Cari Fratelli, l'obiettivo di questa tavola non è certo quello di ricostruire in modo sistematico queste due dottrine tanto complesse, sulle quali è stato scritto ad abundantiam da penne ben più raffinate della mia. Più modestamente mi limiterò a delle riflessioni per far emergere soprattutto le affinità tra le due concezioni e il sospetto che forse la filosofia "accademica" non ha utilizzato le giuste lenti nel ricostruire la dottrina pitagorica (come probabilmente tutta la filosofia greca a partire da Talete). Così introduce il Carissimo F:. della Montesion Carlo C., questo suo "Capo d'Opera" da Compagno, presentato per la propria richiesta di "Aumento di Salario". Ogni diritto è dichiarato. © Carlo C. La circolazione del documento in rete è subordinata alla citazione della fonte (completa di Link) e dell'autore.
Cari Fratelli, l'obiettivo di questa tavola non è certo quello di ricostruire in modo sistematico queste due dottrine tanto complesse, sulle quali è stato scritto ad abundantiam da penne ben più raffinate della mia. Più modestamente mi limiterò a delle riflessioni per far emergere soprattutto le affinità tra le due concezioni e il sospetto che forse la filosofia "accademica" non ha utilizzato le giuste lenti nel ricostruire la dottrina pitagorica (come probabilmente tutta la filosofia greca a partire da Talete). In merito a quest'ultima, non si può non iniziare con la testimonianza di Aristotele che nel primo libro della Metafisica, là dove ripercorre le tappe del pensiero dei suoi predecessori, ci dice che "I Pitagorici parlarono parimenti di due principi ma s'avvantaggiarono sugli altri in quanto che il limitato e l'illimitato e l'unità non li considerarono come predicati di altre sostanze, del fuoco o della terra o di altra cosa simile; bensì per essi l'illimitato stesso e la stessa unità sono la sostanza di ciò di cui si predicano, per cui, anche, il numero è la sostanza di ogni cosa." Così anche i pitagorici vengono definitivamente 'catalogati' e inseriti nel processo che porta alla dottrina delle quattro cause aristoteliche, accusati di aver colto solo due principi (quello formale e quello materiale) e di aver concepito la forma (i numeri) come separata dai corpi. Ancora oggi, sui manuali di filosofia del liceo (come pure nelle interpretazioni dei maggiori studiosi) possiamo leggere che il pitagorismo rientra pienamente nel quadro della corrente del pluralismo greco, primo embrione di filosofie più mature come quelle platoniche e aristoteliche (che in fondo ne costituirebbero il naturale compimento). Sulla scia interpretativa aristotelica sono state banalizzate e trascurate le componenti più esoteriche di quel pensiero, il rapporto con una "sapienza sottile universale" che pure le fonti ben testimoniano. Nel caso di Pitagora, poi, quest'ultime sono prevalenti, quando ad esempio ci raccontano che egli dopo la fuga da Samo, sua città di nascita, per via delle persecuzioni del tiranno Policrate (circa 530 A. C.) si trasferì prima in Egitto, poi in Persia ed infine a Babilonia, dove venne in contatto con la religione degli antichi caldei, con il magismo persiano e con il mondo ebraico, approfondendo le conoscenze dei maghi eredi di Zoroastro. Solo dopo questi pellegrinaggi, egli sarebbe giunto sulle rive dell'Italia meridionale, fondando a Crotone quella scuola che è presentata dalle fonti come un'associazione religiosa e iniziatica, non meno che politica e scientifica, cui si accedeva attraverso prove rigorose e dopo un silenzio di vari anni imposto ai novizi. Solo una parte di quest'ultimi accedeva alla più ristretta confraternità e alle dottrine occulte, la cui divulgazione poteva anche costare la vita, come dimostra la vicenda di Ippaso, reo di aver divulgato un segreto matematico (solo nel IV secolo a.C, ben due secoli dopo, Filolao cominciò a scrivere e a diffondere le dottrine della scuola). Per questo Aristotele, quando ci parla degli autori lo fa singolarmente, ma nel caso dei Pitagorici descrive collettivamente le dottrine della scuola che continuarono ad essere attribuite a Pitagora anche dopo la sua morte, immaginando che parlasse tramite la divinità: da qui nacque la famosa espressione "autòs éfa" (ipse dixit, l'ha detto lui in persona), con la quale si indicava che ogni elaborazione non era altro che uno sviluppo delle dottrine del maestro Pitagora, cui fu attribuita la valenza di profeta e la sua figura sfumò presto nella leggenda. Solo in questo quadro di riferimento si possono comprendere le dottrine pitagoriche secondo cui il numero è essenza o principio (arché) dell'universo, inteso come un tutto armonico e perfetto (kosmos). Il numero pitagorico, lungi dall'essere concepito in termini moderni come una un concetto astratto (un simbolo che si riferisce alla quantificazione delle cose), o kantianamente come intuizione pura, è da intendersi come avente una propria realtà ontologica. É ciò che, per dirla con Platone, rimane identico e costante ed è causa e ragione profonda di ciò che diviene e che mai è. Questo è il significato della famosa testimonianza aristotelica dei numeri sostanza di tutte le cose e non certo che essi debbano intendersi come entità materiali, dotati di estensione, simili agli atomi formulati più tardi da Democrito. La scoperta che in tutte le cose esiste una regolarità matematica produsse un'impressione straordinaria e portò a quel mutamento di prospettiva che ha segnato una tappa fondamentale nello sviluppo filosofico e spirituale dell'Occidente. Esempi di leggi numeriche sono l'anno, le stagioni, i mesi, l'incubazione del feto, i cicli biologici, ecc. É la conoscenza di questo complesso universo di relazioni tra numeri e cose che costituiva per i Pitagorici il vertice dell'apprendimento. Tra i numeri esistono "logos", ossia rapporti e tra i rapporti è possibile rintracciare una proporzione (in greco "analoghia"), ossia uguaglianze di rapporti. L'unità è il principio fondante di tutti i numeri, in quanto è ciò che determina il pari e dispari ovvero è ciò che permette di distinguere il limitato e definito dall'illimitato ed indefinito, l'unità è all'origine e fonda la differenza fra finto ed infinito. Partendo dall'opposizione misurabile (finito)/ non misurabile (infinito) si comprende l'intero universo. Pitagora teorizza per la prima volta in modo chiaro quest'idea già presente in forma embrionale nella tragedia: il limite stabilito dalla legge divina non va superato, il destino è garante della legge e della misura. Per questo motivo Pitagora identifica la perfezione con il finito ed il limitato. L'infinito è concetto negativo identificato con l'imperfezione perché rappresenta ciò che, in quanto non misurabile, non è perfettamente conoscibile; il dispari e il pari sono l'opposizione numerica riconducibile a questa prima, fondamentale opposizione. A cui sono riconducibili tutte le altre opposizioni della realtà che, non casualmente, sono 10: maschile-femminile, tenebre-luce, male-bene etc. La realtà, il mondo dei quattro elementi, è dunque nella sua essenza duale, presentandosi piena di entità contrapposte, ognuna delle quali riconducibile a numeri. L'opposizione non esclude però la composizione armonica: poiché le cose nella loro spiegazione ultima sono numeri, la loro diversità si risolve in un rapporto, che ne costituisce armonia. Il numero perfetto è 10, numero sacro dato dalla somma dei primi 4 numeri 1+2+3+4 raffigurato con un triangolo perfetto chiamato tetraktys, formato dai primi quattro numeri, ed avente il numero 4 per ogni lato
Aezio, dossografo peripatetico del I Secolo d. C., fonte ritenuta dagli storici sicuramente attendibile in quanto risalente a Teofrasto, ci tramanda la preghiera che i pitagorici rivolgevano alla sacra decade: "Benedetto tu sia, numero divino, tu che generi gli uomini! O sacra tetraktys, tu che contieni la radice e la fonte della creazione sempiterna! Infatti il numero divino comincia con la profonda, pura unità finché arriva al sacro quattro; poi genera la madre di tutto, la sacra decade che tutto comprende e tutto limita, la primigenia che mai devia e mai è stanca, e possiede la chiave di tutte le cose". La forma della figura è la medesima della lettera greca "delta" (D) corrispondente all'italiana "d", quarta dell'alfabeto e iniziale di "decade" in ambedue le lingue. É sul segreto della tetrade, costituito dalla decade, l'iniziato pitagorico prestava giuramento. Tale conoscenza era molto importante. Era la "quaternità" della croce, la stessa che si può osservare nella forma con cui si scrive il numero quattro. Si giurava su questa quaternità e si sentiva questo giuramento come qualcosa che metteva in gioco il più grande degli dei: Zeus, cioè Giove. Nei simboli dell'astrologia il numero quattro significa Giove. In tale simbolo "vi si possono individuare una croce e una mezza luna [...] Si trova anche, a volte, un grafismo in cui si vede una zeta, iniziale di Zeus (1)" Ma la decade racchiudeva in sé un segreto più grande: essa è data dall'avere quantitativamente in sé la somma della "triangolarizzazione" del "quattro", cioè della tetrade. Il numero tre è sempre stato considerato nell'antichità il numero per eccellenza della perfezione. Basti osservare che il concetto di perfezione stesso significa qualcosa che ha etimologicamente a che fare con quello di compimento, fine, termine. La particella ter di "termine" è, in latino, un avverbio che significa "tre volte" ed è qui molto significativa anche perché nel linguaggio è facile e frequente il passaggio fonetico dalla "r" alla "l". Il latino "ter" diventa il greco "tel" che ritroviamo nelle parole greche: "télos" che significa "fine", "teleuté", "fine, morte", e "teleté", "iniziazione".
Da questo punto di vista, l'iniziazione al tre, che si sta proponendo qui per la conoscenza del quattro, appare dunque come l'Iniziazione per eccellenza ai massimi misteri, poiché ha in se stessa il tre, come un seme che deve essere fatto germinare e fiorire affinché possa dare il suo frutto. "Uno, due, tre...", così ha inizio il "Timeo" di Platone in cui egli cerca di indagare la natura dell'universo. In quest'opera, il pitagorico Timeo, proveniente dall'Italia, spiega ai filosofi del tempo la natura dell'universo, dalla sua origine fino alla comparsa dell'uomo, e dei quattro elementi, Terra, Aria, Fuoco e Acqua, si dice nel Timeo che furono creati da Dio "per forma e numero". A fondamento del quattro però vi è nel Timeo l'uno, il due e il tre, non solo per un mero succedersi di numeri, bensì perché per il pitagorismo tutto si conclude con il tre e col quattro tutto riprende daccapo in una nuova dimensione, in un nuovo livello di numeri, come quello in cui il dieci inizia le decine e il cento le centinaia. Se la decade, con i suoi misteri rappresenta il cuore dell'insegnamento pitagorico, allo stesso modo la dottrina delle dieci sephiroth è il fulcro della tradizione esoterica ebraica, la Qabalah. Il primo capitolo del Sepher Yetzira, il Libro della Formazione, testo cabalistico fondamentale, ci dice che Dio, il misterioso tetragramma, ha creato il mondo con 32 Vie meravigliose di saggezza: dieci sephiroth belimà (cioè senza determinazione e le ventidue lettere dell'alfabeto ebraico. La creazione come nella Bibbia è attribuita allo strumento divino meno materiale possibile: la parola, che, come è noto, nella lingua ebraica ha un preciso valore numerico. E d'altra parte le sephiroth sono anch'esse numeri, o meglio numeri puri o primordiali. Secondo Gerschom Scholem, infatti, il vocabolo sephiroth (plurale di sephirâ) deriverebbe dal verbo ebraico saphor (contare). Insomma anche per la Qabalah, la realtà è nella sua essenza numero.
Molte sono le immagini che la tradizione ha usato per rappresentarle e descriverle. Lo Zohar ci riferisce che le Sephiroth sono dieci forme che Dio ha prodotto per dirigere i mondi sconosciuti ed invisibili e quelli visibili. Forme distinte dalla materia, di cui le 22 lettere sono la causa prima. Ogni cosa esistente in via di sviluppo è dovuta ai poteri creativi delle lettere, ma è inconcepibile senza la forma della quale la investirono le dieci sephiroth. Qualche volta lo stesso Zohar chiama queste entità Corone o Lampade. La parola lampada racchiude il concetto di strumento per la manifestazione della luce, mentre il termine corona è il nome stesso della prima Sephirâ, vale a dire di quella che è la sorgente e la sintesi di tutte le altre (Kether). Azriel di Gerona le definisce i veli attraverso i quali l'essenza divina si rivela; i dieci diversi attributi con cui Dio rende manifesto qualcosa della sua realtà inaccessibile. Secondo Isacco il Cieco esse sono gli strumenti spirituali di cui si serve il loro Emanatore infinito per creare, formare, realizzare. Non sono delle creature ma delle nozioni e dei raggi dell'Infinito che, per varie digressioni, discendono dalla sorgente suprema, senza tuttavia separarsene mai. Moïse De Cordovero infine dice che Esse aderiscono alla Causa prima, non per l'essenza ma in quanto all'operazione; sono i mediatori che rappresentano la Causa prima, interamente occulta in sé, che ne emanano direttamente e grazie alla virtù di questa Causa prima, producono e governano tutto il resto. É evidente che soprattutto le definizioni delle sephiroth come luci o emanazioni risentono molto dell'influenze neoplatoniche e dischiudono questioni molto delicate sul rapporto tra l'Assoluto (chiamato dalla tradizione En Soph, l'illimitato, espansione senza limiti) e le Sephiroth. Questioni troppo complesse per poter essere trattate in questa sede. Tornando alle Sephiroth, a nostro avviso continua ad essere il Sepher Yetzira la più chiara ed esaustiva fonte per la comprensione di questa dottrina: "Dieci Sephiroth belimà; la loro misura è dieci. Non hanno fine" Nel primi dieci numeri è compresa l'infinita molteplicità e complessità del mondo dei quattro elementi. Esse sono finite e infinite, maschio e femmina, pari e dispari, per usare quelle coppie di contrari già viste con i Pitagorici. É attraverso questi numeri primordiali che Dio ha determinato la profondità del principio e la profondità della fine, la profondità del bene e la profondità del male, la profondità di sopra e la profondità di sotto, quella dell'oriente e dell'occidente, la profondità del settentrione e del meridione. Insomma le Sephiroth sono espressione dell'unità e dello spirito del Dio vivente che nel quaternario si realizza come Legge binaria. Legge rappresentata simbolicamente nei nostri templi dal pavimento a scacchi bianco e nero.
1 - A. Anzaldi - L. Bazzoli, Dizionario di astrologia, Ed. Rizzoli, pag. 195.
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