulla. Ciò che noi conosciamo, infatti, non è l'uno, ma l'unificato, il coronamento. L'estasi plotiniana che, di fatto, implica l'assimilazione nell'Uno è per principio fuori portata. Proprio perché in principio è il due, l'uno possiamo conoscerlo solo unificando la diarie. Tale unificazione è possibile mediante un elemento equilibratore di ciascun polo della diade: il tre, come ancora ci mostra un passo dello Zohar: Tre sorge dall'uno, l'uno nel tre prende consistenza: egli penetra in due e due abbevera l'uno, l'uno abbevera la molteplicità, allora tutto è uno. Com'è scritto: Fu sera, fu mattina, un solo giorno (Genesi I,1). Giorno, dove sera e mattina si abbracciano nell'unità: questo è il segreto dell'alleanza tra il giorno e la notte, e in lui tutto è uno. C'è ancora un altro segreto: in Binâ, la terza Sephirâ (il tre), che è composta dalle lettere Beth, Yud, Nun, Hé, c'è il principio (Beth), il padre (Yud), la madre (Hé). La lettera Nun, tra lo Yud e la Hé, rappresenta allora l'equilibrio tra i due, tra il padre e la madre, il maschio e la femmina. In conclusione, dunque, l'uno, per ciò che si rivela è due, per ciò che si conosce è tre, per ciò che si ritira è il nulla e si rivolge verso Aïn-Soph. In un commento del Sepher Yetzirah, Isacco il cieco, il grande maestro cabalista vissuto tra il XII e il XIII secolo, elimina Aïn-Soph da ogni speculazione del mistico e si rivolge verso la Corona o Kether, prima Sephirâ, che chiama Aïn-Soph e alla quale dichiara che intende abbeverarsi. In tal contesto, Aïn-Soph, lungi dall'essere il Deus abscondidus o l'Uno dell'estasi plotiniana, altro non è che la pensabilità della negazione della fine e del principio, una sorta di noumeno kantiano, come si diceva più avanti. Così, se l'uno, come tale, si ritrae, se non è possibile alcuna speculazione su Aïn-Soph, non resta che aspirare all'unificazione; cogliere, cioè, l'uno nella sola forma in cui si rivela, nell'unificato. Si comprende allora come l'unificazione più alta sia quella tra uomo e donna, la diade originaria, il principio. Si comprendono, altresì, nella tradizione ebraica, sacralità e fortuna dello Shir ha-Shirim o Cantico dei Cantici. Al di là delle molteplici chiavi interpretative del Cantico se utilizziamo il Pardès, otteniamo quattro possibili modalità di lettura di questo testo, con riferimento all'albero sephirotico, Peshat o interpretazione letterale, nella Qabalah è l'unione dell'uomo e della donna, del re e della regina (Tiphereth - Malcouth) mediante i tabernacoli, cioè mediante gli organi sessuali (Yesod); Remmèz o interpretazione allegorica, nella Qabalah è l'unione completa di Tiphereth e di Malcouth attraverso tutte le membra, cioè i cinque sephiroth del piano inferiore; Derash o interpretazione anagogica, nella Qabalah è l'elevarsi verso l'uno, mediante l'unificazione dei sephiroth del piano inferiore con Binâ e H’ocmâ, giungendo così alla conoscenza superiore di Daath. Perché questa elevazione si realizzi è però necessaria l'armonia tra i sephiroth del piano superiore e quelli del piano inferiore; Sod o interpretazione segreta, nella Qabalah è l'elevarsi nella direzione di Aïn-Soph tramite la triade superiore Binâ-H’ocmâ-Kether. Sod è segreto indicibile, proprio perché attiene ai rapporti di Binâ e di H’ocmâ con la Corona, con quell'uno che si ritrae in Aïn-Soph e si rivela in H’ocmâ, cioè nella diade come principio. Si legge, in un passo dello Zohar, a proposito dell'unione tra l'uomo e la donna: Qui la donna si unisce al suo sposo. E quando si siano stretti l'un l'altro in un abbraccio, allora bisogna che le loro membra siano aderenti e i loro tabernacoli congiunti, come se fossero uno, e che la loro comunione si diffonda in ogni parte di loro secondo il desiderio del cuore, per potersi elevare nella direzione di Aïn Soph, affinché tutto si unisca laggiù per fare di quelli dell'alto e di quelli del basso un desiderio solo. Cosa si intende con essere come uno e con elevarsi nella direzione di Aïn Soph? Essere come uno non significa divenire uni, bensì cogliersi nella diade originaria o principio. Elevarsi nella direzione di Aïn-Soph non significa la partecipazione mistica della medesimezza con l'uno, bensì l'intenzione verso quella trascendenza indicibile, pensabile solo come negazione del principio e della fine, allorché si realizzi l'uno nella sola forma possibile, quella dell'unificato. Si spiega, così, perché nel Sanhédrin talmudico è scritto che, colui che legge un versetto del Cantico dei Cantici e lo considera come un canto erotico, attira la sciagura sul mondo. Non perché lo Shir ha-Shirim non sia un canto d'amore, perché è anche altro, almeno che non ci si accontenti del solo senso letterale o scorza più superficiale. Sul Cantico dei Cantici consulta nella sezione "Tavole Architettoniche" Interpretazione Alchemica del Cantico Altrettanto errato è, d'altra parte, fare dell'unione tra l'uomo e la donna una sorta di ierogamia finalizzata alla dissoluzione della diade nell'androgino originario, archetipo antropomorfico dell'Uno-Dio. La sacralità dell'unione tra l'uomo e la donna è altrove, è nella riproposizione senza limiti del principio e della fine. Del principio che è due (il Berechith Bara Élohïm del Genesi) e della fine che, ogni volta, torna ad essere principio. Altrimenti detto, quando l'uomo e la donna si uniscono il principio e la fine sono sempre altrove, non dove ci aspetteremmo di trovarli, sono Aïn-Soph. La trascendenza è sempre al di là, come indicibile lontananza si offre alla Kavvanah (intenzione) e alla Devequth (comunione) attraverso l'unificazione dei sephiroth. Sulla Devequth consulta in questa stessa sezione La Devequth Tale unificazione è possibile sia mediante l'unione dell'uomo e della donna (Ma’aseh Merkavah), sia mediante la preghiera e la meditazione (Ma’ à seh Merkavah) In principio è il due: di qui derivano notevoli implicazioni di carattere ontologico, con rilevanti considerazioni anche sul piano storico-sociale. Se la donna è nel principio, come lo è l'uomo, non c'è nessun primato che l'uomo possa rivendicare sulla donna. Ne c'è, d'altra parte, un primato femminile come nei miti arcaici citati dal Bachofen a sostegno di un matriarcato originario. Perché, se è vero - come sostengono i testi cabalistici - che la donna è la sorgente del desiderio e permette di realizzare l'uno nella forma dell'unificato, è pur vero che occorre un desiderante che si abbeveri a quella sorgente affinché si realizzi la comunione e, con essa, quel desiderio del cuore che si eleva nella direzione di Aïn-Soph. A tale proposito gioverà ricordare come gran parte di miti che sanciscono il primato maschile, almeno in Occidente, siano di ispirazione gnostica e neoplatonica. La donna è mater, materia, matrice, porta dell'incarnazione e, dunque, oscuramento dello spirito. Su di lei grava tutta la responsabilità di quella identificazione (soma-sema), corpo = tomba, che, d'après Platone, è condivisa, con varie accentuazioni, da gnostici e neoplatonici e che, di certo, ha radici, almeno, orfico-pitagoriche. Di tutto ciò non v'é traccia nella Qabalah o, almeno, in quello che ho chiamato il suo nucleo essenziale. Nello stesso ebraismo, del resto, il primato dell'uomo manifesta apertamente motivazioni storico-sociali, dietro apparenti giustificazioni teologiche. Dall'identificazione della donna con la mater, materia, matrice, non potè non derivare una ulteriore identificazione quella della donna con il male. Qual è il pensiero della Qabalah sul male? Nel Sepher ha-Bahir è detto che il male viene dalla mano sinistra di Dio, e, altrove, che tutte le cose che vengono da sinistra sono dominate dall'impurità, secondo che è scritto: Il male viene da settentrione (Geremia 1-14); che dipende dalle emanazioni della sephira Guebourâ, oppure da tutti i sephiroth del ramo sinistro dell'albero o, ancora, che il male dipende dalla rottura dei vasi. Concezione, questa, assente nello Zohar e che si avvicina alla soluzione neoplatonica per ciò che fa delle scintille divine, disperse e degradate, la radice della materia e del male. Il Sepher Yetzirah, dopo aver parlato, nel primo capitolo, della creazione con i numeri, nel secondo capitolo affronta la questione della creazione con le lettere: le tre madri le sette doppie e le dodici semplici Con la prima delle lettere doppie, (la Beth) sembra introdotta la prima temurah o alternanza tra la vita e la morte. Con la morte è introdotta la radice stessa della corruzione e, dunque, del male. Secondo questa interpretazione, la concezione cabalistica si avvicinerebbe a quella degli Stoici per ciò che giustifica il male in funzione del bene, considerandoli entrambi necessari all'economia dell'universo. II seguente passo dello Zohar sembra confortare questa tesi: La luce e le tenebre si completano qui in basso, non vi è giorno senza notte, né notte senza giorno. A guardar bene, tuttavia, il pensiero cabalistico va ben oltre questa apparente dialettica. Non si tratta, infatti, di conciliare i termini antitetici, annullandoli in una sintesi degli opposti che cancelli la differenza, quanto, piuttosto, di farli coesistere nell'equilibrio della bilancia. Se, per esempio, consideriamo la quarta e quinta Sephirâ dell'albero, la grazia e il rigore; il male appare non solo dove c'è il rigore senza la grazia, ma anche dove c'è la grazia senza il rigore. Il male si rivela, allora, come egoismo e sbilanciamento, incapacità radicale di realizzare l'uno nella sola forma possibile che è quella dell'unificato.
Il lavoro che precede è uno studio condotto sul Sepher Yetzirah eseguito dal carissimo Fratello Sergio M. e pubblicato su "Il Confronto" Trimestrale del Centro per la Filosofia Italiana nel mese di Gennaio 1994. Ogni diritto gli è riconosciuto. La libera circolazione del presente elaborato in rete, è subordinata alla citazione della fonte (completa di Link) e dell'autore. Il Lavoro costituisce un opera della maestria del Fratello. Il suo contenuto non riflette di necessità la posizione della Loggia o del G.O.I. © Sergio M.
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