Questa meticolosa preparazione per provare che la via della colonna mediana è la sola possibilità di soluzione per la qabalah alchemica e che l’Opera vera e propria si elabora nella sephirâ Tiphereth, s’appoggiava costantemente ai metodi della qabalah sephirotica, per mezzo di dimostrazioni ghematriche particolari la cui frequenza caratterizzava piuttosto gli autori dei secoli sedicesimo e diciottesimo. La moda dei valori ridotti, vale a dire del metodo detto di Henoch, è inseparabile da una rinascita del pensiero pitagorico. Bisogna ricondurre ai soli numeri l’intelligibilità di ogni cosa e, in più, bisogna verificare la concordanza dell’osservazione della natura con la logica verbale della lingua sacra le cui parole si riducono a delle posizioni o configurazioni dei dieci primi numeri. Paradossalmente, il testo stesso per il quale questo preludio cabalistico fu orchestrato non fa alcuna allusione alla terminologia sephirotica e sembra essere indipendente dalle speculazioni della qabalah medievale. Si tratta di un testo breve, forse di un poema alchemico sulla contemplazione delle sette specie d’oro. La traduzione latina vuol restare nel quadro normativo degli altri paragrafi dei Loci Communes Cabbalistici ed impone un pesante guscio con numerazioni diverse, rinvii biblici, lettere maiuscole improvvisate, monotonia creata dal timore dei sinonimi. Il probabile carattere poetico dell’originale ebraico sparisce così quasi del tutto e questo è un fatto spiacevole, giacché in questo caso ci troviamo di fronte ad un brano fondamentale dell’alchimia giudaica. Prima di presentarlo e di commentarlo, dobbiamo richiamare alcune nozioni storiche. Verso il 605 a. c. il profeta Geremia aveva annunciato i settanta anni di esilio di Babilonia (Jer 25,11) ed aveva predetto anche la fine del regno dei caldei, di cui Dio stava per trasformare il reame in "eterne desolazioni". Ci sembra che non si insista a sufficienza sul fatto che gli esiliati, "i buoni fichi" (Jer 24,2) che ritornavano dalla loro cattività, portavano con essi una buona parte dell’eredità caldea: la scrittura sacra detta assira i cui segni erano ormai inseparabilmente presenti in tutte le parole della Torah scritta, l’abitudine di nominare gli angeli che apparivano in una messa in scena ispirata dalle cerimonie della corte dei re dei re, e che fu definitivamente adottata grazie alle visioni di cui il profeta Ezechiele fu gratificato nel riflesso del fiume Kebar nel paese dell’esilio. Il racconto del "sogno di Nabucodonosor" (Dan 2,1-49) fa parte di questa eredità caldea. Esso descrive le divisioni del tempo secondo la tradizione orientale prendendo l’immagine di una statua che aveva la testa "d’oro buono" - in questo contesto bisogna insistere sul significato dell’attributo "buono" che potrebbe essere opposto all’oro cattivo della tradizione dell’Esodo - il petto e le braccia d’argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro, i piedi "in parte di ferro ed in parte d’argilla fangosa”. Questa visione, è il re dei re che la ha avuta, ma è solo il profeta Daniele che ha potuto darne un’espressione verbale adeguata ed aggiungervi una spiegazione, in aramaico. Quando Daniele descrive il contenuto e il significato di questo sogno davanti al re, quando il re conferma l’esattezza di questa esposizione verbale, quando questa spiegazione del sogno è inserita nel canone scritturale custodendo le particolarità dell’idioma aramaico, allora sono riunite tutte le condizioni formali per l’introduzione nella tradizione biblica di un insegnamento e di una concezione cosmologica orientali e per la sua fedele trasmissione nel giudaismo post esilio. A partire da questo momento, saranno mantenute due tradizioni a proposito della natura e dell’influenza dell’oro. L’una, che possiamo qualificare "occidentale", colloca l’oro nel quadro del ricordo dell’uscita dall’Egitto e dell’empia adorazione del vitello nel deserto. Quest’oro è segnato inseparabilmente da un riflesso rosso sangue e sarà pieno di terrori e maledizioni. La preminenza dell’argento su quest’oro verrà considerata come il segno e la testimonianza della grazia dell’amore divino. In compenso, l’altra tradizione, "l’orientale", considera l’oro come l’immagine trionfante del sole nel regno minerale. Le qualità di quest’oro ricordano le delizie della prima età dell’umanità. È un oro buono, gaio, gioioso, dolce, che possiede tutte le qualità e perfezioni solari. Quando il profeta Daniele descrive la statua, egli comincia il suo racconto dalla testa e lo termina con i piedi. Egli dà della storia dell’umanità l’immagine di un oscuramento graduale le cui tappe sono segnate dai differenti metalli. In compenso, quando l’alchimista intraprenderà la sua crisopea seguendo i consigli dell’Esh mesareph, restando nel medesimo quadro di valori, egli procederà dal basso verso l’alto risalendo così il corso della storia per poter contemplare infine le meraviglie della testa dorata. "Mischia dunque il ferro e l’argilla, Dan 2,33, e avrai il fondamento della sommità d’oro. È quest’oro, al quale è attribuita la nozione di Tetragramma, Ex 32,5, nella storia del vitello, che deve essere tritato e disperso nelle acque. Là in seguito tu vedrai le sette specie d’oro, che si succedono nella stessa opera". Come sappiamo i piedi della statua erano, secondo il versetto Dan 2,33, in parte di ferro ed in parte d’argilla. Ma l’ordine di mischiare il ferro e l’argilla evoca più direttamente il versetto Dan 2,43: Se hai visto il ferro mischiato all’argilla fangosa, è perché essi saranno mescolati da seme umano; ma essi non sussisteranno insieme; come il ferro non può legarsi con l’argilla. Nella spiegazione del sogno di Nabucodonosor, queste immagini fanno parte di un insieme di allusioni ai rapporti delle dinastie orientali. Il "seme d’uomo” significherebbe l’alleanza mediante matrimonio delle dinastie di Siria e di Egitto, che in nulla è comparabile col seme divino dell’alleanza abramica. Traducendo questa predizione politica nelle realtà alchemiche, questa immagine simbolica potrebbe significare che la lega di ferro e di argilla fangosa resta fragile, inadatta a fornire la solida base della contemplazione. In compenso, se l’artista riceve un "seme divino" allora la lega si realizzerà e la visione della testa dorata si effettuerà nelle condizioni richiesta per questo effetto. È l’iniziazione, la sola alleanza che può trasmettere questo seme divino. Questa trasmissione compiuta per mezzo di un agente angelico o di una catena umana tradizionale resta la condizione fondamentale da realizzare perché l’artista non lavori invano. Senza l’azione dell’angelo dell’alleanza, "il ferro non può legarsi con l’argilla” e la statua del sogno non avrà base. In quest’opera alchemica, tuttavia, né l’opera del ferro, né quella del bronzo, né quella dell’argento attirano l’attenzione del redattore. La prospettiva adottata è messianica, è orientata verso la testa d’oro. Su questa via, l’ostacolo insormontabile è la nefasta eredità dell’adorazione del vitello d’oro. L’errore della generazione dell’Esodo era stato, a quanto pare, di attribuire a questo oro semplice la nozione di Tetragramma. Infatti, secondo il racconto dell’Esodo, Aronne domanda agli israeliti di togliere gli anelli d’oro che le loro mogli e i loro figli portavano alle orecchie e di darli a lui. Egli li prese dalle loro mani e ne fece un vitello di ghisa. Gli israeliti dissero solamente: "Israele ecco i tuoi Élohïm!” Apparentemente, la falsa attribuzione verrebbe dalla parte di Aronne, che costruì un altare davanti al vitello ed esclamò (Ex 32,5): Domani ci sarà una festa per Tetragramma! Quando Mosè tornò dalla montagna, infranse le tavole della Legge ai piedi della montagna, e prendendo il vitello che essi avevano fatto, lo arse al fuoco, lo triturò sino a ridurlo in polvere, sparse questa polvere sull’acqua e ne fece bere ai figli di Israele. Mosè vide che il popolo non aveva più freni, poiché Aronne gli aveva tolto ogni freno (Ex 32,25). Per il metodo midrascico, il plurale della parola Élohïm significa che il popolo si sentì in quel momento come posto davanti ad un tribunale regolarmente composto da due giudici. Il terrore di un giudizio irrevocabile fu dissolto quando Aronne parlò di una festa di Tetragramma, lasciando intendere che la clemenza del Nome Tetragramma annullasse le conseguenze del severo giudizio del tribunale. Bisogna notare che gli anelli che gli israeliti avevano offerto provenivano dall’Egitto, essi dunque erano fabbricati con l’oro della schiavitù. Il fuoco della fabbricazione dell’idolo e il culto della falsa attribuzione a Tetragramma ne hanno appesantito il carattere maledetto. Mosè ripassò quest’oro nel fuoco e lo ridusse in polvere. Quando questo fu sparso sulla superficie dell’acqua egli ne diede da bere una parte ai figli di Israele. Questo racconto ci insegna che l’altra parte di questa acqua ricoperta di polvere d’oro maledetto servì loro da piano di riflessione in cui cambiare, probabilmente come Ezechiele sul bordo del fiume Kebar vide i sette cieli, le sette specie d’oro della testa dorata. |