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 © Michele Gentile

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Siamo immortali?

 

Da sempre la morte atterrisce l'uomo. Per alcuni "morte" è fine di "tutto". Per alcuni "morte" è inizio di "tutto". Questo riferimento circolare sfugge al profano. Il concetto di vita necessita del concetto di morte. Così il concetto di morte necessita del concetto di vita. Vita e morte camminano fianco a fianco. Accompagnano l'uomo sulla sottile linea del destino. Per il profano, solo per l'aspetto temporale.

Alla vita ci si affida totalmente. Troppo labile è però la dimensione spirituale per affidarci altrettanto serenamente alla morte. Forse "il fiume che ci apprestiamo ad attraversare, alla fine della vita, è troppo impetuoso. L'altra sponda è nascosta dalle brume. L'ignoto ci terrorizza ".

Sin dal primo respiro vitale l'uomo incomincia la sua partita a scacchi con la morte. Certo l'esito biologico è scontato: l'uomo subirà scacco matto. Così incomincia l'atavica sfida che si combatte sulla scacchiera cosmica. Un immenso insieme di figure geometriche, di colori alternati; bianco e nero, rappresentano le forze contrarie che si confrontano nella lotta per la vita, sia nella costituzione della persona", sia dell'universo.

 

Tutti gli uomini hanno dato vita a questa sfida. La morte concede il privilegio della prima mossa, ma il riverente terrore che il profano le permette di incutere vede irrimediabilmente perduta la partita, ancor prima che sia conclusa.

Il pensiero della morte ha il potere di annichilire. Porterà irrimediabilmente il profano a perseguire il piacere materiale, perdendo di vista l'obiettivo di "lasciare testimonianza della sua esistenza", l'unica vera immortalità. Di fronte alla morte, il profano subisce emotivamente il suo effetto visibile e rimuove ogni elemento a lei legato, perdendo la capacità di comprendere il suo contenuto invisibile.

Sovente vediamo che in quelle case, dove nera parca ha falciato il fieno, i suoni sembrano attutiti, soffocati. Tutto è sommesso. L'olfatto percepisce l'odore acre del suo passaggio. Ai bambini è vietato giocare, sorridere, gli adulti hanno gli occhi infossati, arrossati dal pianto e dal dolore. Tutto è freddo, anche i colori più belli in quei giorni, sembrano spenti. li "sole" non riscalda i cuori di coloro che la morte ha svuotato dagli affetti più cari. La morte cammina a fianco dell'uomo, ma il profano fa finta d'ignorarla. Eppure, nell'era della comunicazione di massa, non manca giorno che ci ricordi la sua presenza.

 

Da tempo immemorabile la scienza si batte per sconfiggerla. Lo scopo è quello di rimandare al più tardi possibile l'incontro con la Vecchia Signora, tanto ci terrorizza. Evitiamo di parlarne, partecipiamo marginalmente al lutto altrui. Il profano, più legato alla materialità delle cose, è incapace di affrontare la propria natura, tanto che s'illude di esorcizzare la morte, disertando le esequie dei propri cari. Meno se ne parla meglio è. La morte è un fatto che cerchiamo immediatamente di cancellare dalla nostra mente. In questa società non c'è posto per la "cultura della morte".

 

"La vecchiaia segna più rughe nello spirito che nel viso", scriveva Montaigne. In questa nostra civiltà non assistiamo più alla saggezza dei vecchi che affrontano con serenità e dignità il sopraggiungere della morte. "La nostra - come scrive Bianconi è una civiltà della fretta, della tecnologia avanzata, che teme la morte in maniera incredibile. Paura per questo momento c'è sempre stata, da Adamo in poi. Ma adesso c'è il terrore. Una volta, nemmeno troppi decenni fa, il tempo scandiva meglio le stagioni e anche la morte era un'immagine meno spettrale".

Anche attraverso l'iconografia la società ha rappresentato la morte come figura implacabile, dall'aspetto diabolico, paralizzante. Scheletro che cavalca con fierezza uno spettrale destriero nero. In una mano brandisce la falce, nell'altra la clessidra. Lo sguardo, seppur spento nelle vuote occhiaie, ha una strana espressione: con la mascella, semiaperta che scopre una dentatura ripugnante, giallastra, esprime un ferale sogghigno. Dietro di sé, le torri di un castello in fiamme simboleggiano ciò che lascia dopo il suo passaggio: la disperazione.

La stessa che provai quando si prese mio padre. Così, attraverso la raffigurazione, si ricorda che la morte si presenta sempre nella vita, è solo questione di tempo. É fulminea e quando arriva semina disperazione. L'uomo nulla può contro di lei.

 

Perché la società rifugge il mistero della morte? Cosa teme l'uomo profano dunque nella morte? forse la paura del dolore? O forse teme l'ignoto?

Personalmente, l'unica sofferenza che sento abbinata al concetto di morte è la separazione dalle persone che amo. Non per l'aspetto fisico, ma per la paura di non essere stato in grado di dare a loro la forza del mio amore, quale testimonianza della mia esistenza.

Quel che a noi interessa in questa ricerca non è però la morte biologica. La morte, nella sua espressione teologica, seppur soggetta ad interpretazioni molto differenti, resta unitaria sul tema della finitezza e del travalicamento dei limiti dell'esistenza. terrena. La funzione escatologica è dell'esistenza ultraterrena e del tentativo di iscriversi in un ordine cosmico.

 

La cultura occidentale ha elaborato due principali direzioni di pensiero, che tuttora esercitano il loro influsso. Da una parte il dualismo corpo-spirito secondo il quale, mediante la morte, l'anima, immortale, si separa dalle spoglie mortali. Dall'altra la concezione connessa con la fede in un giudizio universale, condizione necessaria per la resurrezione e l'immortalità, che affonda le sue radici nella narrazione biblica del peccato originale e nelle dottrine apocalittiche. Se la nostra civiltà considera la morte un concetto negativo finale, come un tabù, nel passato, il rapporto con la morte era di tutt'altra natura.

Nelle dottrine escatologiche delle culture antiche, seppur diverse per caratteristiche dell'ambiente e dei popoli, il rapporto con la morte era unitario: vita dopo la morte. I testi che ci sono stati tramandati sono testimonianza di questo rapporto.

Il "Libro dei Morti" egizio e quello tibetano. Il primo precede di oltre tremila anni il Bardo Thódol. (Bardo significa: post morte o stato intermedio dopo morte; Thódol: liberazione mediante lo studio, ascolto, meditazione).

Secondo alcuni egittologi, "fra i popoli dell'antichità nessuno ha manifestato per il mistero della morte un interesse così appassionato e così esclusivo come il popolo egizio. Assorto nella ricerca della soluzione di questo assillante quesito, fin dagli albori della sua civilizzazione, l'antico Egitto organizzò tutta la sua vita politica, sociale e religiosa in funzione di questo problema; possedendo un tradizione esoterica risalente ad epoca immemorabile e disponendo di numerosi e ben organizzati centri iniziatici, credette di poter dominare la stessa morte".

 

Per l'antico egizio la morte non era l'ultima tappa, la fine del viaggio; ma bensì la continuazione dell'essere intelligente. La teogonia egizia ha fatto della morte il tema stesso della vita. Nell'antico Egitto era profondamente radicata la convinzione che l'uomo, nascendo sulla terra, moriva per il mondo dell'Aldilà. Le potenzialità sovraumane di cui era dotato, subivano una specie di battuta d'arresto.

Per rigenerarsi era necessaria una nuova rinascita, che poteva avvenire solo con la morte terrestre. Ciò equivaleva alla rinascita dello spirito, al ringiovanimento dell'Ego profondo. Il defunto diveniva allora un nuovo nato nella piena luce del giorno.

Per l'iniziato egiziano la morte fisica non era altro che la logica metamorfosi della coscienza. L'anima varcava la soglia ed iniziava il cammino dell'evoluzione per penetrare nei mondi dell'Aldilà. L'accesso alla immortalità dipendeva dalla vita individuale, secondo meriti raggiunti.

Nel mito di Osiride gli egiziani vedevano il pegno di una vita eterna, al di là della morte. Credevano che l'uomo sarebbe vissuto eternamente se i suoi cari avessero fatto per il suo cadavere quello che gli dei avevano fatto per il cadavere di Osiride.

Noi potremmo forse leggere: ciò che i nostri cari ricompongono della nostra testimonianza è eterno. L'uomo che non riesce a lasciare testimonianza di sé non perpetua tale idea di eternità. L'uomo che ama l'umanità non muore. La forza del suo amore trascende la sua esistenza terrena.

Il "Libro tibetano dei Morti" prepara i vivi al dopo morte, razionalizzando il concetto. I tibetani definiscono "stati" di post morte anche altri momenti dell'uomo: la concezione, il sogno, lo stato di profonda meditazione. "Dimmi quali sono i tuoi pensieri e ti dirò quali mostri, luci o tenebre vedrai ed incontrerai nel post morte". Dopo il passaggio, l'anima ritrova la somma di tutti i pensieri espressi durante la vita. Secondo il Bardo Thódol "l'uomo muore perché è immortale".

 

Secondo i mistici la morte ha un valore psicologico: libera dalle forze oscure, negative e regressive, dematerializza e libera le forze ascensionali dello spirito. Se la morte è figlia della notte e sorella del sogno possiede, come sua madre, il potere di rigenerare. Ed ecco che il concetto di morte perde il contenuto terrificante, legato all'inutile fine, ma diventa "vettore" di trasformazione, di rigenerazione. Le leggi fisiche della natura ci insegnano che nulla si crea e nulla si distrugge. Tutto si trasforma, materia è energia, energia è materia.

L'imperturbabilità di Socrate negli ultimi momenti della sua vita è indubbiamente legata ad un concetto di morte-vita e cioè all'immortalità. Uomini mediocri riuscirono a far condannare a morte Socrate, sicuramente il migliore di loro. Quella morte lo ha reso immortale. Dice Schurè: "Come Gesù egli morì perdonando i suoi carnefici e divenne per tutta l'umanità il modello dei Saggi. Egli rappresenta l'avvento dell'iniziazione individuale".

La serena immagine di Socrate che moriva per il vero ed il giusto, passando l'ultima ora della sua vita a discorrere dell'immortalità con i suoi discepoli, restò impressa nel cuore di Platone. C'è un dialogo, tratto dalla teoria platonica dell'immortalità, in cui sono descritti gli ultimi istanti della vita di Socrate. "In questo dialogo - scrive Russell - scaturisce l'ideale platonico di un uomo che è insieme saggio e buono al più alto grado, e che non ha alcuna paura della morte".

 

Nella passione di Gesù, che muore sulla croce per amore dell'umanità, alla morte sussegue la resurrezione. "Gesù, stando fra Giovanni e Pietro disse: "ho desiderato ardentemente di stare a mensa con voi in questa pasqua, poiché vi dico che non la rinnoverò più, finché non sia compiuta, nel regno dei cieli". Il discepolo che Gesù amava, e che era il solo ad intuire tutto, chinò il capo sul seno del Maestro" (Luca, XXII, 15). Secondo il costume dei Giudei, al convito di Pasqua si mangiavano, in silenzio, le erbe amare ed il pane azzimo. Gesù prese il pane, rese grazie, lo ruppe e lo divise fra i discepoli dicendo: "Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in mia memoria". Nello stesso modo passò loro la coppa dicendo: "Questa coppa è la nuova alleanza del mio sangue, che è sparso per voi". L'Ultima Cena in tutta la sua semplicità esprime più di quanto si narra.

"Questo atto simbolico e mistico - dice Schurè è la conclusione ed il riassunto di tutto l'insegnamento di Cristo, ma è la consacrazione ed il ripristino di un antico simbolo d'iniziazione. Presso gli iniziati d'Egitto, come presso i profeti e gli esseni, l'agape fraterna segna il primo grado d'iniziazione. Gesù, legando questi simboli agli apostoli, allarga gli intendimenti, estendendo all'umanità intera la fraternità e vi aggiunge il più profondo elemento, la forza più possente dell'uomo, che è alla base del suo personale sacrificio. Egli forma la catena d'amore, invisibile ma infrangibile, fra lui ed i suoi". La croce in alchimia è simbolo di lavoro. Cristo muore crocifisso per il bene dell'umanità. Dice Fabre d'Olivet: "Perché il cristianesimo riuscisse occorrevano due cose, che Gesù' volesse morire ed avesse la forza di risuscitare".

Presso gli egiziani, come presso i persiani della religione di Zoroastro, prima e dopo Gesù, la resurrezione è stata compresa doppiamente: una materiale, una spirituale e teosofica. La prima è l'idea popolare, che finì per essere adottata dalla Chiesa, dopo la repressione dello Gnosticismo; l'altra è l'idea profonda degli iniziati.

 

Certo la morte, considerata quale vettore di rinascita, perde il suo effetto distruttivo. Assume concetto creativo o meglio rigeneratore, fonte di Luce. A noi tanto cara la Luce, non deve sfuggire il suo significato simbolico anche di rinascita, vita. Giovanni Evangelista così definiva la Luce: "Egli era la vita e la vita era luce per gli uomini. Quella Luce risplendente nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta" (Giovanni, 1, 4). Recita un canto attribuito ad Amenofi IV, sposo di Nefertiti, "Lodiamo il Signore Uno, padre delle cosa Una e amiamo l'acqua che ci disseta e chiamiamo sorella la belva della notte, chiamiamo fratello il fuoco che distrugge e amica sorella morte che ci riporta alla Luce del Signore, padre della cosa Una".

Con il potere di rigenerare, la morte ha la funzione del "rito d'iniziazione". Con la morte ci si libera di tutto ciò che è terreno, comprese le pene e le preoccupazioni che la vita terrena comporta. Abbandonato questo stato di imperfezione s'inizia un processo di rinnovamento, al quale possiamo accedere solo se ad esso iniziati. Dobbiamo permettere che la metamorfosi si compia. L'iniziazione consiste nell'accettazione della morte come rito di passaggio. Se accettiamo tale iniziazione dobbiamo serenamente abbandonare l'involucro (vita profana) per accedere ad una dimensione totale di Luce; dobbiamo toglierci la benda. "Il profano deve morire per rinascere alla vita superiore" diceva Wirth.

 

Nel suo racconto "Rivelazione magnetica", Edgar Allan Poe chiede al suo immaginario interlocutore, il signor Vankirk: 'l’uomo potrà mai ripudiare il corpo?" Vankirk risponde: "Vi sono due corpi: quello rudimentale e quello completo, corrispondenti alle due condizioni del bruco e della farfalla. Ciò che noi chiamiamo morte non è che la dolorosa metamorfosi. La nostra incarnazione presente è progressiva, preparatoria, temporanea. L'incarnazione futura è perfezionata, ultima, immortale. La vita ultima è lo scopo supremo". Questo passaggio tratto dai "Racconti straordinari" dello scrittore statunitense, ci porta di riflesso al simbolismo della crisalide, luogo per eccellenza delle trasformazioni.

 

Per noi massoni è quindi naturale accostarlo al Gabinetto delle riflessioni, da dove s'inizia la metamorfosi che dal buio ci porta alla Luce. La crisalide non è solo l'involucro (il corpo) protettore, ma bensì uno stato transitorio fra due momenti del divenire. Comporta la rinunzia del passato (la materia) per la conquista di un nuovo stato (lo spirito).

Nella XIII lama dei Tarocchi (Arcani maggiori) i simboli che raffigurano la morte assumono tutt'altro aspetto e sono estremamente significativi. La morte è rappresentata come passaggio obbligato per rinascere a nuova vita. In questo caso la morte va interpretata come "iniziatica". Falcia il paesaggio di una realtà che è solo apparente. La lama della falce è rossa. Il paesaggio è tinto di nero. Potremmo indicare: la falce come forza vitale, la vittima il nulla. L'arcano maggiore XIII prepara alla vita reale. Il nero ed il rosso. Il primo capace di assorbire tutte le radiazioni, non restituisce la luce. Evoca il caos, il cielo notturno, le tenebre terrestri della notte, il male, la tristezza le angosce, le paure, l'incoscienza, è il nulla (realtà solo apparente). Il rosso (la falce) è il colore del fuoco e del sangue, che da molte civiltà e popoli è stato considerato il principio della vita.

 

Iconograficamente la morte è da sempre stata personificata da uno scheletro. In alchimia lo scheletro è simbolo del nero, della decomposizione. Ma colore e degenerazione della materia sono il principio della trasmutazione alchemica. In questo caso lo scheletro non rappresenta più morte statica, uno stato irreversibile, ma una morte che diventa strumento per una nuova vita. Una morte mistica, iniziatica che simboleggia la putrefazione della materia, passo obbligato per accedere alla rinascita. Quelle che vengono definite "religioni misteriche" testimoniano questa speranza. Infatti i riti d'iniziazione ai grandi misteri (Elèusi, Cibele, Mitra) erano simbolo di resurrezione di un ritorno alla vita attesa dagli iniziati.

La morte iniziatica come prefigurazione della morte fisica, deve essere intesa come rituale per accedere ad una nuova vita. Scrisse l'apostolo Paolo: "Nessun seme rivive se prima non muore. E il seme che metti in terra, quello di grano o di qualche altra pianta, è soltanto un seme nudo, non la pianta che nascerà. Dio gli darà poi la forma che vuole, e ad ogni seme corrisponderà una pianta" (I Corinzi, 15, 36-38).