La Qabalah può essere definita come l’insieme delle
manifestazioni del misticismo religioso ebraico. Una simile
definizione rimanda a quella di misticismo, che è stata oggetto
di interminabili discussioni e controversie. Senza addentrarci
in questa problematica complessa, ci limiteremo ad adottare una
caratterizzazione semplice: diremo cioè che il misticismo è quel
tipo di religiosità che pone al centro l’intuizione immediata
del rapporto fra uomo e Dio e cerca la dimostrazione della
presenza divina attraverso delle manifestazioni dirette che si
esprimono nella coscienza. Una simile caratterizzazione può
indurre a considerare il misticismo come la controparte di una
visione razionale del fenomeno religioso. Ciò può essere vero,
ma soltanto in parte e in determinate circostanze. Difatti, il
mistico, nel ricercare un rapporto con Dio, segue molte vie: fra
di esse vi sono certamente delle forme di elevazione estatica,
ma anche l’esercizio della ragione e persino della logica pura
può avere un ruolo importante nell’approccio del mistico. Va
osservato che il misticismo risponde, in generale, a un’esigenza
popolare dell’anima religiosa, ovvero alla necessità di
ristabilire un rapporto diretto fra Dio e uomo che proprio la
religione ha avuto storicamente il ruolo di recidere. Difatti,
come ha acutamente osservato Gershom Scholem
[1], «la suprema funzione della
religione è di distruggere l’armonia immaginaria dell’Uomo,
dell’Universo e di Dio» che esisteva nelle visioni pagane e
mitologiche, di creare «un vasto abisso, concepito come
assoluto, fra Dio, Essere infinito e trascendente, e l’Uomo,
creatura finita». In certo senso, la fase del misticismo
rappresenta un movimento in senso opposto, che tende a riempire
il baratro apertosi fra Dio e uomo ricercando delle esperienze
dirette di percezione della presenza divina. L’esperienza
mistica rappresenta quindi un ritorno a forme mitiche combattute
dalla religione, anche se cerca costantemente di conciliarle con
il principio della rivelazione divina.
Non vi è dubbio che l’Ebraismo abbia espresso una delle
concezioni più radicali della separazione fra Dio e uomo. Il suo
ruolo, nella storia delle religioni, è correttamente
identificato nello sforzo di affermare in modo intransigente il
monoteismo e nella tendenza a combattere una lotta senza
quartiere contro il mito. E, per l’appunto, uno degli aspetti
fondamentali di tale lotta è stata la tendenza a separare
rigidamente le sfere dell’uomo, della natura e di Dio. Gran
parte del pensiero rabbinico medievale è ispirato da questi
intenti, e le concezioni teologiche e filosofiche di Mosè
Maimonide ne sono l’espressione più chiara ed elevata. Maimonide,
aderendo all’aristotelismo e opponendosi a ogni forma di
neoplatonismo, mira a estirpare le ultime radici mitologiche dal
pensiero ebraico. Questo tentativo non riuscirà mai
completamente e troverà anzi nell’emergere del pensiero
cabalistico, verso la fine del dodicesimo secolo, una reazione
energica e audace. Difatti, la tendenza a proteggere il
monoteismo da ogni contaminazione mitica rendeva l’idea di Dio
inaccessibile alla religiosità popolare. Essa proponeva
l’immagine di un Dio di cui non si poteva dire quasi nulla e
che, guadagnando in purezza, perdeva ogni vitalità. Quando il
movimento cabalista iniziò a prendere forma in Provenza e in
Spagna, la reazione contro il razionalismo rabbinico –
concentrato soprattutto su un’analisi delle Sacre Scritture,
mirante a ricavarne i precetti che debbono guidare la vita
ebraica (Halakhah) – si espresse talora in modo violento, e
accadde che i libri di Maimonide fossero bruciati sulle piazze.
Ciò non deve tuttavia indurre a una visione troppo schematica di
questa contrapposizione, perché il pensiero di Maimonide ebbe un
influsso considerevole su non pochi cabalisti, e interazioni
significative con il misticismo, come è stato messo in rilievo
in diversi studi [2].
Tuttavia, la nascita del pensiero cabalistico rappresenta
soltanto l’esplosione di un’antica tensione che percorreva già
la storia del pensiero ebraico fin dalle sue origini. La
presenza di correnti mistiche ebraiche è evidente e documentata
fin dai primi secoli dopo la distruzione del Tempio di
Gerusalemme. Essa si manifestò in particolare in due correnti
che miravano ad esplorare il senso profondo delle manifestazioni
di Dio e che sono dette della Ma’aseh Bereshit («Fatti dell’Inizio»)
e della Ma’aseh Merkavà («Fatti del Carro»).
La corrente della Ma’aseh Bereshit si concentrava, per
l’appunto, sui «fatti dell'’Inizio», ovvero sul processo della
Creazione quale è descritto fin dalle prime righe della Torah.
Per quanto rivolta a un’interpretazione esoterica di tale testo,
questa corrente concepisce la Creazione come una manifestazione
storica dell’esistenza di un Dio rigidamente distinto dal cosmo
e dall’uomo e di cui possono enunciarsi soltanto gli attributi e
di cui nessuna rappresentazione in termini di «potenze» è
ammissibile. Pertanto, questa corrente concepisce la Torah come
distinta da qualsiasi manifestazione storica o cosmica, e tenta
così di porre argine contro il ritorno di visioni mitologiche.
Invece, la corrente della Ma'aseh Merkavà assumeva come
riferimento il mistero dell’apparizione del Carro Divino al
profeta Ezechiele. Attraverso l’analisi dettagliata delle
manifestazioni concrete descritte in questa visione, essa
ricercava una rappresentazione della vita divina attingibile
dall’esperienza umana. Una manifestazione estrema di queste
correnti mistiche è data persino dalla descrizione delle forme
«corporee» della divinità, di cui si cercano di determinare
addirittura le misure fisiche. In generale, l’obbiettivo di
queste correnti mistiche è quello di attingere al senso della
vita divina attraverso l’esplorazione del significato mistico
delle sue manifestazioni materiali. In tal modo, non si voleva
affatto negare l’idea dell’unità ed unicità di Dio, ma si mirava
a concepirla in forma dinamica, soffermandosi sulle forme e le
manifestazioni dell’attività divina più che sull’individuazione
dei suoi «attributi». La vita divina veniva vista come un flusso
dinamico che investe l’uomo e il cosmo. Per comprenderne il
senso occorreva ricercarlo nel significato profondo dei simboli
con cui essa si manifesta nelle Sacre Scritture, la Torah.
Pertanto, la Torah non è vista soltanto come Legge o come
Racconto, come un insieme di testi che si riducono al loro
significato letterale. La Torah è la manifestazione della vita
divina, essa è un corpo mistico, vivente in cui è racchiuso al
contempo il senso profondo della vita divina, del cosmo e anche
del destino storico del popolo ebraico.
Questi aspetti, presenti ancora in forma embrionale nelle
correnti antiche del misticismo ebraico, prendono forma in modo
radicale ed organico nelle speculazioni della Qabalah
medioevale. Nasce di qui una corrente di pensiero e di
esperienze religiose di varia natura – razionale ed estatica –
che si diramano fino ai tempi nostri, e le cui manifestazioni
più importanti sono l’Hasidismo dell’Europa orientale, la
Qabalah della scuola di Safed e numerose altre correnti che si
svilupparono anche in Italia.
Non è certamente possibile qui dare conto di sviluppi tanto
vasti quanto ramificati e di enorme complessità. Esiste ormai su
questi temi una vasta letteratura (1).
Poiché ci limiteremo a dire qualcosa circa i rapporti fra
Qabalah e numerologia, trascureremo completamente le concezioni
cabalistiche relative al modo in cui si realizza il rapporto fra
Dio, Cosmo e Uomo. Ricorderemo soltanto che esso è descritto
mediante una visione organicistica ed unitaria che descrive la
vita divina come un organismo articolato in una sorta di flusso:
esso è rap presentato dal celebre albero delle Sephiroth, in cui
si esprime il processo dell’emanazione a partire da Dio, che è
visto come il «nulla assoluto», En Sof.
Qabalah vuol dire «tradizione» e anche «ricezione». Ciò
configura un duplice significato: la Qabalah è ricezione del
flusso divino, della saggezza che discende dall’alto, e il
cabalista è colui che utilizza tutti i mezzi – dall’elevazione
estatica all’analisi esegetica dei testi – per stabilire questo
flusso interattivo con la divinità; ed è, al contempo,
trasmissione dei significati più profondi ed autentici della
tradizione, per cui il cabalista è il custode più fedele dei
principi della religiosità ebraica. In effetti, il cabalista non
è, in linea di principio, un eterodosso. Al contrario, egli
assume in pieno la difesa della tradizione e dei testi sacri che
la esprimono. Tuttavia, le conseguenze del suo approccio
assumono talvolta un carattere eterodosso e persino eversivo.
Difatti, nell’esegesi del testo biblico, il cabalista tenta di
dissolvere la superficie del significato «evidente» del
racconto, per scoprire una molteplicità di significati nascosti
e profondi. Con estrema audacia, nello Zohar (il «libro dello
Splendore», il massimo testo cabalistico medioevale) si afferma:
«Guai a colui che considera la Torah come un libro di
semplici racconti e faccende quotidiane. Poiché se essa fosse
questo, ancora oggi potremmo comporre un’altra Torah che
trattasse di queste cose e fosse migliore ancora».
Pertanto, il senso letterale della Torah è oscurità, mentre il
senso mistico è Zohar, splendore. Nella svalutazione
dell'interpretazione testuale, il cabalista Mosè Cordovero di
Safed si spinge fino al punto di dire che la Torah materiale
contiene divieti «angosciosi» e «miserabili» che sarebbero
incomprensibili senza la caduta dovuta al peccato
Secondo Gershom Scholem – il massimo studioso della Qabalah nel
Novecento –, i principi che svolgono una funzione fondamentale
nelle idee cabalistiche circa la natura della Torah sono tre: il
principio del nome di Dio; il principio della Torah come
organismo; il principio della infinita ricchezza di significato
della parola divina.
Il primo principio può essere espresso dicendo che la Torah non
è soltanto racconto ma nasconde una serie di nomi di Dio.
Secondo il cabalista spagnolo del Duecento, Moshé ben Nachman, «noi
possediamo una tradizione autentica secondo cui la Torah intera
consiste di nomi di Dio, e questo in modo che le parole che
leggiamo possono anche essere suddivise in una maniera
completamente diversa, e precisamente in nomi […]». Secondo
il cabalista spagnolo della fine del XIII secolo, Joseph
Gikatilla, «l’intera Torah è come una spiegazione o un
commento del tetragramma JHWH» ed è come un «tessuto» vivo
formato dai fili del tetragramma. Secondo il punto di vista di
Menachem Recanati (vissuto attorno al 1300), prima che fosse
creato il mondo esistevano soltanto Dio e il suo nome e anzi Dio
stesso è la Torah «poiché la Torah non è qualcosa al di fuori di
Lui, ed Egli non è qualcosa al di fuori della Torah». E
Recanati spiega questa identificazione radicale fra Dio e
parola, asserendo che le lettere sono il corpo mistico di Dio e
perciò Dio sta alla Torah come l’anima sta al corpo. Per Abraham
Abulafia (maestro di Gikatilla), la Torah fu scritta mediante
permutazioni di consonanti secondo principi nascosti che occorre
riscoprire. In conclusione, la Torah è da un lato comunicazione
all’uomo e dall’altro è manifestazione cosmica della vita
divina. Si può quindi capire che le tecniche di manipolazione,
di combinazione e di lettura dei nomi divini dovevano essere un
metodo per entrare nel flusso reale della vita divina. Ad
esempio, lo schema linguistico rappresentato nella Fig. 3 dava
conto del modo con cui il processo creativo risultava da
permutazioni delle lettere del Tetragramma, ovvero del nome di
Dio.
Si noti che gli schemi linguistici suggerivano spesso delle vere
e proprie tecniche con cui il cabalista – ripetendo lettere e
combinazioni di lettere – entrava in uno stato di elevazione
estatica che gli permetteva di avvicinarsi alla contemplazione
dei segreti della vita divina. Osservando la forma delle lettere
e permutandole, il mistico poteva immergersi nella struttura
segreta del mondo. Un mezzo che veniva frequentemente usato era
la ruota delle lettere, ovvero un disegno circolare (o ruota
materiale) su cui erano tracciate le 22 lettere dell’alfabeto
ebraico. Muovendo la ruota in avanti o all’indietro era
possibile imitare l’infinita espansione dinamica linguistica che
ha dato origine al cosmo.
La Torah è quindi un insieme di nomi ma è anche un organismo
vivente, è espressione della vita divina che si manifesta come
un organismo. Le membra di questo organismo sono talora viste
come le membra della presenza divina o Šekinah. Legge cosmica e
legge terrena non sono separate ma sono soltanto due facce della
Torah. Questa visione è strettamente legata alla dottrina delle
Sephiroth o «canali» dell’influsso di Dio del cosmo, cui abbiamo
accennato sopra.
Veniamo ora al terzo aspetto, quello della infinita ricchezza di
significato della parola divina, un aspetto per cui la Qabalah
ha esercitato un’importante influsso sul pensiero
rinascimentale, in particolare attraverso Pico della Mirandola
(2).
Scrive Mosé de Leon nel suo Midrash ha-Ne’elam:
«Le parole della Torah sono paragonate a una noce. Che cosa
significa questo? Esattamente come la noce ha un guscio esterno
e un nucleo interno, così anche ogni parola della Torah contiene
ma’aseh, midrash, haggadah e sod,e in ogni momento rappresenta
un senso più profondo di quello precedente».
Ma’aseh (che significa insieme racconto atto, evento) è il
significato letterale; Midrash è il risultato del metodo
ermeneutico con cui i talmudisti trovavano le loro disposizioni
nel testo biblico; Haggadah è il prodotto della forma allegorica
o metaforica dell’interpretazione; Sod è il mistero, ovvero il
senso nascosto più profondo. Mosé de Léon così interpreta
l’antica storia talmudica dei quattro rabbini, Akibà, Ben Zoma,
Ben Azzai e Aher: essi entrarono al paradiso e «l’uno vide e
morì, il secondo vide e perse il senno, il terzo isterilì le
giovani piantagioni. Solo rabbi Akiba entrò sano e uscì sano.»
Per Mosé de Léon le quattro consonanti PRDS della parola
paradiso, PARDÈS, sono il simbolo dei quattro strati di senso
della parola. L'equivalenza è la seguente: P = Peshat = senso
letterale = Rabbi Asher che vide e morì; R = Remetz = senso
allegorico = Rabbi Ben Zoma che vide e perse il senno; D =
Derasha = interpretazione talmudica = Rabbi Ben Azzai che
isterilì le giovani piantagioni (cioè traviò i giovani); S = Sod
= mistero o significato mistico = Rabbi Akibà che entrò sano e
uscì sano spingendosi fino al nucleo.
Questa visione affascinò Pico della Mirandola il quale osservò:
«Proprio come noi, anche gli ebrei conoscevano quattro metodi
per spiegare la Bibbia, quello letterale, quello mistico o
allegorico, il metodo tropico e quello anagogico. Chiamano il
senso letterale peshat, quello allegorico midrash, il senso
tropico sekhel, e il senso anagogico – che è quello più sublime
e divino – Qabalah».
Una delle tecniche privilegiate per penetrare i significati
reconditi e profondi delle Sacre Scritture era quella
numerologica. Essa ha come fondamento il fatto che,
nell’alfabeto ebraico, ogni lettera ha un valore numerico
determinato e qualsiasi numero viene rappresentato mediante una
combinazione di lettere. Viceversa, ad ogni parola può essere
associato un valore numerico. Il modo più semplice di farlo è di
associare alla parola la somma dei valori numerici delle lettere
di cui è formata, anche se, come vedremo, ne esistono altri. La
visione numerologica ha radici antiche, di cui troviamo traccia
nel primo e più celebre testo della mistica ebraica, il Sepher
Yeẓirah («Libro della Formazione») redatto nel VI secolo. Vi
troviamo una rappresentazione (Fig. 6) che sintetizza in modo
sorprendente la visione delle lettere come elementi costitutivi
dell’universo con il pitagorismo. Come ha osservato Giulio
Busi,«già nel Sefer Yetsirah le consonanti dell’alfabeto ebraico
erano considerate i semi di tutte le cose e rappresentavano le
forze primigenie della realtà. I cabalisti potevano pertanto
appoggiarsi su una lunga tradizione interpretativa, basata sulla
convinzione che la lingua ebraica contenesse in sé la chiave del
creato. Essi ritenevano che il passaggio dalle frasi bibliche ai
più minuti dettagli del mondo materiale fosse avvenuto grazie a
una serie di permutazioni, che avevano trasformato le parole
pronunziate da Dio nei nomi concreti di tutte le cose […]. Le
parole ebraiche, e ancor più le lettere che le formano, sono
l’anima segreta, la forza nascosta che sostiene le apparenze:
studiare le combinazioni tra le lettere significa allora
comprendere la vera essenza del creato»
[16].
La determinazione dell’equivalenza di concetti mediante il
calcolo del valore numerico delle parole con cui essi si
esprimono si basa sulle tecniche della cosiddetta ghimatriah.
Esistono numerose modalità della ghimatriah. La forma di base è
data dalla «ghimatriah semplice» cui abbiamo già accennato e che
consiste nel sommare i valori numerici delle lettere di cui è
composta.
Nella tradizione qabbalistica sono state usate molte altre forme
di ghimatriah. Ne citiamo alcune. La «piccola» ghimatriah
consiste nel procedere come in quella semplice, con la clausola
che di ogni numero si considera una sola cifra, la prima: ad
esempio 10 è ridotto a 1, 200 a 2, ecc. La ghimatriah «semplice
dispiegata» consiste nel considerare la scrittura esplicita di
ogni lettera – come se, nel nostro alfabeto, sostituissimo «f »
con «effe» – e nel calcolare il valore della lettera
«dispiegata», per poi eseguire la somma di tutti i numeri
ottenuti. La ghimatriah «dinamica cumulativa» tiene conto del
processo di formazione di una parola: così yeled è dato dalla
sequenza «y», «yl», «yld» – si noti che, in ebraico, si scrivono
soltanto le consonanti – e si somma il valore di ogni termine
della sequenza. La ghimatriah «differenziale» considera invece
il valore della differenza tra i valori di due lettere. Esistono
poi diverse tecniche di ghimatriah combinatoria: si stabilisce
una regola di permutazione fra le lettere e si riscrive il testo
secondo questa regola, studiando poi quel che si è ricavato
(3).
Una delle più celebri ghimatriah semplici, che ha avuto una
notevole influenza filosofica, è dovuta al cabalista spagnolo
Abraham Abulafià. La sua storia è stata accuratamente
ricostruita dal massimo esperto vivente della Qabalah, Moshe
Idel.
La ghimatriah consiste nel constatare l’identità numerica della
parola Elohím (Dio) e della parola ha-Teva (Natura). Entrambe
hanno il valore numerico 86. Nel rilevare questa identità
numerica, Abulafià osservò che anche la parola ha-Kissé (Trono)
ha il valore numerico 86. E lo stesso valore ha anche la parola
Ma’aseh che significa racconto, opera, atto, evento, ma anche
«tavole». Le «tavole» dice Abulafià, «sono dette ma’aseh perché
sono naturali, e simili alle altre azioni divine». Per
comprendere il senso di quest’ultima affermazione e perché
questa molteplice identità sia fondamentale per Abulafià,
occorre tener conto del fatto che egli aderisce al principio
caratteristico del pensiero di Maimonide secondo cui la natura
rappresenta sia il livello materiale (corporeo) che il livello
spirituale della realtà. Le «tavole» sono l’espressione più
chiara di tale duplice senso del concetto di natura, in quanto
sono al contempo un oggetto di pietra (un «corpo»), e
l’espressione della «legge», ovvero degli aspetti spirituali e
dei principi etici che governano l’uomo e che hanno origine
divina. Scrisse, al riguardo, Abulafià:
«Le tavole [della legge] sono un omonimo delle cose
naturali interiori, perché tavole è equivalente a Kissé (trono)
che è Teva (Natura) ed esse sono [omonimo delle cose esterne che
sono le tavole di pietra».
E di qui il senso che ha il nome di Dio Elohim, che rappresenta
l’oggetto dell’atto della creazione più che il suo agente:
«Il nome Elohim comporta molti significati: è un appellativo
della totalità delle forze naturali; fa parte dei nomi della
Causa prima; e si riferisce anche a uno dei Suoi attributi, per
i quali, sia gloria a Lui, è separato dalle altre entità».
Osserva, al riguardo, Idel circa il senso dell’equazione Elohim
= ha-Teva:
essa designa la natura interiore, spirituale, e l’apprensione
esterna, ipostatica della natura e dell’ordine della natura,
ovvero un dominio spirituale creato all’inizio e che regola i
processi naturali, che sono, di conseguenza, considerati anche
come divini.
Non seguiremo l’analisi con cui Idel mostra il diramarsi della
ghimatriah Elohim = ha-Teva nella letteratura cabalistica, e i
suoi influssi sulla speculazione filosofica fino alla
enunciazione del principio Deus sive Natura da parte di Baruch
Spinoza. In tale contesto ebbe un ruolo particolare un trattato
del cabalista spagnolo Josef Gikatila, che, ristampato a Hanau
nel 1615, era considerato un classico della Qabalah ampiamente
circolante negli ambienti filosofici dell'epoca, e quindi
certamente conosciuto da Spinoza.
Questo esempio mostra che l’uso delle tecniche di
identificazione numerica (che è l’aspetto che ha dato luogo
all’immagine tradizionale e comune della Qabalah) non è un
procedimento di manipolazione con cui si ottengono delle
identificazioni concettuali come conseguenza di un gioco di
identità numeriche. È vero il contrario. L’uso delle identità
numeriche è una sorta di procedimento dimostrativo della verità
di concetti ottenuti attraverso l’esegesi mistica e quindi della
verità delle leggi fondamentali che regolano la vita di Dio e
del cosmo.
Pur nell’evidente ingenuità di queste procedure, ci troviamo di
fronte a una prima forma di uso di una sorta di calcolo
simbolico-aritmetico allo scopo di determinare le leggi
dell’Universo. Certo, queste leggi non sono cercate nello studio
della Natura, ma nello studio della Torah:ma la Torah è la
Natura.
Non soltanto la dottrina del quadruplice strato del senso ma,
come ha osservato Idel, anche l’idea che «il libro divino è la
chiave che permette di comprendere il libro della natura […]
finisce per introdursi nel pensiero del Rinascimento per
l’intermediario di Pico della Mirandola». E vi si introduce
assieme a una visione neo-pitagorica secondo cui le leggi del
libro della Natura sono dato mediante regole numeriche. È
evidente l'assonanza con l’idea di Galileo secondo cui il libro
della Natura è stato scritto da Dio in linguaggio matematico ed
è compito dell'uomo scoprire questo linguaggio, le sue leggi.
Certo, in Galileo quest’idea è ormai congiunta a una visione
oggettivistica che esclude la ricerca di queste leggi
nell’esegesi delle Sacre Scritture, perché esse non si
identificano più con Dio: vale l’identità Dio = Natura, ma non
più l’identità Dio = Sacre Scritture. E, per quanto la
transizione sia graduale e complessa – e sarebbe una forzatura
grossolana attribuire a Galileo una visione apertamente
sperimentalista –, è innegabile che stiamo assistendo alla
nascita dell’oggettivismo, all’emergere di una nuova divisione –
quella fra uomo e Natura – che finirà progressivamente con
l’abolire o mettere in secondo piano l’identità Dio = Natura che
pure ha un ruolo concettuale fondamentale nella nascita del
pensiero scientifico moderno. Questo punto di partenza continua
tuttavia a giocare un ruolo fortissimo nell’idea che il mondo è
scritto nel linguaggio dei numeri, in simboli, infine in formule
matematiche.
Concludiamo questa rassegna di idee molto generiche con un
riferimento a un artista che, verso la fine della sua vita, subì
il fascino e l’influsso del cabalismo e delle tecniche
numerologiche. È un riferimento particolarmente appropriato a
Venezia: difatti, alludiamo al celebre musicista veneziano Luigi
Nono, che ho avuto la fortuna di conoscere parecchi anni fa.
In un recente articolo, Laurent Feynerou
[18] ha ricordato come Nono,
agli inizi degli anni ottanta, si interessò molto al pensiero
cabalistico.
Dal 1982 al 1985, egli acquistò in Spagna molte opere
sull’ebraismo e in particolare testi di Qabalah e sulla Qabalah.
In un articolo del 1988, così scriveva:
«In Spagna ho trovato un testo anonimo, del XIV secolo: il
Sefer Yetsirah;conteneva la descrizione delle 10 sefirot divine.
Leggere quel libro, considerarlo una componente del pensiero di
Schönberg, mi ha aiutato a conoscere Schönberg. E, attraverso
Schönberg, a pensare ad idee musicali che non siano solo
tecniche, ma formazioni di apporti multiculturali»
[19]
E così proseguiva:
«Le ventidue lettere sono scolpite nella voce, incise
nell'aria, collocate durante la pronuncia in cinque luoghi:
nella gola, nel palato, nella lingua, nei denti e nelle labbra,
così insegna il Sefer Yetsirah».
Luigi Nono intendeva leggere l’opera vocale di Schönberg alla
luce della cosmogonia come pure dei fonemi ebraici, e in
particolare l’incidenza delle consonanti (sia gutturali che
palatali, che linguali, che dentali, che labiali)
sull’inspirazione e l’espirazione nel trattamento corale e nello
Sprachgesang schönberghiano nonché sui microintervalli e sui
microtoni. Così egli arrivava alla conclusione che il fondamento
del pensiero schönberghiano «riposava sulla Cultura, sul
grande conflitto, […] legato direttamente al pensiero
cabbalistico ed alchemico del Rinascimento, superando
l’opposizione fra scuola pitagorica e platonica»
[20].
Chiudiamo con questa testimonianza – significativa, in quanto
così recente – che rende conto del fascino e della vitalità di
una forma di speculazione per tanto tempo avvolta in una nube di
mistero ed anche di mistificazioni e di equivoci.