Si narra che il premier Giovanni Zanardelli volesse fare definitivamente chiarezza sulle voci della sua appartenenza alla massoneria. Detto fatto, arriva in Consiglio dei Ministri, si toglie il paletot e, oh meraviglia, appare agli astanti con tutte le insegne dell’ordine libero muratorio, grembiule, collare e quant’altro. “Scusatemi, venivo da altra riunione”, aggiunge sornione, magari facendo l’occhietto ad altri “fratelli” presenti o rivolgendo un mezzo sorriso al suo ministro degli interni, l’On. Giovanni Giolitti, uno che proprio squadre e compassi non se li filava. In una sorta di outing collettivo, del resto, lo statista bresciano sarebbe stato in buona compagnia. Per limitarsi ai nomi certi e più noti, l’istituzione annoverò in epoca liberale altri inquilini di palazzo Chigi, da Agostino Depretis a Francesco Crispi ad Alessandro Fortis. Una sfilza di ministri e sottosegretari. Parlamentari di maggioranza e opposizione (tra questi Andrea Costa, “l’apostolo socialista”). L’icona risorgimentale Giuseppe Garibaldi, nominato a furor di popolo Gran Maestro Onorario a vita. Un poco di mondo della finanza (a partire dal banchiere Adriano Lemmi sino ad Alberto Beneduce, il futuro fondatore dell’Iri) e soprattutto della cultura (fra gli altri, Giosue Carducci e Carlo Collodi Lorenzini, autore dell’esoterico Pinocchio). Dopo il cosmopolitismo settecentesco, ogni massoneria aveva preso la propria via nazionale. In Gran Bretagna, rigida, ritualistica, tradizionale, creava l’amalgama della crema imperiale accogliendo nei suoi ranghi i migliori nativi del Commonwealth (tra cui un certo Mahatma Gandhi). In America era (e tutt’ora è) fenomeno di massa, strettamente legato ai padri fondatori. In Francia diviene una specie di “religione civile di Stato”, sostanzialmente apolitica, sull’esempio della leggendaria neutralità del corpo dei funzionari pubblici. In Italia, si avvoltola nella lotta politica e associativa, pezzo del tentativo di “fare gli italiani”. Dall’8 ottobre 1859 (fondazione della “loggia madre” Ausonia di Torino, che di lì a poco avrebbe dato vita al Grande Oriente Italiano) al 22 novembre 1925, giorno in cui il gran maestro, Domizio Torrigiani, pone fine all’attività delle logge per evitare le violenze fasciste, una buona fetta dell’élite unitaria si trovò a vestire, per periodi brevi o a lungo, il tradizionale grembiule. Perché? E, soprattutto, come? Una risposta la dà Fulvio Conti nel suo Storia della Massoneria italiana. Dal Risorgimento al fascismo, in uscita per il Mulino (pp. 458, euro24). Un volume imponente per documentazione consultata, per precisione e per equanimità. Assieme ad Anna Maria Isastia, Conti ha aperto una nuova strada agli studi sulla massoneria italiana. Bando all’apologetica e anche alle tante leggende nere, più o meno artatamente costruite col tocco tutto italiano del complottismo. Il taglio scelto da Conti privilegia l’aspetto politico e sociologico, evitando di affrontare, ad esempio, il capitolo massoneria e cultura o di addentrarsi nell’esoterismo. In secondo luogo, piazza pulita dei tanti “si dice”. Non c’è spazio per la presunta affiliazione di Camillo Benso, conte di Cavour, né alla domanda respinta dalla loggia milanese Carlo Cattaneo per “condotta morale riprovevole” di un giovanotto di nome Benito Mussolini (che se la legò al dito). Notizie scarne ma precise sui collegamenti con le società segrete risorgimentali, dalla Carboneria (che ne mutuò, adattandoli, i rituali e alcuni simboli) alla Giovine Italia. Ma atteniamoci ai fatti, suggerisce Conti. Punto primo, occorre distinguere tra la volontà di interventismo politico della massoneria, che ci fu e fu anzi esplicita, e il comportamento dei singoli “politici massoni”, dettato anche da altre esigenze e a volte in contrasto con gli orientamenti dell’ordine. Punto secondo, “non è possibile spiegare il radicamento della massoneria nell’Italia postunitaria”, un radicamento che in effetti coinvolse, al massimo, circa ventimila fratelli, “prescindendo dall’analisi dei valori culturali e dei princìpi filosofici dei quali essa si fece portavoce: l’ideale della fratellanza universale, l’umanitarismo cosmopolita, il mito del progresso, la faticosa elaborazione di una religione civile intrisa di un laicismo che sovente sconfinò nell’anticlericalismo più intransigente”ambizione, da parte del Goi, di costruire una sorta di tessuto connettivo della neonata classe dirigente italiana. Se non di dettare la linea, almeno di dare indicazioni. Un disegno presto complicatosi. Dell’idea originale di fare dell’organizzazione “una sorta di aggregazione politica fiancheggiatrice di Cavour della Società Nazionale”, chiamata soprattutto a frenare le spinte più democratiche, rimase ben poco. Innanzitutto, per le difficoltà a unire in un’unica organizzazione nazionale i vari gruppi e gruppuscoli nel frattempo creatisi, inizio di una lunga tradizione di frammentazioni, spaccature, scissioni (ferita ancora aperta, la creazione nel 1908 della Gran Loggia degli Alam). Poi, per la forte immissione dell’elemento garibaldino. E così, la massoneria e i suoi gran maestri ondeggiano. Si impegna, con Lodovico Frapolli, a darsi un minimo di contenuto filosofico e rituale. Si affianca, con Adriano Lemmi, all’opera di modernizzazione di Francesco Crispi e ne patisce la crisi. Si schiera, con Ettore Ferrari, sul fronte democratico. Dibatte su neutralismo e interventismo. Guarda con simpatia iniziale, al pari della dirigenza liberale, al fascismo come antidoto alle violenze bolsceviche, ma tiene ferma la barra sulla difesa delle istituzioni parlamentari e assume, con Giovanni Amendola, la guida dell’opposizione. Elabora un programma avanzato sui diritti civili, dal divorzio all’emancipazione femminile al suffragio universale. Difende a ogni costo il laicismo, anche espellendo i massoni che, per essere eletti al parlamento, avevano trattato più o meno sottobanco i voti cattolici di Ottorino Gentiloni. O entrando direttamente in campo, tra il 1908 e il 1913, per creare dei “blocchi popolari” che vedessero riuniti, contro il moderatismo, radicali, socialisti, liberali riformatori. Una stagione che ebbe come zenit l’elezione di Ernesto Nathan, ex gran maestro del Goi, a Sindaco di Roma. A fianco dell’impegno politico prende corpo l’impegno associativo, di carattere filantropico o sociale. Innumerevoli le iniziative, dalle società di cremazione agli asili per i derelitti (alcune ancora oggi efficienti, come gli Asili notturni di Torino o il Pane quotidiano a Milano). E, ieri come oggi, le polemiche. Gli attacchi di cattolici, socialisti massimalisti, fascisti. Gli strali di Benedetto Croce. Gli scandali immancabili, tra cui quello, clamoroso, che coinvolse l’ex presidente del Rito simbolico e deputato Nunzio Nasi, accusato di appropriazione indebita e debitamente buttato fuori dal Goi nel 1904. Le ricorrenti accuse sulla segretezza dei nomi degli affiliati. Ieri come oggi, appunto. Massimo Bruschi |