l documento che segue è estratto dal bimestrale "Conoscenza Religiosa" n.4 anno 1973. Edizioni "La Nuova Italia", ed è una indagine, poco nota, di Gershom Scholem sulla parola quale strumento di creazione. Il contenuto della tavola non manifesta di necessità il punto di vista della Loggia o del GOI. © Gershom Scholem La libera circolazione del documento in rete, è subordinata alla citazione della fonte (completa di link attivo) e dell'autore.
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"Il principio della tua parola è Verità", dice il Salmista (119,160) in un passo spesso citato nella letteratura cabalista. La verità, nel senso inizialmente stabilito dall'ebraismo, era la parola di Dio, udibile e pronunciabile. Secondo la dottrina della Sinagoga, la rivelazione è un processo acustico e non visuale; o per lo meno si realizzò in una sfera metafisicamente apparentata a quella acustica e percettibile. Questa concezione è continuamente ribadita dalla Thorah (Deuteronomio 4:12): "Voi non avete veduto nessuna immagine, era soltanto una voce". Che cosa significa questa voce e ciò che essa esprime? Questa è la domanda che si sono spesso posti gli esegeti ebrei del pensiero religioso. Il legame indissolubile che unisce il concetto di Verità della Rivelazione e l'idea del linguaggio, ossia il fatto che la parola di Dio diventi percettibile per mezzo della linguaggio umano, posto che l'uomo possa avere esperienza umana di una tale parola, è certo una delle eredità più importanti, se non forse la più importante, che l'ebraismo abbia lasciato alla storia religiosa. Il punto di partenza di tutte le teorie mistiche del linguaggio, tra le quali occorre annoverare quella dei cabalisti, è la convinzione che il linguaggio, un mezzo nel quale si realizza la vita spirituale dell'uomo, presenta un aspetto che non si esaurisce senza residui nella rete dei rapporti di comunicazione fra gli esseri. L'uomo si esprime, procura di farsi capire dagli altri, ma in questi suoi tentativi vibra qualcosa che non è soltanto comunicazione, significato ed espressione. Da questo punto di vista, il suono sul quale ogni linguaggio è edificato, la voce che lo plasma e che martellandolo lo enuclea dal mero materiale sonoro, già prima facie trascende la semplice intelligibilità della comunicazione. L'antica questione se il linguaggio riposi su una tacita convenzione, su un accordo formale, o su qualche disposizione naturale inerente agli esseri umani, questo problema che ha diviso i filosofi fin da Platone ed Aristotele, è stato sempre trattato dando per scontato il carattere indecifrabile del linguaggio stesso. Ma se il linguaggio non è la mera comunicazione ed espressione studiate dai linguisti, se è proprio a questo elemento sensibile, dalla cui pienezza e profondità la lingua origina, anche l'altro aspetto, che ho chiamato disposizione naturale, si pone il problema di quale sia questa dimensione "occulta" del linguaggio, su cui si sono trovati d'accordo tutti i mistici di tutti i tempi. La risposta quasi certamente è questa: la dimensione occulta è determinata dal carattere simbolico del linguaggio. Sul modo di definire questa simbolicità le teorie linguiste dei mistici divergono frequentemente; ma tutte consentono sul punto che il linguaggio serva a comunicare qualcosa che supera di molto la sfera entro cui vigono l'espressione e la forma e che l'eco di cose inespresse, manifestate esclusivamente sotto forma di simboli, vibra in ogni espressione, e ne è anzi il punto di partenza che s'intravede, per così dire, attraverso le fessure del mondo dell'espressione; e certo è questa l'esperienza cui le mistiche del linguaggio hanno attinto, attraverso la quale si sono rinnovate nel corso di tutte le generazioni, non esclusa la nostra. Il mistico scopre nel linguaggio una dignità, una dimensione immanente, come si direbbe oggi: qualcosa che, nella sua struttura, non tende a comunicare quel che è comunicabile, ma piuttosto a comunicare l'incomunicabile che in esso vive senza aver trovato espressione e che, quand'anche la avesse trovata, non avrebbe in ogni caso alcun significato, alcun senso comunicabile. Così tocchiamo la sfera religiosa, che non è certo l'unica alla quale si applichi il simbolismo, e il linguaggio divino ci si presenta strettamente connesso a quella dimensione occulta del linguaggio di cui parlavamo prima. In questo campo, i mistici furono dapprima tentati di partire dal linguaggio umano per trovarvi il linguaggio della Rivelazione, e addirittura il linguaggio in quanto Rivelazione. Ed hanno continuato a porsi il problema di come fosse possibile che il linguaggio degli Dei o di Dio si fosse intimamente intessuto con il linguaggio parlato e come si potesse liberare da tale intreccio. Da sempre, però, essi hanno intuito nel linguaggio una profondità abissale che si sono proposti di commensurare, d'esplorare e anche di vincere. É il punto di partenza delle teorie mistiche del linguaggio di tutte le religioni, il punto in cui il linguaggio deve essere al tempo stesso quello della Rivelazione e quello della ragione umana, tesi fondamentale della mistica del linguaggio, quello che Johann Georg Hamann definisce con magistrale laconismo: "Linguaggio, padre della ragione e della Rivelazione, loro alfa e omega" (1). Se vogliamo ora tentare di capire la concezione del linguaggio dei cabalisti, è innanzitutto perché la loro valutazione eccessiva della lingua come "mistero rivelato" di tutto l'essere potrebbe essere il paradigma, estremamente illuminate, di una teoria mistica del linguaggio. Nella loro trattazione emergono tre temi, che restano, sotto vari profili, in primo piano: A) L'idea della Creazione e Rivelazione sono tutte e due innanzitutto rappresentazioni di Dio stesso ad opra di Lui stesso, nelle quali, in conformità della sua natura infinita, inferiscono aspetti del divino che non si possono comunicare con nessuna cosa creata, finita e determinata, bensì soltanto sotto forma di simboli. Ne deriva l'idea che l'essenza stessa dell'universo sia il linguaggio. (2) B) La posizione centrale del nome divino quale origine metafisica d'ogni linguaggio, e la concezione del linguaggio stesso come scomposizione di quel nome nei suoi elementi, evidente nei testi della Rivelazione, ma anche in genere, in ogni lingua. Il linguaggio di Dio, cristallizzato nel nome divino, e soltanto in esso che ne è il centro, è il punto di partenza di ogni lingua parlata, nel quale esso si riflette e si manifesta simbolicamente. C) I rapporti dialettici di magia e mistica nella teoria dei nomi di Dio non meno che nel potere straordinario della semplice parola umana. Ma prima di procedere nell’analisi delle idee dei cabalisti, mi sembra opportuno, per evitare malintesi, fare un’osservazione. In quanto documento storico, la Bibbia ebraica non presenta alcuna nozione magica del nome divino. Certo il passo della Torah (Esodo III,6-14) che riferisce la rivelazione del nome di Dio, JHWH, avvenuta presso il roveto (e a proposito del quale abbondano le esegesi) è scritto in uno stile estremamente enfatico; ma anche lì, e ancor più nei molti altri paesi dove è trattata l'invocazione del nome di Dio, l'aspetto magico è chiaramente assente. Il fatto che si sia poi introdotto nel Testo, questo aspetto appartiene alla storia dell'influsso della Bibbia stessa, e perciò interessa la nostra ricerca. Il nome di cui Mosè riceve la spiegazione presso il roveto non è nemmeno indicato direttamente come il Tetragramma, benché la sua etimologia vi abbia attinenza: “Io sarò colui che sarò”. Se si prende questa spiegazione nel senso della Torah, che non si propone certo d'essere filosofica, essa sembra voler esprimere più che altro la libertà di Dio, il quale, per Israele, sarà lì, sarà presente, qualunque sia la forma o la manifestazione che assumerà questo fatto d'essere o di essere lì. Ma al nome così definito manca, ripetiamo, quell'aura di magia che la Torah si sforza di tenere, quanto possibile, lontana non solo da questo nome, ma dalla parola in generale. Citiamo qui Benno Jakob, uno studioso eminente di queste questioni (3): “È davvero sorprendente, dato il significato sacramentale [si intende certamente: sacrale] della parola nel paganesimo dello stesso periodo, dover constatare che essa non ha alcuna funzione nella religione israelita, e particolarmente nel suo rituale. Il silenzio al riguardo è così assoluto che non lo si può interpretare che come intenzionale. Il sacerdote israelita, eccezion fatta per la benedizione (Numeri VI,24) che deve pronunciare a voce alta e che non solo (grazie ai termini di cui si compone) è protetta da ogni malinteso, ma ne è messa espressamente al sicuro, resta assolutamente muto nell'esercizio di tutte le sue funzioni sacerdotali. In nessun momento gli è prescritto di pronunciare parola. Silenzioso compie tutti gli atti sacrificali e gesti liturgici. Per quanto minuzioso sia il rituale che deve osservare durante l'olocausto, non si menzionano parole che egli debba pronunciare. Per quanto precisi, i riti che egli deve osservare con un lebbroso non contengono la minima formula. L'agenda rituale israelita non si compone che di agenda, di cose da fare. Se consideriamo la somiglianza fra il culto israelita e quello delle altre religioni antiche, questo mutismo non può non apparirci una contrapposizione consapevole e deliberata. Si trattava d'evitare ad ogni costo l'impressione che la parola fosse efficace in se stessa, che la formula prescritta avesse un effetto magico”. Questa eccellente osservazione non è in contrasto con l'innegabile fatto che il nome di Dio viene “invocato” nella preghiera o nei riti correlativi, poiché questa invocazione è effettivamente distinta dal rituale nella misura in cui questo è eseguito dai sacerdoti. Ma è innegabile che vi si coglie di nuovo un'accentuazione magica. Sicché, in piena contraddizione con la citazione precedente, uno studioso contemporaneo può dire a proposito dell'invocazione del nome di Jahweh: “Dal punto di vista teologico, esso ha il posto che in altri culti occupa l'immagine cultuale. Un apparato complesso di rappresentazioni cultuali, di riti e di prescrizioni lo avviluppò per tutelare la conoscenza che se ne aveva e soprattutto l'uso che Israele era autorizzato a farne. Israele, trovandosi affidata una così santa realtà, si vide confrontato da un compito immenso, che consisteva essenzialmente nei resistere a tutte le implicite tentazioni” (4). Questo è il senso che la Bibbia dà alla “Santificazione del Nome”. Si può ben supporre, e si è spesso presa in considerazione (5) la possibilità che anche in Israele si tendesse spesso ad utilizzare questo nome in certe pratiche oscure che costituivano un pericolo per tutti. Ma il testo della Bibbia non ce ne ha lasciata alcuna testimonianza diretta, il che ci sembra molto significativo.
E opinione assai diffusa tra gli storici della religione che la magia del nome si basi su un rapporto stretto e connaturale fra esso e chi lo porta. Il nome è un dato reale e non fittizio. Contiene una asseverazione sulla natura di chi lo porta o almeno un po' del potere che gli è proprio (6); si arriva ad identificarlo con la natura di chi lo porta, e questa prospettiva ebbe una grande importanza nel mondo orientale che circondava quello ebraico, e in particolare nella religione egizia. Ma ci si permetterà di far notare che la magia della parola è un'esperienza umana fondamentale di portata ben più vasta, cui la magia del nome ha conferito soltanto un'intensità particolare. Non è necessario richiamarci alle speculazioni religiose per constatare che l'effetto delle parole supera di molto la loro comprensibilità, e ce lo testimonia l'esperienza dei poeti, dei mistici e di chiunque parli godendo pienamente il carattere sensuale del verbo. Da tale esperienza scaturisce l'idea della potenza dei nomi e della possibilità d'utilizzarli a fini magici. Perché quindi stupirsi che questa magia si sia imposta in seguito, nel corso dell'evoluzione storica dell'ebraismo, presso dottori della legge e autori apocalittici, sia per influssi esterni che per necessità interiore? (7) Pur senza accenti magici, essa poté insinuarsi nella Bibbia e precisamente nella concezione biblica della forza prodigiosa insita nel nome di Dio. In effetti sono molti i passi della Scrittura, e in particolare forse del Deuteronomio, nei quali c'è una vera e propria separazione tra Dio stesso, nella sua trascendenza, e il suo nome, presente nel tempio; tanto che il nome in sé è, in certo senso, una quintessenza di ciò che è sacro, ossia assolutamente intangibile. Esso è nell'universo, all'interno della Creazione, un'efficiente rappresentazione della potenza, anzi dell'onnipotenza di Dio. L'assoluto rispetto che circonda tutto quanto concerne questo nome e la sua manifestazione determina tutto quel che i dottori della Legge e i maestri del Talmud cercano di dirne e di codificare ai suo riguardo. “Il Cielo e la Terra sono perituri, ma il Tuo grande nome vive e vivrà nell'Eternità. Si doveva scrivere il Nome in santità. La donna sospetta d'infedeltà viene ammonita a non offuscare il grande Nome scritto in santità (secondo la Prescrizione di Numeri V). Chiunque scrive un nome di Dio non deve neppure rispondere al saluto del re, prima d'aver finito. Guai a cancellare non solo i nomi di Dio, ma la loro minima lettera. Mosè non si permette di nominare il Tetragramma che dopo ventuno parole. Durante le offerte si fa uso del nome di Dio al solo scopo di togliere ai settari ogni pretesto [di divulgare loro speculazioni gnostiche]. Il Tetragramma e tutte le sue forme di scrittura erano deposte nell'Arca dell'Alleanza” (8). L'aspetto più importante, ed anche il più paradossale, di questa evoluzione, è che il nome con cui Dio designa se stesso e per mezzo del quale Lo si può invocare, si sottrae alla sfera acustica e diviene impronunciabile. Dapprima si permette ancora che sia pronunciato all'interno del Tempio in alcune circostanze rare e assai particolari, per esempio al momento della benedizione sacerdotale, o nel giorno del Gran Perdono; ma poi, e soprattutto dopo la distruzione del Tempio, viene revocato e ritorna nel campo dell'ineffabile. Ed è appunto questo modo ineffabile in cui è possibile evocare col pensiero, e non con la parola, il nome divino, che l'ha dotato, per la sensibilità degli Ebrei, di questa insondabile profondità di cui testimonia persino, in un passo commovente, un rappresentante del razionalismo teista come Hermann Cohen: a proposito della promessa messianica (Zaccaria, XIV,9) “quel giorno Dio sarà unico e il suo nome sarà unico” (la frase che costituisce cioè la fine della preghiera quotidiana, tre volte ripetuta, della liturgia ebraica), egli afferma che la rilevanza così conferita al Nome è assolutamente incomprensibile nella traduzione, “ma la parola scem ha per la sensibilità religiosa dell'Ebreo una forza espressiva inesauribile. Il nome di Dio non è più una parola magica, se mai lo è stato; ma è la parola magica della certezza messianica... Il Nome in se stesso dirà un giorno l'unicità di Dio; ne testimonierà in tutte le lingue, presso tutti i popoli. Giorno verrà che io darò ai popoli un linguaggio più chiaro, sì che tutti invocheranno il nome di Dio” (9).
È lecito allo storico delle religioni dubitare che tale fosse il senso messianico originario del nome di Dio; ma è fuori dubbio che Cohen abbia espresso qui, da quel puro utopista che era, l'atteggiamento dell'uomo pio davanti all'insondabile profondità del nome divino. Ancora prima che gli esoteristi dell'ebraismo cominciassero a speculare sul linguaggio, il nome di Dio fu al centro delle loro preoccupazioni. Più tardi, a partire dal II secolo d. C., il Tetragramma, divenuto intanto impronunciabile, fu indicato con un termine che portava già in se stesso le possibili contraddizioni esistenti tra i vari modi di concepirne il significato e la funzione. Il nome di Dio viene cioè indicato come il Scemha-meforash, termine che non ha affatto un unico significato, ma anzi ne riflette molti e contraddittori. Il participio passivo meforash può significare tanto “comunicato” che “spiegato espressamente” o, più direttamente, ossia secondo le lettere che lo compongono, “pronunciato”. Ma d'altra parte può, nel contesto, significare altresì “separato”, e persino “nascosto”, e per tutte queste interpretazioni si possono citare prove convincenti tratte dalla consueta terminologia delle fonti ebraiche ed aramaiche dei primi secoli (10). Il fatto che un unico termine designi sia il nome formale sia il nome segreto e nascosto non è il minore dei paradossi di questa terminologia religiosa. Ma qualunque sia stato il suo significato originario, nel corso dei tempi si delineò la tendenza ad accentuare il secondo gruppo di significati, nei quali il termine indica il nome segreto, quello che, a dispetto di tutte le indicazioni formali, si sottrae appunto ad ogni spiegazione. È questa la conclusione che siamo costretti a trarre dal fatto che più tardi, a partire dal secondo o terzo secolo (11), vengono indicati come Scem meforash altri nomi, puramente mistici, di Dio, basati su una associazione di lettere ricavate da certi versetti della Bibbia o scoperti con altri procedimenti che ci rimangono impenetrabili. La testimonianza della letteratura talmudica e midrascica prova con certezza che questi nomi puramente mistici di Dio esistevano anche nella tradizione dell'ebraismo rigorosamente rabbinico, e non soltanto negli scritti dei maghi e dei teurgi dello stesso periodo. Così vi si parla di nomi di Dio comprendenti 12, 42 e 72 lettere, ai quali sono attribuite funzioni o significati speciali (12) In nessun luogo è detto quale rapporto abbiano con il Tetragramma.
Per i Nomi di 12, 42 e 72 lettere consultare la sezione:
Stupisce perciò che già molto presto nella letteratura si parli del nome di Dio grande e potente (ossia: “dotato di potere”) dal quale creazione origina o che la suggella, ossia mantiene entro i suoi limiti. Non è però affatto certo che si tratti del Tetragramma. Nella tradizione dei grandi Scolastici dell'alto Medioevo il nome divino di 42 lettere, che apparentemente non ha il minimo rapporto con il Tetragramma, è precisamente indicato come quel nome che ebbe una parte attiva nella Creazione (13). Molto prima che un'haggadà talmudica dica che nel nome è sigillato “l'abisso senza fondo” di tutta la creazione (14), posiamo leggere affermazioni affatto simili in certi scritti apocrifi dell'era precristiana. Nel Libro dei Giubilei (XXXVI,7) Isacco scongiura i suoi figli di temere Iddio e di servirlo “per il nome lodato, onorato, sublime, raggiante, meraviglioso e potente, che ha fatto il cielo e la terra e tutte le cose insieme”. In un altro scritto apocrifo della stessa epoca, la Preghiera di Manasse (15), è detto che “Dio ha richiuso l'abisso senza fondo e l'ha suggellato col suo nome lodato e potente”. Qualche versione dei Grandi Heikhaloth, testo mistico fondamentale della Merkaba, parla di questo suggello sul cielo e sulla terra e del nome per mezzo del quale era posto (16).
Per le Heikhaloth consultare la sezione:
Se nei passi citati il nome di Dio appare come causa efficiente della Creazione, lo si deve evidentemente a una concezione del potere magico del nome; è questo potere che, una volta di più, s'impone. Il nome è una concentrazione della potenza divina, e i modi diversi in cui si possono combinare queste concentrazioni di potenza fanno sì che i vari nomi abbiano funzioni distinte. Il Verbo creatore, che dà origine al cielo e alla terra e di cui testimonia, nel Genesi, il racconto della Creazione e anche l'inno del Salmista “I Cieli sono nati dalla parola di Jahweh” (Salmi XXXIII,6), è ancora lontano dal rappresentare, per gli autori biblici, il nome di Dio. Quando questo avviene è segno d'una importante evoluzione: il coincidere del Verbo e del Nome comporta due conseguenze importanti per l'evoluzione della mistica ebraica del linguaggio. Da un lato questa identificazione fa della parola che comunica - non fosse che nella forma imperativa (“Sia fatta la luce!”) -, che annuncia qualche cosa, un nome il quale non comunica che se stesso. Ciò che ne appare non è che la manifestazione di quanto esisteva già anteriormente in Dio stesso, nella pienezza infinita del suo essere e della sua potenza. In questo senso il Midrash può dire che prima della Creazione solo Dio e il suo nome esistevano (17). Nel momento in cui il Nome diviene parola, diventa un elemento di quanto è permesso chiamare la parola di Dio, nella quale Dio si rappresenta e si manifesta comunicandosi alla sua creazione, la quale, grazie alla mediazione di tale parola, accede a sua volta all'esistenza. Questa doppia caratteristica della parola divina, che è anche un nome, determinerà per gran parte la dottrina cabalistica del linguaggio. Ma d'altra parte, questa identificazione conduce ad una rappresentazione del Nome e del Verbo diversa da quella in cui appaiono le lettere - o, come direbbe con maggior precisione un Ebreo formato al modo di pensare ebraico o aramaico - le consonanti. È la combinazione delle lettere del linguaggio divino che ha dato origine a tutte le cose. Tali lettere sono quelle della lingua ebraica, lingua originaria, lingua della Rivelazione. Fu questo il vero punto di partenza delle speculazioni mistiche sul linguaggio. Nel Talmud troviamo una sopravvivenza di questa concezione in una frase spesso citata da uno degli esoteristi più noti del terzo secolo: “Bezalel (colui che edificò il Tabernacolo) sapeva mettere assieme le lettere con le quali furono creati il cielo e la terra” (18). Il Tabernacolo è fatto ad immagine del Cosmo (19) e colui che lo costruì doveva dunque possedere un po' della sapienza occulta necessaria per costruire il Cosmo. L'illuminazione divina gli trasmise una sapienza che gli consentì di riprodurre nel finito l'opera della Creazione. Si può supporre che si debba intendere con queste lettere quelle del nome di Dio, ma si può ugualmente pensare che si tratti, in un senso più ampio, d'una combinazione delle lettere dell'alfabeto. La potenza creatrice insita nelle parole e nel Nome, la loro efficacia immediata, in altre parole: il loro carattere magico, è così riportato agli elementi fondamentali nei quali, per il mistico, immagine sonora e immagine scritta coincidono. In base a questa concezione, è il soffio divino che, secondo il racconto del Genesi, fa dell'uomo un essere vivente e libera in lui la facoltà della parola: e questo è confermato da un testo d'importanza non indifferente. La traduzione aramaica, diventata per così dire ufficiale, della Torah, quella che fu utilizzata per il servizio divino nelle sinagoghe, il Targum Onkelos, traduce (Genesi II,7) “L'uomo divenne un'anima vivente” con “l'uomo diventa uno spirito dotato della parola”. Così la natura vivente dell'uomo è precisamente il linguaggio. Ma gli spiriti speculativi vi associarono ben presto il problema se questo elemento linguistico non fosse necessariamente già contenuto nel soffio divino stesso. Questo ci riporta al primo testo della letteratura ebraica, quello che ha fornito le parole chiave della mistica del linguaggio quale la sentivano i cabalisti, e che è nel contempo il più antico testo di carattere speculativo che possediamo in ebraico. É il Sepher Yetzirah, o Libro della Creazione (e si potrebbe tradurre anche, in modo più espressivo, Libro della Formazione): gli eruditi ne fanno risalire l'origine a una data che oscilla tra il secondo e il quinto o sesto secolo, ma io propenderei piuttosto per l'attribuzione al secondo o terzo secolo (20)
Per il Sepher Yetzirah consultare la sezione dedicata:
É un libro di poche pagine, scritto in una lingua ebraica solenne, ma nello stesso tempo spesso molto laconica. Molto più tardi, nell'Alto Medioevo, i filosofi e anche i mistici e i cabalisti basarono sulla sua autorità le teorie che svilupparono nei loro numerosi commentari. Esso contiene un gran numero di frasi sibilline, anche se la tesi fondamentale, esattamente la questione che ci interessa qui, vi è enunciata con una chiarezza trasparente. Essa riprende le antiche speculazioni, che si ritrovano fino alla fine dell'era biblica, sulla Sophia come saggezza divina, punto di partenza di tutta la creazione, ma conferendo ad esse una forma nuova nel senso che la mistica dei numeri e quella delle parole ci si trovano giustapposte senza avere quasi nessun rapporto tra loro. Dio ha creato tutte le cose per mezzo dei 32 “meravigliosi sentieri della saggezza”. Questi sentieri sono composti di 10 cifre originarie, dette qui sephiroth, che sono le forze fondamentali dell'ordine della Creazione, e delle 22 lettere, ossia consonanti, che sono gli elementi fondamentali d'ogni cosa creata (21). Il modo in cui si stabilisce il rapporto tra cifre e lettere è un enigma che l'autore passa quasi completamente sotto silenzio. Ne tratta separatamente senza stabilire il minimo rapporto fra di esse, salvo in due passi (22). Una volta, a proposito della seconda cifra originaria o Sephirâ seconda, definita come il Pneuma, è detto che Dio vi ha inciso e cesellato le 2 “lettere fondamentali”. Ma questo Pneuma è già il primo elemento organico, l'aria. Tuttavia la prima Sephirâ, quella designata come Pneuma divino, Ruah Elohim, di cui parla Genesi I,2, non ha ancora per l'autore alcun rapporto con gli elementi del linguaggio. L'autore non è dunque ancora andato, nella sua spiegazione mistica del linguaggio, così lontano come i cabalisti che seguirono le sue tracce. Questo è tanto più interessante in quanto sarebbe stato naturale concepire una relazione tra il Pneuma divino e quel soffio leggero che secondo l'interpretazione caldea sopra citata del Genesi, svegliò l'uomo alla parola. In un altro passo, si dice che i numeri originari da 5 a 10 corrispondono alle sei direzioni dello spazio che Dio misurò e sigillò con le sei permutazioni delle tre consonanti Y (y) H (h) W (w). Questi tre segni, nella scrittura ebraica, furono usati ugualmente per rappresentare le tre vocali I A O e formano la sillaba magica jao e al tempo stesso il nome Jaho; e l'uno e l'altro hanno un ruolo prodigioso in tutta la magia antica sincretista influenzata dall'ebraismo (23). Ora queste tre consonanti, con ripetizione d'una di esse, formano il Tetragramma. Gli elementi stessi del nome di Dio sono dunque i sigilli apposti alla creazione, che la salvano dallo smembramento.
Le 22 lettere dalle quali è composta ogni cosa creata fanno parte senz'altro dei 32 sentieri della Sophia, ma non è spiegato se questi sentieri stessi sono stati creati, poiché la Sophia appare qui piuttosto come una forza non creata e da sempre esistente in Dio. Ma i confini tra cose create e increate sono nel libro (il Sepher Yetzirah) in certo senso cancellati. Se ci atteniamo alla terminologia degli ultimi paragrafi del primo capitolo, che utilizza formule fisse a proposito delle prime tappe della Creazione, si ha comunque piuttosto l'impressione che le lettere siano state anteriori al Tohu-wabohu (o caos), al Trono della Gloria divina e agli esseri appartenenti al mondo della Merkaba (o carro divino). Sono gli organi attraverso i quali si è potuto operare tutto l'ulteriore processo della creazione e che Dio, come appare nelle altre indicazioni date dal libro, ha utilizzato a questo scopo. Ma non si dice che essi siano gli elementi d'un Verbo divino, o d'una parola divina di cui non viene mai chiaramente trattato. Nel processo della Creazione, Dio segue con le lettere un metodo particolare: le inserisce nel Pneuma - la parola ebraica ruah significa contemporaneamente aria e spirito - le cesella in sé, le libera da sé, le pesa, le cambia e le combina; poi, con esse, forma l'anima (e qui si deve intendere certamente l'essenza) di ogni cosa creata e da creare. Esse superano le tappe della voce, del Pneuma e del discorso articolato, poi sono fissate, in questa forma articolata, nei cinque organi della bocca: la gola, il palato, la lingua, i denti e le labbra. Appaiono quindi qui come elementi essenzialmente umani. Ma subito dopo che sono stati così determinati, l'attenzione viene spostata al loro significato cosmico. Vengono collegati alla sfera (non è detto a quale, ma certamente si tratta della sfera celeste) di modo che per esempio, quando due cerchi concentrici, contenenti ciascuno in qualche punto questi elementi, girano in senso contrario, nascono da questo movimento le 231 combinazioni possibili a partire dai 22 elementi. Ora queste 231 combinazioni sono le “porte” per le quali passa ogni cosa creata. Tutto ciò che appartiene al mondo della realtà è basato su queste combinazioni originarie attraverso cui Dio diede origine al movimento del linguaggio. L'alfabeto è ad un tempo origine del linguaggio e origine dell'essere. “E così che ogni creazione e ogni parola hanno avuto origine da un nome”. Che si deve intendere con questo nome? Che sia il Tetragramma, le cui lettere si associano alle 231 combinazioni, come hanno supposto nei loro commentari parecchi cabalisti? (24) O è la serie stessa delle lettere dell'alfabeto che si deve considerare alla stregua di nome mistico, teoria a sostegno della quale militano parecchi paralleli in fonti greche e latine (25)? O conviene rinunciare piuttosto ad attribuire un significato preciso alla parola shem (nome) ammettendo che qui si tratti piuttosto d'uno “schema”, d'un metodo attraverso il quale si opera la formazione delle parole (26)? Il testo non permette di rispondere con certezza. Ma è chiaro che l'autore aveva presente una concezione della lingua ebraica secondo cui le parole avrebbero come radici non tre consonanti, come hanno affermato più tardi tutti i grammatici, ma soltanto due, e che la terza radicale sarebbe in qualche modo un allargamento, un movimento complementare dell'alfabeto.
Sulle radici ebraiche, consultare i documenti nella sezione: Radicalità delle lettere Ebraiche
Prima che apparisse una grammatica dell'ebraico propriamente detto, questa fu senza dubbio l'opinione già dei più antichi innologi della poesia sinagogale che, come l'autore dello Yetzirah, scrissero in Palestina. Tutto ciò che è reale oltre al Pneuma divino contiene dunque degli elementi linguistici, e l'opinione dell'autore è molto chiara, ogni cosa creata ha un'essenza linguistica fondata su una combinazione di queste lettere fondamentali. Spingendosi più lontano, egli attribuisce ad ognuna delle lettere non solamente funzioni fisse, ma anche “oggetti” come i pianeti, i segni dello zodiaco nel cielo, i giorni della settimana e i mesi dell'anno e gli organi essenziali nel corpo umano. Macrocosmo e microcosmo si richiamano assai chiaramente l'uno all'altro nel loro aspetto linguistico, e tutte le sfere della Creazione respirano nella stessa atmosfera linguistica che ci è percepibile nella lingua sacra. Questa concezione dell'essenza della Creazione è strettamente legata alla idea del linguaggio che si ritrova nella magia. E lecito supporre che lo Yetzirah non avesse soltanto dei fini teorici, ma fosse anche destinato a pratiche taumaturgiche, come ho del resto dimostrato analizzando il modo in cui ci si rappresentava la creazione del Golem (27). Questo rapporto tra la prospettiva mistica e quella magica, e in particolare il passaggio dall'una all'altra, si presenta anche sotto un altro punto di vista nella tradizione esoterica dell'ebraismo. L'utilizzazione della Torah a fini magici, certo assai lontana dalla sua intenzione originaria, dovette fare la sua prima apparizione all'epoca ellenistica; comunque per il periodo che corrisponde alla nascita dello Yetzirah la si può scoprire nei papiri magici che, non bastando i cinque libri di Mosè e la loro utilizzazione a fini profetici (28), immaginarono ancora un sesto o un settimo libro di Mosè che poteva essere puramente e semplicemente utilizzato come manuale di magia.
Il VI e VII Libro di Mosé, è integralmente riprodotto nella sezione dedicata:
Gli scritti ebraici che a quest'epoca trattano della mistica della Merkaba, presentano in abbondanza questi nomi mistici di Dio, la cui etimologia è raramente riconoscibile; ed è difficile stabilire una linea di demarcazione netta tra questi testi ed altri, puramente magici, come ad esempio il Sepher ha-Razim, che è un sistema angelologico con applicazioni alla magia (29). Vi si ritrovano nomi divini connessi ad aspetti particolari della manifestazione di Dio mescolati insieme ai nomi degli angeli come nei papiri magici. Spesso non arriviamo a capire secondo quali metodi questi nomi segreti siano stati ricavati dalla Torah. Ma possediamo testi ebraici ed aramaici della bassa epoca talmudica e dell'epoca post-talmudica che danno indicazioni sulla utilizzazione magica di questi nomi, formati soprattutto sulla base della Torah e del libro dei Salmi, prelevando certe lettere che erano talvolta, ma certamente non sempre, le prime d'un versetto. Uno di questi libri, chiamato Shimushei Torah ossia letteralmente “Applicazione teurgica della Torah” racconta nell'introduzione che Mosè, sul Sinai, non ricevette soltanto il testo della Torah diviso in parole, come ce lo trasmette la tradizione, ma anche queste combinazioni segrete di lettere ossia i nomi costituenti, nel loro insieme, un aspetto distinto prettamente esoterico della Torah (30). Ma presso i primi cabalisti che diedero alla questione una accentuazione lievemente diversa, il testo magico così trasmesso diede origine ad una tradizione sul carattere mistica della Torah quale nome divino onnicomprensivo. Questo passaggio avviene in due tappe facilmente riconoscibili. La prima è in un'affermazione di Mosè ben Nachman (Nachmanide), in un passo di particolare spicco nella prefazione del suo Commentario della Torah, opera che si conquistò grande celebrità nella letteratura ebraica. Tra i portavoce dei primi cabalisti di Spagna Nachmanide era il più autorevole; la sua importanza come talmudista permise alla concezione mistica dei cabalisti, che allora cominciava a venire alla luce, di occupare un posto importante nel cuore dell'ebraismo. Egli afferma: “Esiste presso di noi una tradizione autentica secondo la quale tutta la Torah è fatta di nomi divini, nel senso che le parole che vi leggiamo possono anche dividersi in modo completamente differente, diventando dei nomi (esoterici)... L'affermazione haggadica secondo la quale la Torah fu scritta all'origine con fuoco nero su un fuoco bianco (31) ci conferma nella nostra opinione ch'essa fu redatta in un testo continuo, senza essere divisa in parole, ciò che permetteva di leggerla tanto come una serie di nomi (esoterici) e nel modo tradizionale, quanto come una storia e un insieme di comandamenti. Sicché la Torah fu trasmessa a Mosè in una forma tale che il fatto di dividerla in parole portava a leggerla come un insieme di comandamenti divini. Ma al tempo stesso gli fu trasmessa oralmente in modo che si potesse leggere come un insieme di nomi”. Questa struttura mistica della Torah come insieme di nomi divini spiega ugualmente, secondo l'autore, perché ciascuna delle sue lettere sia importante e perché un rotolo della Torah diventi inutilizzabile nel rituale della sinagoga se contiene una sola lettera in più o in meno. Ma da questo punto non c'era che un passo per arrivare ad una tesi ancor più decisa: non solo la Torah sarebbe fatta di nomi divini, ma costituirebbe essa stessa, nel suo insieme, il solo e unico grande Nome. Ecco che non si ha più un'interpretazione magica, bensì puramente mistica. Essa si trova formulata nettamente e a più riprese da altri cabalisti, più anziani del Nachmanide, che esercitarono con lui la loro influenza sul centro di Gerona: “I cinque libri della Torah sono il Nome del Santo, che sia benedetto!” (32). Ma questa stessa interpretazione si ritrova già nel Sepher ha-Haggim, che non deve assolutamente niente ai cabalisti di Gerona, compilato nel primo terzo del XIII secolo nel nord o nel centro della Francia. La si attribuisce inaspettatamente ai saggi della scienza speculativa, Anshei ha-Mekker, ai quali è attribuita l'affermazione per cui la Torah e il Trono di Gloria sarebbero “il nome di Dio stesso” o, come si può anche tradurre, “la sostanza dei venerabile Nome”, ezem ha-shem ha-nikkbad (33). Il fatto che l'autore dello Zohar, il testo classico della Qabalah spagnola del XIII secolo, abbia ripreso in parecchi passi e con insistenza questa interpretazione, è la ragione per cui essa è divenuta la dottrina cabalistica generalmente ammessa (34).
Per il Sepher ha-Zohar, consultare la sezione dedicata:
“Penso che queste nuove idee fossero ugualmente note al Nachmanide, ma che egli non osasse dar corpo ad un'interpretazione mistica importante in un'opera destinata ad un largo pubblico non iniziato alla dottrina cabalistica. Pretendere che la Torah nella sua essenza non sia niente altro che il solo e grande Nome divino era certamente un'affermazione ardita, quasi temeraria, e richiede una spiegazione. La Torah è così concepita come un tutto mistico la cui primaria destinazione non è di trasmettere un messaggio specifico, ma piuttosto di dar corpo alla potenza e alla pienezza della forza di Dio, le quali, concentrate nel suo Nome, in esso si manifestano. Tutta questa concezione della Torah come Nome non significa che esso sia un nome pronunciabile in quanto tale; e nemmeno ha a vedere con una comprensione razionale delle funzioni possibili d'un nome in quanto elemento di comunicazione in un contesto sociale. Considerare la Torah come il Nome divino significa che Dio ha espresso in essa la sua esistenza trascendentale, o per lo meno quella parte o quell'aspetto di tale esistenza che è possibile rivelare alla Creazione e per mezzo di essa. Meglio ancora: la Torah, essendo già stata considerata dall'antica Haggadah come lo strumento della Creazione, per mezzo del quale il mondo si affacciò all'esistenza, questa nuova concezione della Torah poteva essere considerata come un allargamento, una reinterpretazione mistica dell'antica. Infatti il mezzo attraverso cui il mondo poté affacciarsi all'esistenza è qui ben più che un semplice strumento; esso rappresenta, come ho già detto, una concentrazione della forza divina in se stessa, quale s'esprime nel suo nome” (35). Si supera così di molto la antica concezione secondo cui la Torah racchiude le leggi segrete che, in un ordinamento armonico, regnano sull'insieme della Creazione e la reggono, costituendo così la grande legge del cosmo; si fissa una tesi di portata ancora maggiore, secondo la quale tutte le interpretazioni successive della Torah come linguaggio del Nome non rappresentano che relative approssimazioni di questo assoluto unico che è, nel campo linguistico, il Nome divino. Queste approssimazioni possono a loro volta dare adito a verità profonde sulla creazione e sulla vita dell'uomo; a ciascuna interpretazione se ne può aggiungere un'altra, più profonda ancora; ma tutte non sono infine, nelle tappe infinite della Creazione, che rifrazioni di questa parola assoluta che è il Nome. La teoria linguistica della Qabalah quale si esplicita o è sottintesa negli scritti del XIII secolo, poggia su una fusione dei concetti già esposti dello Yetzirah con la dottrina del Nome di Dio come base d'ogni lingua. Il fatto essenzialmente nuovo è che la sfera di una lingua di Dio, cui mirano i cabalisti, è sollevata al di sopra del mondo creaturale. Nello Yetzirah poteva restare dubbio se le 10 sephiroth e le 22 lettere stesse fossero concepite come create; molti elementi suggeriscono che così fosse. Nelle dottrine dei cabalisti le cose non stanno più così. Le dieci cifre primordiali sono diventate dieci emanazioni della pienezza divina, a proposito delle quali si può parlare soltanto metaforicamente di creazione (36).
Per le Sephiroth, consultare la sezione dedicata:
Nelle sephiroth dei cabalisti Dio si manifesta secondo dieci sfere o aspetti della sua forza. Qui ineriscono anche le 22 lettere, essendo configurazioni dell'energia divina radicate nel mondo sephirothico e la cui apparizione nei mondi esterni o interiori a quest'ambito delle Emanazioni divine non è che un appesantimento graduale, una cristallizzazione più greve di quelle segnature intime d'ogni cosa, corrispondenti alle sempre più pesanti mediazioni della creazione progressiva. Tutto il creato dal mondo dei massimi angeli fino alle sfere celesti, allude simbolicamente a questa legge intrinseca operante al suo interno e dominante nel mondo delle sephiroth. In ogni cosa si rispecchia qualcosa di superiore, o si può anche dire, di centrale ad esso; tutto è trasparente e assume perciò un carattere simbolico e al di là del suo significato proprio ha qualcosa che in esso traluce, ovvero che ha stampato su di esso, sia pure fuggevolmente, la sua orma. Lo Yetzirah era ben lontano da questa concezione. Per i cabalisti viceversa le sephiroth o le lettere, nelle quali la Parola di Dio si scompone o dalle quali essa è costituita, sono soltanto due metodi diversi di rappresentare la medesima realtà. In altri termini: che si voglia delineare il processo della manifestazione di Dio, del suo presentarsi mediante il simbolo della luce e della sua diffusione e riflessione o viceversa come attività della lingua di Dio, delle parole di creazione che si vengono via via differenziando o anche come nomi successivi di Dio, per i cabalisti in definitiva è solo questione di scelta fra simboliche corrispondenti, quella della luce e quella linguistica. Il movimento che fa venire all'essere il creato si può dunque descrivere come un movimento linguistico. In questa frase sono compendiate tutte le analisi Cabalistiche del tema. Spesso negli scritti Cabalistici la dottrina delle emanazioni e la simbolica della luce che la spiega si sovrappongono a una concezione simbolica delle lettere quali segnature segrete del divino in tutte le sfere e in tutti i gradi del processo creativo. La parola ebraica 'oth non significa soltanto lettera ma anche segno in genere e Segnatura. Il plurale 'othijoth implica però una differenza tra il segno di Dio come segno miracoloso ('othoth) e le lettere come segnature specifiche. Almeno, così queste forme distinte di plurale apparvero ai primi cabalisti. Già Isacco il Cieco, il primo cabalista provenzale storicamente noto (1200 circa) faceva derivare 'oth dal verbo 'atha “venire” e per lui le lettere sono segni “che provengono dalle loro cause primordiali”, vale a dire nascoste, in cui sono radicate quali segnature d'ogni cosa. Ma 'othijoth si poteva anche spiegare come “i venturi”, sicché le lettere acquistavano un carattere profetico, alludendo al futuro, al messianico (37). Il commento allo Yetzirah di Isacco il Cieco è il documento più remoto della mistica cabalistica che ci sia rimasto (38). L'inizio di tutte le manifestazioni del Dio nascosto, dell'En Soph o infinito, è da lui descritto negli stadi successivi nei quali il pensiero (di Dio) progredisce a “Origine del discorso” e quindi alle parole o logoi di Dio. Nell'ebraico davar c'è il doppio significato di cosa e parola. Quando perciò Isacco il Cieco parla di “cose spirituali”, che sono il mondo occulto delle sephiroth, egli pensa anche alle “parole spirituali”, nelle quali si estrinseca il pensiero. Già nell'uso linguistico del Midrash invece di dibbur, processo linguistico, discorso, per l'allocuzione di Dio si usa la forma dibber. Nel mondo divino non c'è ancora nessuna reificazione e dibbirim o dvarim sono evidentemente ancora le parole nella loro qualità di forze formanti di ogni cosa. Per Isacco c'è il pensiero ancora sprofondato in se stesso, non discorsivo dell'En Soph che è infinito come la sua stessa origine. Questo pensiero viene da lui, e da lui per primo, distinto dalla Sophia. Il pensare stesso che è ben più di un piano cosmico volto alla creazione e che può contenere, in modo del tutto inaccessibile a noi, aspetti della divinità che non rientrano nella creazione, qui è considerato come la prima sephirâ, mentre la Sophia, nella quale inerisce concentrandosi come in un punto primordiale il volgersi del pensiero alla creazione e pertanto tutto ciò che esso implica, appare come la seconda sephirâ. Questa Sophia è, nella terminologia di Isacco, l'inizio del discorso, il punto originante della lingua di Dio. Essa ancora non è linguaggio, bensì origine e inizio. Le sephiroth che emanano dalla Sophia si combinano secondo le loro varie configurazioni nelle lettere, e le parole stesse che compongono come parole creatici il mondo delle sephiroth sono configurazioni di lettere. La mistica del linguaggio è nel contempo, per i cabalisti, una mistica della Scrittura. Ogni parlare è nel mondo Spirituale contemporaneamente uno scrivere e ogni scritto è un discorso potenziale destinato a diventare sonoro. Chi parla è confitto tanto nel Pneuma quanto nello spazio tridimensionale della Parola. “La Scrittura che per il filologo è un riflesso secondario e oltretutto inservibile del linguaggio reale, per i cabalisti è lo scrigno dei loro misteri. Il principio di una trasposizione fonografica della lingua nella scrittura e viceversa agisce nella Qabalah attraverso l'idea che le lettere sacre dell'alfabeto sono esse stesse gli elementi e le segnature che un fonetista moderno cercherebbe su una registrazione fonografica. La parola creatrice divina si esprime legittimamente in quelle linee sacre. Di qua del linguaggio sta la riflessione muta che è il pensiero puro che pensa se stesso, si può dire, il senso profondo in cui alberga il Senza Nome” (39). Dalla Sophia in poi si chiude, identico al mondo delle sephiroth, il mondo del puro Nome come elemento primordiale del linguaggio. Così Isacco il Cieco interpretava la proposizione dello Yetzirah sopra riferita, che tutto il linguaggio procede da un Nome. Infatti quell'albero delle potenze divine, che le sephiroth formerebbero, secondo il Bahir, il più antico testo Cabalistico, appare a Isacco il Cieco come un diramarsi delle lettere del sommo Nome.
Per il Sepher ha-Bahir, consultare la sezione dedicata:
“La radice (cioè il linguaggio e le realtà spirituali che sono le parole di Dio) consiste d'un Nome di cui le lettere (nelle quali si articola) sono come i rami, che appaiono come fiamme che diteggiano o come le foglie e i rami dell'albero le cui radici sono pur sempre nell'albero stesso... e tutte le devarim diventano forme e tutte le forme provengono (in ultima analisi) dal Nome come il ramo dalla radice. Ne segue che tutto è il Nome” (40). Il mondo del linguaggio è così denotato come l'autentico “mondo spirituale”. La lettera è l'elemento del mondo come scrittura. Nell'atto permanente del linguaggio della creazione la divinità è l'unico parlante infinito ma altresì lo scrittore archetipico, che affonda la sua parola nella sua opera. Le lettere che sono configurazioni della forza creatrice divina rappresentano le forme supreme, e poiché esse prendono forme visibili nel mondo terreno, possiedono, secondo Isacco il Cieco, un corpo e un'anima. L'anima d'ogni lettera è chiaramente ciò che in essa vive dell'articolazione del Pneuma divino. Che questo “discorso infinito” (ha-dibbur ha'en-Sof) il quale anima e contiene tutto il creato, abbia trovato il suo risvolto nella Torah è cosa evidente per i cabalisti. Come questo risvolto del linguaggio di Dio nella creazione e nella rivelazione si situi rispetto al suo Nome, anzi con la molteplicità dei suoi nomi designanti i vari modi del suo essere, Isacco ancora non lo dice, così come egli si pronuncia in genere con molte riserve sul Nome di Dio. Certi suoi seguaci furono meno riservati in questo rispetto, specie gli anonimi autori di un ingente numero di trattati dei primi del secolo XIII, che designo da uno dei loro testi maggiori come il gruppo degli scritti 'Ijjun, essendo eccezionale il breve testo speculativo Seffer ha-'Ijjun “Libro dell'approfondimento” ovvero: della contemplazione. Vi si intrecciano idee neoplatoniche sulla metafisica della luce con la mistica linguistica cabalistica, specie relativa al Nome divino. Del resto già l'antico esoterismo pre-Cabalistico conosceva il nesso fra il Nome di Dio e le luci di fuoco. Così leggiamo nell'Alfabeto di Rabbi Akiba, uno dei primi testi: “Dio siede su un trono di fuoco e attorno a lui come colonne di fuoco i Nomi impronunziabili Scemoth mafora-scim” (42).
Per l’Alfabeto di Rabbi Akiba, consultare la sezione dedicata:
Ma solo in questi nuovi testi Cabalistici questo metaforeggiare campeggia in primo piano e le potenze creatrici sono insieme “lami intelligibili” e nomi, che si sviluppano nel mondo mistico della Merkaba cioè nel mundus intelligibilis. Si delineano così due tendenze: l'una procede dalle lettere e ne ricava il Nome, l'altra dal Tetragramma stesso quale realtà fondamentale, rispetto a cui tutti gli altri nomi sono relativi, espressioni simboliche degli aspetti infiniti della pienezza di potere divina. Uno di questi testi designa il Tetragramma come “la radice di tutti gli altri Nomi” e sempre più spesso in questa cerchia lo si chiama “radice, tronco, ramo e frutto” del tutto (43). Dio, si potrebbe forse dire, è per i cabalisti tutt'insieme il Nome più breve e più lungo. Il più breve perché già ogni singola lettera rappresenta di per sé un Nome (44). Il più lungo perché soltanto il complesso della Torah lo esprime. Specie in uno di questi testi, Ma ajan ha-chochma: “La fonte della sapienza”, che è sempre stato considerato di insolita difficoltà, la mistica del linguaggio è il punto di partenza (45) e due vi sono i punti forza: l'uno è la consonante yud (y), la cui forma grafica è un uncino quasi puntiforme e che è la prima lettera del Tetragramma. Essa è un simbolo visibile dal punto di partenza primordiale del linguaggio, da cui si enucleano tutte le altre forme. L'altro punto di forza è la consonante aleph, lo spiritus levis il cui ruolo fonetico ha una somma importanza per i cabalisti: è l'avvio laringale d'ogni emissione vocalica, inteso come elemento dal quale, in quanto membro della serie alfabetica origina ogni suono articolato. Il Tetragramma è per l'autore l'unità del movimento linguistico diramantesi dalla radice primordiale il quale sorge nell'aura o etere primordiale che circonda Iddio. L'autore tenta di mostrare che dal movimento dell'aleph, dell'impulso vocale ancora muto, procede il Nome di Dio e con ciò tutto il linguaggio. Benché l'aleph stesso scompaia nel corso di questo ulteriore sviluppo, rimane tuttavia il punto di equilibrio di ogni discorso, la “linguetta che pareggia i piatti della bilancia” come è designato da una frase dello Yetzirah. Ma dallo Yud procede un altro movimento, la cui forma è costituita da due uncinetti che s'incontrano ad angolo retto. Queste sono le vibrazioni che emanano dall'origine dello Yud, dal movimento del punto primordiale. Lo Yud è la “fonte zampillante” d'ogni movimento linguistico che si differenzia e ramifica all'infinito ma per ribaltarsi dialetticamente e tornare quindi al suo centro e punto di partenza. Sull'autore il principio del movimento ciclico esercitava un fascino speciale in tutti i processi cosmogonici che egli via via descrive, i quali si ribaltano tornando ciclicamente all'origine non appena si sono sviluppati nella loro pienezza, esaurendosi. La potenza magica di chi parla è il potere di chi sa porsi alla radice del processo linguistico, così comprendendo ogni linguaggio e ogni estrinsecazione dell'essenza e pervadendone le espressioni. Connessa agli sviluppi linguistici dell'aleph è l'esposizione dell'aleph nella “Spiegazione dello Scem ha-meforash” del nipote e discepolo di Isacco il Cieco, Asher ben David. Egli dice: “L'aleph è il punto d'indifferenza e d'equilibrio, e chi pronuncia l'aleph (nell'elocuzione muta), indica con ciò l'Uno che in lui si unisce. L'aleph dovrebbe apparire e essere pronunciato entro la serie delle lettere perché è più intimo e nascosto di tutte le altre lettere e se appare all'inizio (dell'alfabeto) è affinché ne sia posto in evidenza ed annunciato il rango, il fatto che da essa le susseguenti succhiano (la loro forza) e tutte ne promanano nutrendosene e tutte si possono segnare nella figura dell'aleph, da cui, a voltarla in tutte le direzioni, ricavi tutte le altre lettere. L'aleph più di tutte le altre lettere addita all'unità, e così si può intendere, anche secondo la notazione massoretica, il verso terzo del Salmo 100: “Ci ha create e apparteniamo all'aleph”, cioè a quella perfetta unità da cui tutto costantemente e ininterrottamente trae la sua benedizione. E dal processo delle altre consonanti contenute nell'aleph si edifica lo Shem ha-meforash, il che non vale per nessun'altra lettera” (46). In questa cerchia si parla anche per la prima volta di un Nome di Dio che non ha avuto scarsa parte nelle speculazioni successive dei cabalisti. Già alcuni filosofi ebrei del secolo XII e in primo luogo Jehuda Halevi e Abraham ibn Ezza osservarono che le quattro consonanti che appaiono nei due Nomi di Dio più importanti della Torah, Jahve (hwhy) e Ehjeh (hwha), sono le medesime che in ebraico si usano come vocali (matres lectionis). Esse rappresentano il nesso delle consonanti e delle vocali, e si possono considerare gli elementi più spirituali fra le consonanti. Perciò apparvero ai filosofi i simboli più adatti dello Spirito divino nel mondo e pertanto gli elementi più acconci a quei due Nomi di Dio. Ma solo i cabalisti del gruppo dell'Ijjun e in seguito i loro seguaci trassero da esse il Nome di Dio [Aleph, Hé, Vav, Yud], come scaturigine d'ogni altro nome, come vero Nome originario (47). Secondo il Sepher ha-Ijjun questo fu il nome inciso sull'anello con cui la terra fu suggellata. Rese soprattutto accetta ai cabalisti questa assunzione di riflessioni filosofiche e della loro connessione con un Nome primordiale di Dio, una circostanza: che il valore numerico di queste quattro consonanti in ebraico, dove ogni consonante è contemporaneamente una cifra, è 22 (48). Così questo simbolo non solo abbraccia come Nome tutto l'alfabeto, ma se ne ricavano entrambi i Nomi fondamentali di Dio. Uno dei maggiori cabalisti, Abraham Abulafia, alla fine del secolo XIII si spinse così lontano da esprimere l'opinione che questo sia il vero Nome originario di Dio, che la Torah si preoccupava di non svelare se non in trasposizioni, per non mostrare al volgo un mistero che potrebbe essere usato male: “Mi domanderei: se così è (che le lettere Aleph, Hé, Vav, Yud formano il vero Nome di Dio), perché Egli non lo indica come il Nome per eccellenza? In realtà sarebbe stato giusto. Ma poiché Dio volle celare il suo Nome (49) per mettere alla prova il cuore degl'iniziati e con esso purificare il loro intelletto, pulendolo e chiarificandolo, era necessario tenerlo coperto e nascosto. Perciò esso è composto delle lettere che sono chiamate (dai grammatici) le lettere del nascondimento. Perciò era tutto celato e gl'iniziati stessi, anche sprofondandosi in esso, non ne capivano niente e il Nome (nella forma del Tetragramma) era loro presente soltanto sulla via della Tradizione ma non su quella della conoscenza intellettuale. Era però necessario che il momento unificante rappresentasse due poli opposti per portare al compimento rispettivo due tipi umani, dei quali il Salmista (XXVI,7) dice: “Uomo e bestiame fai partecipare al tuo soccorso”, intendendo rispettivamente gli spirituali e gli ignoranti (50), dei quali gli uni si sprofondano speculando nel Nome (hwhy), mentre gli altri ne accettano l'esistenza per semplice tradizione. Agli stolti (al volgo) fu vietato di pronunciarlo, tanto che essi non lo chiamano col suo vero Nome. Ma agli iniziati fu concesso di pronunciarlo ed essi si rallegrarono perciò della loro conoscenza delle vie (dei procedimenti) attraverso le quali si pronuncia... Ne derivò un motivo di celarlo e un motivo di svelarlo. Ma qualora (invece del Tetragramma menzionato dalla Torah) le predette quattro lettere avessero formato un Nome e fosse stato necessario dichiarare che sono queste quattro consonanti a entrare in gioco in tutte le vocali, gli sciocchi si sarebbero meravigliati e avrebbero ritenuto impossibile che il Nome di Dio poggiasse su queste lettere, che servono alle altre come matres lectionis. Essi non avevano infatti nessuna conoscenza del rango di questa Verità massima che doveva perciò essere rivelata in altri modi, incomprensibili agli sciocchi ma tali da riuscire intelligibili ai saggi (51). Il tetragramma della Torah è dunque soltanto un sussidio, dietro il quale si cela il vero Nome primordiale. Nei due Nomi di quattro lettere figurano ogni volta soltanto tre delle consonanti che compongono il Nome primordiale, e la quarta rappresenta il raddoppio di una di esse, la Hé. Mosè Cordovero, il gran cabalista del secolo XVI, cita nel Suo compendio della Qabalah un riassunto delle esposizioni di Abulafia senza dare né il riferimento né l'autore, e ne respinge la tesi (52). Che il vero Nome di Dio non compaia mai nella Torah era una tesi di inaudita radicalità. Una variante di questa idea, che un Nome di Dio comprendente queste quattro lettere in un ordine diverso, fosse il vero Nome di Dio prima della creazione del mondo e che fosse stato sostituito dal Tetragramma soltanto per il fine della creazione di questo mondo, ricompare nella cerchia dell'importante opera cabalistica Temuna, un libro in cui le forme delle lettere ebraiche sono considerate la forma segreta di Dio visibile nella Torah. Il profeta e mistico che contempla questa forma della divinità, la scorge nelle segnature delle lettere che sono il linguaggio coagulato di Dio. Soltanto nell'eone presente, nella forma per noi leggibile della Torah, il Tetragramma è subentrato a questo Nome originario. Di più: questo testo parla di una successione di eoni o periodi della creazione detti sh'mittoth, nei quali tutto il processo della storia universale si porta a compimento. In ognuno dei sh'mittoth appare l'essenza immutevole della Torah in varie manifestazioni e letture che corrispondono all'espressione assunta dalla lingua di Dio nel particolare eone. Al termine della storia del mondo tutte le cose nel “grande anno del giubileo” ritornano alla loro origine nella terza sephirâ, Binâ e tutte le emanazioni e i mondi inferiori scompaiono. Il Nome di Dio che si mantiene anche in questo ritorno di ogni cosa nel seno di Dio, è appunto questo Nome che non è altro che una rivelazione dell'essenza divina rivolta a se stessa e non già a qualcosa di esterno a sé (53). L'ipotesi d'un tal Nome originario, contrastante con gli altri Nomi di Dio, mostra una differenza che si fa valere in non pochi scritti Cabalistici, anzi una contraddizione non esplicita fra due concezioni. L'una presuppone, così come è enunciata nelle fonti citate, che Dio in se stesso cioè di qua da ogni prospettiva di creazione, ha un Nome che è noto soltanto a Lui, che, se così si può dire, esprime la sua autocoscienza. In contrapposizione a questa c'è la concezione propria della massima parte delle fonti Cabalistiche, e dello stesso Zohar, secondo cui il deus absconditus è innominato. Il Tetragramma non è chiamato Shem ha-'ezem, il nome essenziale o proprio di Dio, perché esprima l'essere dell'En Soph , dice il Cordovero (nei Pardes Rimmonim c. 19, § 1 ad finem), bensì perché è l'essenza della sua emanazione o manifestazione. Tutti i Nomi sono condensazioni dell'energia che da Lui irradia ed esprimono perciò il rovescio linguistico della storia universale, resa a noi simbolicamente visibile dal “Verbo di Dio” che se ne viene sviluppando. Molti cabalisti, da Abulafia a Cordovero, interpretano la locuzione ebraica dibbur 'elohi “Parola divina” o “discorso divino” secondo il significato che questa radice ha in aramaico, cioè: condurre, guidare. Essa coincide perciò con la direzione generale del mondo, e ciascun Nome di Dio rappresenta perciò una certa tendenza di questa direzione. Così, a misura che ai cabalisti sembrasse opportuno, la mistica del linguaggio poté apparire un'espressione metaforica di concetti teologici generali e ad essi poté essere adattata (54). La parola in tal modo appare un tutto omogeneo rispetto al quale il riferimento ai suoi elementi nelle lettere genera una certa tensione, e di fatto i cabalisti evitano di precisare in genere il nesso fra questa concezione della parola come indirizzo del pensiero divino ed i particolari della mistica linguistica come movimento delle lettere originarie. Che i Nomi mistici di Dio siano condensazioni, assembramenti delle irradiazioni di Dio e che perciò appartengano a una sfera metafisica in cui coincidono l'ottico e l'acustico, appare chiaro da non pochi passi della letteratura del gruppo di 'Ijjun. Essi sono insieme luci intellettuali e suoni. Molti cabalisti che si posero sulle orme del gruppo non esclusero rapporti fra i nomi propri divini ed umani, per sconfinata che sia la superiorità dei primi. Jakob Rohen di Soria, compilò nel 1260-70 un diffuso commento alle visioni della Merkaba del profeta Ezechiele (c. 1) (55), dove fra l'altro si parla dei 72 Nomi di Dio ricavati dai tre versi dell'Esodo XIV,19-21, ognuno composto di 72 consonanti, e si dice: “Sappi che i 72 Nomi santi servono (nel mondo del Trono della Merkaba) e sono uniti all'essenza della Merkaba. E sono come splendide colonne di luce e si chiamano (nella Bibbia) bnei Elohim, e tutto l'esercito dei cieli rende loro omaggio, come servitori che ossequiano i figli del re...”. É noto che i nomi degli uomini non sono attributi; il corpo ha sostanza e attributi, ma il nome proprio è qualcosa di aggiunto, come risulta dai nomi dei patriarchi secondo la spiegazione etimologica che ne è data nella Bibbia. l nome è diverso dunque dalla sostanza e non è né sostanza né attributo e non è nulla di concreto, mentre il corpo è sostanza, attributo e concretezza. Il nome è qui aggiunto all'essere, ma i Nomi divini sono l'essere stesso e potenze della divinità e la loro sostanza è la sostanza della luce di vita (una delle sephiroth più alte). Ma se si esamina con precisione il nome proprio dell'uomo, si scopre che anch'esso fa tutt'uno con l'essere (che designa) tanto che il nome non si può staccare dall'essenza né nome ed essenza si possono distinguere, perché il nome è strettamente connesso all'essenza... Talché anche i nomi degli uomini sono coessenziali e non si può dire che i Nomi divini sieno qualcosa di inessenziale, essendo essi tutti potenze intellettuali divine scalpellate fuori dalla stupenda luce [che è ancor più alta della “luce della vita”]. Non pensare che i Nomi divini come quelli di 12 o 42 o 72 lettere e gl'innumerevoli altri Nomi mistici sieno soltanto vuote parole, consistendo essi tutti di lettere, che volano in alto, come dicevano i maestri della Qabalah delle lettere del Nome di 42 lettere, che volano in alto fino alla Merkaba dove sono le colonne di luce che si congiungono in un grosso raggio, e anche la Gloria di Dio si congiunge ad esse e si alza e nasconde nell'infinitamente sublime e nascosto (56). Nel linguaggio umano c'è un riflesso del linguaggio divino, ed essi coincidono l'uno con l'altro nella Rivelazione. Friedrich Schlegel, la gran mente del protoromanticismo, era solito dire che i filosofi dovrebbero diventare grammatici. Dei mistici non lo si può dire, dato che la lingua di Dio, la “parola interiore” con cui essi hanno a che fare, non possiede una grammatica. Essa consiste di Nomi che sono più che Idee. Ritrovare nella parlata umana il Nome, è il fine della preghiera secondo la concezione cabalistica. Già la tradizione dei cosiddetti chassidim tedeschi del secolo XII poneva al centro delle meditazioni sulla preghiera la meditazione dei Nomi che stanno dietro le parole. Essi sono richiamati, si potrebbe dire, evocati dalle parole della preghiera. Attraverso procedimenti numerologici e combinando e tramutando le parole della preghiera si scopre in questa una dimensione nascosta nella quale la preghiera, l'invocazione di Dio è tutt'insieme un calarsi nel Nome che fa ricorso allo scongiuro. Nelle dottrine Cabalistiche sull'aspetto mistico della preghiera, queste concezioni, dalla Qabalah luriana fino agli ultimi sviluppi, hanno avuto una parte preponderante. I grandi libri mistici di preghiere di R. Shalom Shar'abi (morto nel 1777) sono partiture in cui il testo tramandato è accompagnato da una rappresentazione grafica, quasi da pentagramma, dei Nomi di Dio e delle loro variazioni, che sprofonda la meditazione dell'orante in queste parole (57). É come un ritorno del linguaggio umano differenziato al linguaggio, che in esso traluce, del Nome divino. Questa non è l'intera teoria cabalistica della preghiera, nella quale anche altri momenti hanno la loro importanza, ma ne è l'aspetto mistico-linguistico, che ci importa in questo contesto. Anche nelle parole comunicative sono impliciti i Nomi. Per tornare ora all'altro caposaldo della teoria cabalistica del linguaggio, cioè all'idea della Torah come lingua di Dio, va rammentato che la sua concezione come Nome di Dio risulta dalle opere del cabalista spagnolo di notevole risonanza Josef Gikatilla di Medina Celi. Secondo lui la Torah rivelata è tutta edificata sul Tetragramma ed è tessuta di esso e dei suoi nomi aggiuntivi, cioè degli epiteti di Dio che ne discendono, sottolineandone uno speciale momento. Essa è un tessuto fatto di tali epiteti i quali a loro volta sono tessuti dei vari Nomi di Dio come El, Elohim, Shaddai. Ma anche questi nomi santi dipendono tutti in ultima istanza dal Tetragramma, cui sono connessi e in cui sono unificati. “Tutti i Nomi della Torah sono contenuti nel Nome di quattro lettere, che si chiama il ceppo dell'albero, e gli altri Nomi ne sono in parte radici, in parte diramazioni (58). La Torah è dunque un vivo abito e tessuto, un textus in senso stretto, nel quale il Tetragramma è contessuto in modo nascosto o palese, come una specie di motivo conduttore fondamentale e ritorna comunque in tutte le metamorfosi e variazioni possibili. Non è solo una struttura che comprende il grande Nome nel suo complesso, ma anche una struttura costruita su quella base. Secondo le procedure dello Yetzirah Dio unì, permutò e combinò le lettere del Nome con quelle dell'alfabeto, e le cambiò l'una con l'altra secondo certe leggi, così formando gli altri Nomi e appellativi (Kinnujim) di Dio, e questo processo è ripetuto con questi altri elementi, si ottengono le combinazioni di lettere che nella forma comunicativa della frase ebraica leggiamo nella Torah. Nell'epilogo di una delle sue opere Gikatilla si diffuse ulteriormente sulla natura mistica della Torah. Che essa, secondo le prescrizioni rabbiniche circa l'uso sinagogale, dovesse essere scritta soltanto con le consonanti, senza aggiunte di nessun genere, e che su certe consonanti si ponessero secondo la Tradizione degli uncini, Gikatilla, d'accordo coi cabalisti del suo tempo, lo spiega con gli infiniti significati stratificati potenzialmente in queste consonanti, che una scrittura vocalica limiterebbe. Come la fiamma non ha forma e colore univoci, anche il rotolo della Torah non contiene nelle sue proposizioni un significato univoco, ma si può interpretare in molti modi. Da questa tesi generalmente riconosciuta egli trae però una conclusione di vasta portata: nel mondo degli angeli si legge questo significato diversamente che in quello delle sfere, per non dire del mondo inferiore e terreno, e altrettanto vale per i milioni di altri mondi contenuti in questi tre. In ciascuno la Torah è altrimenti letta e spiegata, a seconda della particolare capacità di comprensione e natura. La Relazione si apre in un'infinita ricchezza di significati nei milioni di mondi; la Parola di Dio, in altri termini, giunge in tutti i mondi infinitamente pregnante di significati, ma non ha un senso fermo. Essa è, come ho detto già una volta, l'Interpretabile per eccellenza. Gikatilla giunge al punto di chiamare la Torah “la forma del mondo mistico”, ma non si spiega meglio. Nel testo consonantico canonico della Torah sono contenute tutte le infinite possibilità della sua interpretazione. Per i cabalisti il fatto che Dio a questo modo esprima se stesso, emerga nel linguaggio, per lontana che questa sua impressione possa essere dall'intelligenza umana, è infinitamente più importante di ogni specifico significato o comunicazione che quell'espressione possa trasmettere. La lingua di Dio è infatti un assoluto che si esplica in significati svariati nelle sue apparizioni in tutti i mondi, e di qui la lingua umana acquista la sua dignità benché volta alla comunicazione (60). L'idea qui esposta nel modo classico da Gikatilla ha avuto vari svolgimenti. L'autore del Tikhunei Zohar, scritto in Spagna attorno al 1300, la accolse nel quadro delle sue esposizioni sul duplice aspetto della Torah, quale appare nel mondo delle emanazioni divine e quale nel mondo della creazione. Nel primo essa è ancora un contesto puramente mistico di natura spirituale, mentre nel secondo, conformemente alla natura della creazione, si è materializzata. Il nocciolo mistico è sempre compreso in questo discorso, ma è inserito come significato o pluralità di significati stratificati dentro al guscio della Torah storica comunicativa (61). Queste idee hanno una forma conclusiva interessante negli scritti di Israel Saruk, un cabalista platonizzante della scuola luriana (1600 circa) e dei vari autori che ne sentono l'influsso. Presso costoro il processo linguistico che origina nell'essere infinito di Dio deriva dalla gioia, dal piacere o dalla voluttà di se stesso - in ebraico sci'asciu'a - che destò un movimento in En Soph, movimento che è la scaturigine di ogni processo linguistico, poiché si articolò secondo le combinazioni delle 22 lettere alfabetiche di cui parla lo Yetzirah. Così sorge un movimento in En Soph “da sé a se stesso”, grazie a cui quella gioia di se stesso di En Soph si esprime, insieme a tutte le virtualità occulte d'ogni espressione. Da questo intimo processo si tesse l'abito primordiale - in ebraico malbush - con la sostanza di En Soph, e questo è la Torah primordiale, nella quale la Scrittura, la segnatura occulta di Dio, precede il discorso, talché il linguaggio proviene in definitiva dal diventar sonora della Scrittura e non viceversa. Queste combinazioni di lettere secondo Saruk procedettero in una sequenza determinata da questo movimento originario. Nel halbush si accompagnano al Nome di Dio quattro lettere. I cabalisti conoscono quattro metodi diversi di sviluppare il Tetragramma scrivendo per disteso il nome delle sue lettere, sicché ne derivano quattro Nomi, 45, 52, 63 e 72.
Per i Nomi 45, 52, 63,72 consultare la sezione dedicata: Prima del Principio: Caduta e Restaurazione
Allorché En Soph si restrinse in se stesso, questo abito della Torah primordiale si ripiegò rimanendo in En Soph quale forza primordiale d'ogni processo linguistico, però uno Yud di uno dei Nomi entrò nello spazio originario prodotto dal processo della tsimtsum trasferendo con la sua forza concentrata di Yud puntiforme, quel processo linguistico a tutte le successive emanazioni e a tutti i mondi ulteriori. Nel mondo più alto la Torah, secondo questa concezione, forma una serie di quelle combinazioni dell'alfabeto da due consonanti, come in quell'abito primigenio. Nelle loro disposizioni primordiali esistono i germi di tutte le possibilità ulteriori del processo linguistico. Solo nel secondo mondo la Torah si manifesta come una successione di nomi mistici di Dio, costruiti attraverso ulteriori combinazioni dei primi elementi. Esso contiene le stesse lettere, ma non nella stessa successione che nella Torah a noi accessibile. Nel terzo mondo le lettere appaiono come esseri angelici i cui nomi sono spiegati, almeno in base alla prima lettera. Solo nell'ultimo mondo la Torah diventa visibile nella sua forma rivelata, anche se essa contiene in modi occulti i nomi di tutte le cose e di tutti gli esseri umani implicitamente, cioè il mondo del linguaggio e dei nomi in genere (62). Il linguaggio originario e paradisiaco dell'uomo possedeva ancora questo carattere sacrale, era cioè immediato e direttamente connesso all'essere delle cose che esprimeva. In essa c'era ancora nell'uomo il processo linguistico del Creatore nella creatura. Solo l'eco del divino, poiché col soffio del Pneuma divino s'insinuò la confusione della lingua risultante da un'hybris magica, per effetto della quale l'uomo volle “farsi un nome”, come si dice in Genesi XI,4, suscitò le lingue profane. C'erano cabalisti i quali credevano che all'ebraico come lingua primigenia mancassero i concetti puramente profani, non essendo esso destinato a usi profani. La generazione che volle edificare la Torre di Babele abusò magicamente della lingua sacra, per imitare fino a un certo punto l'attività creatrice di Dio mercè la conoscenza dei nomi puri di tutte le cose, ottenendo per sé un nome adoperabile a ogni fine. La confusione delle lingue consistette nello smarrimento e oblio di questa lingua, sicché i parlanti dovettero trovare denominazioni nuove per le singole cose. Di qui nasce la natura convenzionale delle lingue profane di fronte a quella sacrale dell'ebraico, e anche la presenza di elementi sacrali sparsi in esse (63). E notevole che l'autore dello Zohar si mantiene riservato circa la questione della lingua. Evidentemente gli premeva più la simbologia delle dieci sephiroth come figura mistica di Dio che si riflette nel mondo, che non la simbolica linguistica. Egli chiama il discorso di Dio alla creazione del mondo “la forza che fu distaccata in segreto dal mistero dell'En Soph all'inizio, quando si formò il pensiero della creazione”. L'attività che così si manifesta è quella che la Torah chiama discorso (64). Il processo di emanazione si può configurare anche come linguistico, in quanto il pensiero più intimo diventa una voce ancora del tutto nascosta e non sonora, e questa, da cui nasce ogni lingua, diventa un suono ancora inarticolato. Solo quando questo si dispiega ulteriormente, sorge in esso l'articolazione della parola e del discorso, che rappresenta l'ultimo gradino dell'autorivelazione di Dio. Negli scritti del cabalista spagnolo Abraham Abulafia di Saragoza queste idee trovano la loro espressione più forte; essi furono compilati, per la parte che ci è pervenuta, nell'Italia meridionale ed in Sicilia, fra il 1280 e il 1291. La mistica del linguaggio sta al centro delle opere di Abulafia, cosa tanto più straordinaria dal momento che egli si dichiara sempre partigiano radicale di Maimonide, nella cui scolastica strettamente aristotelico-arabizzante con elementi neoplatonici, è assente ogni considerazione mistica sul linguaggio e in genere ogni teorica linguistica. Ma Abulafia sostiene che la propria dottrina espone il versante esoterico accuratamente occultato da Maimonide, cui pure in parecchi passi del suo capolavoro, “La guida degli Smarriti” egli accenna, ma sul cui contenuto i suoi esegeti più sagaci non hanno potuto finora mettersi d'accordo. Questo aspetto del pensiero di Abulafia, inserito in quello di Maimonide, per importante che sia in se stesso, è irrilevante ai nostri fini, perché la sua teoria del linguaggio non l'ha ricavata di lì, ma l'ha invece ricevuta da maestri cabalisti per svilupparla quindi a modo suo. Il centro dell'interesse di Abulafia, come anche di Maimonide, è costituito dalla dottrina dell'essenza della profezia, con una differenza peraltro decisiva, che per Maimonide la profezia è un altissimo fenomeno nei rapporti dello spirito umano con Dio, ma essa è inattuabile presentemente e tornerà in vita soltanto nell'epoca messianica. Per Abulafia viceversa si può attingere la profezia anche in quest'epoca, e le sue opere sono un tentativo di rendere agevole e in certa misura apprendibile la via che ad essa conduce. Questa dottrina poggia però su una mistica linguistica celata da un ammanto curiosamente razionalistico (65). Gli serve come punto di partenza la teoria linguistica dello Yetzirah, dalla quale trae conclusioni radicali (66). Creazione, rivelazione e profezia sono per Abulafia fenomeni del mondo linguistico. La creazione in quanto atto della divina scrittura, per cui lo scritto è materia della creazione. Rivelazione e profezia quali atti nei quali il Verbo divino si versa non solo una volta, ma sempre rinnovatamente nel linguaggio umano, presentando ad esso la ricchezza infinita d'una sconfinata intelligenza della connessione delle cose. L'idea della creazione come divina scrittura con cui Dio incorpora nelle cose il suo linguaggio, lasciandolo in esse come una segnatura, torna in molti passi delle sue opere (67). “Il mistero che sta alla base dell'esercito (di tutte le cose) è la lettera, e ogni lettera è un segno (un simbolo) ed un rinvio alla Creazione. Come ogni scriba tiene in mano la penna e ne fa colare le gocce dalla materia dell'inchiostro, disegnando prima nel suo spirito la forma che vuol dare alla sua materia, per cui la sua mano è simile alla sfera vivente e muove la penna inanimata che gli serve da strumento e con la quale si congiunge, per far colare le gocce sulla pergamena che rappresenta il corpo che è disposto a portare materia e forma - così è della creazione nelle sue sfere superiore ed inferiore, come capirà l'intenditore, dato che non è concesso di spiegarlo con maggior precisione. Le lettere perciò sono state poste come segni (simboli) e allusioni, al fine di dar forma alle materie della realtà, alle sue forme, alle sue forze motrici e ai suoi arconti e custodi (cioè: agli esseri intermediari), ai suoi spiriti e alle sue anime, e perciò la Sapienza è contenuta e raccolta (concentrata) nelle lettere, nelle sephiroth e nei nomi e questi e quelle sono composti gli uni degli altri” (68). Le lettere hanno anch'esse materia e forma, specie nella loro forma scritta, un po' meno o meglio più spiritualmente nelle loro modalità esistenziali dette o pensate. Ciò che nel quadro citato era l'inchiostro, che introduceva l'elemento formale nella materia, nella creazione organica e nell'ambito umano è il seme che già contiene la materia e le forme che si sviluppano (69). Il momento più importante della mistica del linguaggio di Abulafia è però la sua dottrina delle combinazioni di lettere e del loro movimento mediante le vocali, che egli chiama la scienza della profezia, vale a dire un modo metodologicamente sicuro di prepararsi al contatto con la Parola di Dio, il linguaggio divino che penetra la facoltà di eloquio dell'uomo. Il portatore del discorso divino, del dibbur'elohi, è per Abulafia l'intelletto attivo, che nella filosofia ebrea ed araba del Medioevo non è più concepito come nella psicologia artistotelica quale una facoltà inerente all'anima umana, bensì come una potenza cosmica, che in Maimonide ad esempio appare come l'intelligenza dell'ultima sfera sopra il mondo sublunare. Ognuna delle sfere del cosmo tolemaico corrispondeva ad una intelligenza motrice che era un effetto della divina volontà creatrice. Queste intelligenze emanano l'una dall'altra, e l'ultima, l'intellectus agens è la potenza cosmica da cui provengono tutte le forme del creato visibile. Secondo la filosofia classica araba e la sua elaborazione maimonidea, la profezia è l'unificazione dello spirito umano, che si attua e si rafforza nel pensiero, con questa potenza formatrice che media il divino attraverso alle immagini che si liberano nella fantasia in questo contatto profetico. Abulafia adotta questa teoria del profetismo come unione della facoltà intellettuale e fantastica sviluppate al massimo con l'intellectus agens. Ma è nuova in lui la dottrina dell'essenza linguistica di questa unione. Abulafia fu in ciò confortato dall'uso linguistico filosofico dell'ebraico medievale, nel quale l'aggettivo dewari, che letteralmente vuoi dire “linguistico” nel senso di Abulafia, è in genere “razionale” e “ragionevole”. Ciò che nella lingua dei filosofi era chiamata la disposizione razionale dell'uomo poteva anche intendersi come facoltà linguistica. Abulafia unisce la sfera in cui lo Yetzirah fa fissare le 22 lettere che con le loro combinazioni forniscono i suoni primigeni della lingua, alla decima sfera della cosmogonia maimonidea, la cui intelligenza e l'intelletto cosmico o intellectus agens. Egli può quindi dire che secondo l'autore dello Yetzirah le 22 lettere che sono la base di tutte le lingue, si muovono nella decima sfera, la principale fra tutte le sfere della realtà e la prima per rango. Essa è insieme la sfera della Torah e dei divini comandamenti, dalla quale sono guidate tutte le sfere superiori e inferiori e della quale è detto: mediante la Parola di Dio sono sorti i cieli e mediante il soffio della Sua bocca tutte le loro schiere (70). La sfera del linguaggio e della Torah è dunque quella che si schiude nel massimo elevamento dell'uomo in contatto con l'intellectus agens. In esso è racchiuso il “mistero delle lingue” da cui promanano in ultima analisi tutte le lingue del mondo, che non derivano solo dalla generica facoltà naturale di parlare enucleandosene, come la lingua ebraica, la primordiale, ma nei particolari dipendono soltanto da una semplice convenzione dei parlanti. La confusione babilonica delle lingue ha soltanto dissolto e frammentato la lingua sacra originaria nelle settanta lingue dei popoli, ma anche queste sono in definitiva contenute in essa. “La lingua primordiale della profezia è nel discorso che da Dio pervenne ai profeti per il tramite della lingua perfetta che comprende sotto di sé tutte le settanta lingue” (71). Abulafia sviluppa nel suo Or ha-sechel, “La luce dell'intelletto”, assai diffuso nei circoli cabalistici, la trattazione del “discorso interiore” dell'uomo operante nell'anima intellettiva, in base alle concezioni dello Yetzirah. Il discorso divino, che proviene dall'intelligenza e dalla Torah, dalla sfera dell'intelletto attivo che comprende insieme l'intelligenza e la Torah, l'intelletto e la rivelazione simultaneamente, rappresenta l'essenza della profezia” (72). “I cuori degli uomini sono presso Dio, che per noi è la pergamena recante come materia la forma delle lettere, tracciate su di essa con l'inchiostro. Presso Dio i cuori sono le tavolette per scrivere e le anime sono come l'inchiostro e il discorso che da lui proviene e che è simultaneamente la conoscenza, è come la forma delle lettere, che erano incise sui due lati delle tavole della legge... e benché presso Dio il discorso non sia uno dei generi di discorsi che possono essere assorbiti dai cuori, tuttavia è un discorso”. In questo discorso divino rientra il linguaggio e la vera conoscenza intellettuale, che il profeta ottiene. La conoscenza profetica è identica al flusso del discorso divino che la investe (73). Il nome di Dio per Abulafia è la più alta espressione, in cui tutti i processi linguistici si riuniscono come in un punto focale. Esso vibra in ogni processo di unione di lettere e in ogni unione di unioni fino all'infinito (74). Tutte le cose create possiedono realtà soltanto nella misura in cui in qualche modo partecipino di questo “Gran Nome”. Il movimento delle lettere è inerente anche ai rapporti che legano le lettere del Nome di Dio. Le combinazioni delle lettere e le combinazioni di queste combinazioni e così via, nelle quali il Nome di Dio si esplica sviluppandosi per il tramite delle lettere scritte, fonicamente pronunciate e interiormente pensate fino alla lingua dell'uomo, contengono tutte le verità, le conoscenze intellettuali possibili, non solo della scienza umana, ma anche delle cose divine. Ogni atto in cui così rientrano le lettere è simultaneamente un atto di conoscenza anche se esso è un atto di conoscenza a noi tuttora precluso e indecifrabile. Così Abulafia ha inserito le verità metafisiche della filosofia, che per lui hanno trovato il loro coronamento in Maimonide, nonché la mistica che è fondamentalmente identica alla via della profezia, in questa scienza dei nessi fra gli elementi del linguaggio. Tutto per lui proviene infatti da questa scienza che egli chiama chochmath ha-zeruf , scienza combinatoria. Ho già osservato che il linguaggio di Dio, di cui parla Abulafia, non ha grammatica. Si può dire però che la chochmath ha-zeruf di Abulafia rappresenta un certo qual corso grammaticale di questa lingua. Essa è non solo una dottrina linguistica, ma anche un'introduzione a un'ordinata meditazione, il cui oggetto non sono figure e simboli, bensì le lettere ed i nomi di Dio, anzi, l'unico “Gran Nome” di Dio. Non approfondisco ora questo aspetto mistico che si sottrae ad una rappresentazione elementare, ed essa d'altronde è soltanto una proiezione della sua teoria linguistica sulla dottrina della meditazione progressiva intorno alla lingua come via d'accesso alla conoscenza mistica. La chochmath ha-zeruf è per lui “la scienza della logica maggiore e interiore” (75) che si sottrae alla sillogistica. Poiché i “misteri della Torah” che vi si dischiudono, sono come dice Abulafia utilizzando spiritosamente il doppio senso dell'espressione ebraica sithrei tora, dialettici per natura: sono non solo misteri ma anche contraddizioni, paradossi. La loro soluzione è offerta dall'approfondimento, della chochmath ha-zeruf (76), che è la “scienza profetica” al cui paragone quella dei filosofi e dei metafisici è, per importante che sia, soltanto una scienza minore. Eppure è madre a tutte le altre scienze che da essa assorbono la loro forza e chi la padroneggi ottiene “con facilità” l'unione profetica con l'intelletto agente (77). Questa scienza più profonda connette le lingue fra loro. Anche le lingue straniere sono connesse alla conoscenza di questa mistica linguistica (78): “Udii la Parola del mio cuore più intimo e m'affrettai a ubbidire al Suo comando e ad adempiere alla Sua volontà, facendo ciò che essa desiderava trascrivendo Nomi e combinandoli e provandoli e scindendoli nel crogiolo del pensiero, sicché il dritto fu messo a testa in giù, e ciò che stava a testa in giù fu messo diritto, finché ne derivarono due lingue (dalle metamorfosi combinatorie del Nome), che vennero a servire l'ebraico, cioè il greco e il romanzo” (79). Poiché tutte le lingue derivano per corruzione dalla lingua sacrale originaria in cui il mondo dei Nomi si esplica direttamente, esse sono ad essa pur sempre collegate (80). Così tutte le lingue hanno come punto focale il Nome di Dio, esse possono essere ricondotte a quel centro. Come dice Abulafia, il mistico fonde tutte le lingue nella lingua sacra, sicché in ogni discorso che egli articoli parlando egli è conscio che esso è composto delle 22 lettere sacre. Dal movimento e dalla trasposizione di queste si condensa il Nome di Dio, come egli dice con una metafora assai naturalistica, al modo del burro dalla rapida rotazione del latte (81). Ma qui si deve adoperare una certa cautela perché una simile “rivoluzione delle lettere” operata secondo un procedimento non guidato o maldiretto, porta a conseguenze non mistiche e spirituali bensì demoniche e pericolose. Le conseguenze di questi procedimenti errati sono spesso additate nell'opera di Abulafia (82). Invece del Nome allora compare Satana, che coincide per Abulafia con lo Spirito della natura irredenta. Il vero “mondo futuro”, il luogo della beatitudine è, come vuole uno spiritoso bisticcio, il “mondo delle lettere” che si schiude al mistico nel chochmath ha-zeruf (83). La ricchezza inesauribile di questo universo delle lettere è evidente, infatti “ogni singola lettera nella Qabalah è un mondo in se stessa” (84). In questo universo le lettere, che in altra prospettiva erano forme e segnature occulte, diventano a loro volta la materia, che nel movimento delle lettere che si congiungono fra loro, resta sempre uguale, e le forme qui diventano i significati, il senso che il contemplante può attribuire a queste combinazioni in misura della capacità conoscitiva del suo intelletto. Così le lettere, a seconda delle prospettive, sono materia o forma del mondo spirituale. Anche nelle combinazioni nelle quali per noi, per la nostra limitata intelligenza, esse non sono connesse da nessun senso afferrabile, è immanente in esse un significato emanante dal tutto e destinato a palesarsi o all'intelligenza più progredita o grazie all'illuminazione e trasfigurazione messianica. Così Abulafia poteva ricollegarsi ai Nomi divini mistici ed incomprensibili degli antichi testi della Merkaba, ai quali s'è accennato (85) e che costituiscono elementi significanti nell'insieme dei Nomi che formano nel loro insieme la Torah come corpo mistico. Per Abulafia la superiorità della conoscenza di Dio per mezzo della via della mistica linguistica rispetto a quella ottenuta seguendo la via delle dieci sephiroth è evidente. La conoscenza della manifestazione di Dio nelle sue dieci sephiroth ha, rispetto all'approfondimento dei misteri della lingua, un valore soltanto propedeutico, per importante che sia in sé e per sé (86). A conclusione di queste riflessioni si ripropone per Abulafia la questione del carattere magico della lingua. Siamo partiti dalla magia della parola e del Nome, seguendone poi le metamorfosi nella mistica, ma i riflessi magici ci hanno accompagnato su questa strada. La coscienza della forza che emana direttamente dalle parole e specie dalle parole sommamente purificate, apparentemente insignificanti eppure pregnanti di significato e dalla loro “rivoluzione”, è ben presente ad Abulafia in molti passi, ma egli ha un atteggiamento di rifiuto verso ogni magia praticabile e verso ogni teurgia, nelle quali ravvisa l'involgarimento d'una magia profondamente spirituale che gli sarebbe impensabile escludere. La magia come non-comunicatività e tuttavia come qualcosa che dalle parole emana, per lui esiste. C'è una dimensione di magia profondamente interiore che non cade sotto il divieto della stregoneria, della magia pratica, ed è la magia usata dai profeti. I “segni” che i profeti danno per legittimare la loro missione sono connessi a questa forza magica (87). Colui che senza questo rango si permette di intervenire in modo per così dire tecnico nella creazione o se ne proclama capace, cade vittima delle seduzioni della scienza mantica, della magia in senso sinistro, le cui discipline, le “scienze dei demoni” non mancano d'un fondamento reale, ma sono una falsificazione essendo un involgarimento a mera esteriorità della mistica verace (88). La magia è in linea di principio possibile, ma spregevole e lo stregone è maledetto. Egli si è dato non al Signore, al dominus, ma al diavolo, al daemonas (89). Per Abulafia Satana è la materialità del mondo (90) e il cabalista, che riconduce ai fondamenti spirituali, lo detronizza (91). Dallo sprofondarsi nei Nomi di Dio, centro d'ogni creazione, nasce la forza “di annientare l'opera degli stregoni” (92). Vorrei tornare concludendo ancora una volta al pensiero centrale. Il Nome di Dio è il “Nome essenziale”, scaturigine d'ogni linguaggio. Ogni altro Nome con cui Dio si possa denominare o invocare sta in rapporto con una determinata attività, come dimostra l'etimologia di questi Nomi biblici, mentre quel Nome non rinvia a nessuna attività. Esso non ha per i cabalisti nessun significato secondo l'ordinaria ragione, nessun senso concreto (93). La mancanza di significato del Nome di Dio addita alla sua posizione al centro della Rivelazione, di cui sta alla base. Dietro ogni rivelazione d'un significato nella lingua e, come videro i cabalisti, attraverso la Torah, sta questo elemento che supera e rende possibile la significanza, che senza significato dà significato alle cose. Ciò che ci parla dalla creazione e dalla rivelazione, la parola di Dio, è interpretabile all'infinito e si riflette nel nostro linguaggio. I suoi raggi ovvero suoni non sono tanto comunicazioni quanto appelli. Ha significato, forma e senso, non già questa parola stessa, bensì la Tradizione di questa parola, la sua mediazione e il suo riflesso nel tempo. Questa tradizione, che ha una sua speciale dialettica, si trasforma e può tramutarsi eventualmente in un lieve, sussurrante bisbiglio, e ci possono essere tempi, come i nostri, nei quali non si può più trasmettere, in cui questa Tradizione ammutolisce. Questa è la gran crisi del linguaggio in cui ci troviamo, in cui nemmeno riusciamo più ad afferrare l'ultimo lembo di quel mistero che un tempo in esso dimorava. Che la lingua sia parlabile è dovuto, così ritennero i cabalisti, al Nome in esso presente. Che dignità possa avere il linguaggio dal quale Dio si sia ritirato, è il quesito che debbono porsi coloro che credono di percepire ancora nell'immanenza del mondo l'eco della parola creatrice scomparsa. Questa è una domanda per la quale nel nostro tempo hanno una risposta soltanto i poeti, che non condividono la disperazione intorno al linguaggio della maggior parte dei mistici e che una cosa unisce ai maestri della Qabalah, anche se essi ne ricusano la formulazione teologica come ancora eccessiva: la fede nel linguaggio come un assoluto, sia pure dialetticamente lacerato, la fede nel mistero divenuto udibile nel linguaggio. | |