La trasposizione della stella ottagonale, legata all’esoterismo cristiano, nella pianta di Castel del Monte, rappresenta in modo molto efficace la sacralizzazione dell’autorità sveva: Castel del Monte è il simbolo di Federico II per rappresentare la comunione di Regnum e Sacerdotium nella sua persona. Presso i neoplatonici e i neopitagorici, le cui dottrine influenzarono la cultura islamica, l’origine del mondo scaturirebbe da un cerchio generato da due quadrati ruotanti di 45° rispetto ai propri assi. La figura che ne deriva è un ottagono, uno dei principali simboli esoterici dell’arte e della tradizione cristiana ed islamica. Come il quadrato simboleggia il mondo, così il cerchio rappresenta il cielo, così come la cuba islamica doveva avere una base quadrata e un tetto circolare, tracciati dal compasso celeste e dalla squadra terrestre della simbologia commacina. Anche il numero otto possiede la stessa valenza simbolica, rappresentando il mondo intermedio tra la circonferenza del cielo e la mole quadrata della terra, il punto di arresto della manifestazione, la bilancia dei cabalisti; lo stesso numero, coricato, rappresenta l’infinito. L’ottagono racchiude in sé il concetto di rigenerazione spirituale in quanto appunto intermediario tra il quadrato e il cerchio. Non a caso nella tradizione cristiana il fonte battesimale che simboleggia rigenerazione e rinascita è quasi sempre di forma ottagonale, ed è nell’ottavo giorno che fu creato l’uomo nuovo investito della Grazia ed ebbe luogo la risurrezione del Cristo (mediatore tra Dio e l’uomo, come Federico lo era tra i suoi sudditi e Dio): giorno inesistente nel calendario reale, essendo un puro simbolo salvifico indicante l’“altro giorno”, il “tempo di Dio”. Le figure geometriche costituite dall’ottagono e/o dalla stella a otto punte, presenti nelle chiese islamiche e cristiane, costituiscono un simbolo mandalico che rappresenta il percorso dal mondo terreno alla salvezza eterna. In riferimento a questa simbologia esoterica, non meraviglia il fatto che gli alchimisti attribuissero una così grande importanza alla “quadratura del cerchio”. Due sono però gli edifici in cui la stella a otto punte raggiunge la sua massima espressione simbolica: la Cupola della Roccia presso Gerusalemme, costruita dal Califfo ‘Abd al-Malik, sulla rupe dove un tempo si trovava il tempio di Salomone (in seguito divenuta quartier generale dei Cavalieri del Tempio) e Castel del Monte in Puglia, l’una testimonianza dell’affermazione religiosa dell’Islam (da lì Maometto lasciò la terra per essere assunto in cielo), l’altro simbolo architettonico della Pax Augusta federiciana. L’Imperatore stesso, durante la crociata del 1228, visitò la Cupola della Roccia ed è presumibile che in quell’occasione maturò in lui l’intenzione di rappresentare in forma architettonico-simbolica la sua idea di Impero. Basti ricordare che per le proporzioni di Castel del Monte si ispirò alle stesse usate da Salomone per la costruzione del Tempio di Gerusalemme.
Ma Federico II conosceva il linguaggio simbolico ed esoterico? A parte il fatto che in alcuni trattati alchimistici bizantini del secolo XIII viene riportato il nome di Federico II, prendendo in esame alcune delle figure a lui più vicine, la risposta è senza dubbio affermativa. Tenendo inoltre nella dovuta considerazione la vastità degli interessi culturali dell’Imperatore, è universalmente accertato anche l’interesse che egli nutriva per quel campo dello scibile dai più denominato “mondo dell’occulto” ma che noi preferiamo designare col termine di “esoterismo”. Alla corte di Federico II erano presenti, tra gli altri, Leonardo Fibonacci, il grande matematico che per primo introdusse il sistema numerico arabo in Occidente (dedicò all’Imperatore, nel 1225, il suo Liber quadratorum) e Michele Scoto, grandissimo astrologo, autore del triplice trattato Liber Introductorius, Liber particularis, e la Phisyognomia, che nel loro complesso costituivano una vera enciclopedia di tutto il sapere astronomico-astrologico dell’epoca. Tra le fonti principali di Michele Scoto figuravano le antiche opere di Ermete Trismegisto e alcuni trattati come il Liber auguriorum già sospetti alle autorità ecclesiastiche. Lo stesso, ispirandosi alle teorie musicali del monaco Guido di Arezzo, ricercava nelle leggi che regolano il moto delle sfere celesti, l’armonia universale. Fa comunque notare Antonino de Stefano che tale sorprendente erudizione lo Scoto l’aveva potuta acquisire per mezzo della biblioteca imperiale, i cui armadi erano colmi di libri riguardanti ogni scibile umano. Anche l’alchimia non poteva rimanere estranea all’interesse dell’Imperatore. Sebbene allo stesso Scoto vengano attribuiti alcuni trattati alchimistici del XIII secolo, è frate Elia il personaggio principale in questa specifica disciplina esoterica.
Su Frate Elia, nella sezione di Alchimia sono riportati alcuni documenti:
Frate Elia
Lo stesso Kantorowicz afferma che non v’è dubbio che frate Elia conoscesse Michele Scoto e che ambedue tentassero insieme esperimenti alchemici, dei quali è lo Scoto stesso a dare notizia. Ma chi era in realtà frate Elia? Colui che San Francesco considerò “padre e madre di tutti i sui figli”, colui che Bernardo da Bessa chiamava “vir adeo in sapientia humana famosus, ut rares in ea pares in Italia putaretur habere”, colui che fece esclamare a Tommaso da Eccleston “Quis in universo Christianitatis orbe vel gratiosor vel famosior quam Elias?”, colui che edificò l’esoterica basilica di S. Francesco ad Assisi , viene relegato, oggi come allora, nel dimenticatoio della storia a causa degli intimi rapporti di amicizia con l’Imperatore Federico II, col quale condivise perfino la scomunica. L’aver abbracciato la causa dell’Impero, la “visione del mondo” federiciana - una visione superpolitica della realtà totalmente innovativa per quei tempi - in cui l’Impero appariva come una istituzione sovrannaturale, l’aver sondato abissi imperscrutabili, relegò per sempre frate Elia nell’ombra, allontanandolo da quella eterna luce che al contrario appieno condivise con le immortali figure di San Francesco e Federico II di Svevia. Dice il Kantorowicz che con lui “si rivelava ora per la prima volta il segreto legame che univa ghibellinismo e francescanesimo”. E di che natura fossero i rapporti tra frate Elia e Federico II saranno i fatti a dimostrarlo. Basterebbe ricordare l’intervento diretto dell’Imperatore a difesa di Elia in occasione della sua deposizione dall’Ordine nel maggio del 1239, allorché, accusato di tendenze ghibelline, venne rimosso dall’incarico nel Capitolo Generale che si tenne a Roma per la Pentecoste di quell’anno. L’Imperatore inoltre lo inviò, tra il 1241 e il 1242, come suo Legato in Oriente, per risolvere la critica situazione tra l’imperatore latino di Costantinopoli Baldovino e quello greco Vatacio di Nicea. E proprio per i suoi servizi, in favore della riconciliazione tra la Chiesa Greca e Romana, l’Imperatore di Costantinopoli gli donò la reliquia della Santa Croce, conservata oggi a Cortona. Questa è l’immagine - per così dire - storica, più conosciuta del Frate. Spostiamoci però nella Biblioteca Riccardiana di Firenze. Nel manoscritto 119, troviamo scritto: “Fr. Eliae liber Alchimiae. Incipit liber alchimicalis quem frater Helyas edidit apud Federicum imperatorem. Liber lumen de luminum transactus de sarraceno ac arabico in latinum a fratre Cypriano ac compositus in latinum a generali fratrum minorum super alchimicis”. Parimenti nella Biblioteca Vaticana, tra i codici provenienti dal fondo Reginense, si legge un’opera divisa in tre libri e composta da 256 fogli intitolata “Liber Fratris Rev. Eliae Generalis Ordinis Minorum praecepta artis chymicae ad Federicum Imperatorem”. Quanto sopra riportato sarebbe di per sé sufficiente ad aprire un dibattito sul perché la damnatio memoriae del braccio destro di San Francesco abbia fino ad oggi impedito una benché minima ricerca, sia in campo storico che in campo per così dire “tradizionale” sulla “corrispondenza” alchemica tra frate Elia e Federico II.
Portiamo ora la nostra attenzione alla basilica di S. Francesco ad Assisi. Nella Biblioteca Nazionale di Firenze vi è un manoscritto dal titolo già di per sé eloquente: “Speculum artis Alkimie Fratris Helyae O. Min. S. Francisci, qui ex dicta arte componi fecit seu fabricare Ecclesiam S. Francisci in Assisio”, esplicita conferma del “metodo” usato da Elia per l’erezione della basilica assisiate. É da tutti gli Autori accettato che furono le maestranze commacine dell’epoca, sotto la guida di frate Elia, a costruire la basilica di S. Francesco in Assisi con l’accluso Sacro Convento. Le prove più concrete le abbiamo nel cortiletto d’ingresso di quest’ultimo e nell’antico cimitero della chiesa. Nel cortiletto d’ingresso del Sacro Convento, incisi su pietre conce, possiamo ammirare la cazzuola, la mazzetta, la squadra e il compasso tipici della muratorìa medioevale. Nell’antico cimitero troviamo, tra le altre, alcune tombe per noi molto importanti, le quali l’elenco compilato nel 1509 dal sacrestano Fra Galeotto definisce come “sepoltura di tutti li maestri lombardi (altro nome con il quale venivano designati i maestri commacini) della città di Assisi”. In una di queste è sepolto il Maestro Giovanni, figlio del Maestro Simone, morto il 7 luglio 1300. Su di un fondo di pietra rossa di Assisi spiccano due grandi stelle ad otto punte, con all’interno raffigurati due leoni rampanti con scudo crociato (il leone e la croce diverranno poi lo stemma della città di Assisi). Un’altra di queste tombe, appartenente a Ciccolo di Becca, morto nel 1330, presenta un insieme sconcertante di simboli: la Rosa-Croce accanto ad una squadra ed un punteruolo e di nuovo una stella ad otto punte. Suggestivo a questo punto è il raffronto con il mosaico dello stemma federiciano posto di fronte all’altare nella Cappella Palatina di Palermo, incorniciato in ben venti stelle ad otto punte della medesima fattura di quelle presenti nella basilica di Assisi. Qualunque buon osservatore potrà infatti notare come la stella ad otto punte, insieme all’esagono regolare o stellato (Sigillo di Salomone), sia ampiamente diffusa all’interno e all’esterno del Santuario, su volte, pareti e pavimenti così come nei resti delle pavimentazioni di Castel del Monte. Lo stesso altare della Basilica superiore, costruito da Elia, è ricchissimo dei medesimi simboli. L’edificio-simbolo di Federico II si divide il tre livelli distinti così come la Basilica di San Francesco ed in ambedue i casi rappresenta un cammino iniziatico il quale alla fine conduce, secondo la visione dantesca, “a riveder le stelle” (in Egitto il soffitto delle camere sepolcrali era stellato come lo sarà in seguito quello delle Logge massoniche). In effetti da più parti frate Elia è considerato progettista del castello federiciano di Castel del Monte. Mariano da Firenze (morto nel 1523) scrive: “Helias de Corthona, frater Minor, in ipsa arte architecturae famosus, mirabilem Ecclesiam cum Conventu Sanctii Francisci de Assisio et de Corthona extruxit, ac arces plurimas et fortalitia per regnum Siciliae ab rogatu Frederici Imperatoris, postquam ei adhesit cui familiaritate nimia, tam ex hac arte, quam ex sapientia sua, et familiaritate quam habuerat cum beato Francisco, erat coniunctus”. A tale proposito Pietro Scarpellini dice: “Quanto all’accenno di Mariano circa un’attività di Elia a servizio di Federico II, essa potrebbe riferirsi, come ha fatto notare l’Haseloff (1920), a Castello Ursino a Catania, iniziato nel novembre 1239, quindi dopo la deposizione del Frate da generale dell’Ordine, avvenuta nel maggio di quello stesso anno; e più ancora a Castel del Monte, presso Andria nelle Puglie, iniziato nel 1240”. Un altro autore, il Coletti, insiste sui rapporti tra la basilica di S. Francesco e Castel del Monte, così come Renata Wagner-Rieger, la quale mette in evidenza una straordinaria somiglianza tra la chiesa superiore di Assisi e la strutturazione delle pareti del piano superiore di Castel del Monte. Grande è l’importanza dei simboli presenti nella basilica di S. Francesco e riconducibili, almeno in parte, alla visione federiciana racchiusa nelle mura di Castel del Monte, ma i riferimenti imperiali sono lungi dall’esaurirsi nella simbologia finora illustrata.
Federico II chiamava Elia “dilecto familiari et fideli nostro” ed il Frate mai fece mistero della profonda amicizia che lo legava all’Imperatore. L’ammirazione di Elia per l’idea imperiale di Federico II non poteva non tradursi in un riconoscimento tangibile che sarebbe dovuto durare nel tempo, in eterno conservato nella chiesa che lui aveva progettato e che sotto la sua direzione le maestranze commacine andavano costruendo. La rosa del Tetramorfo (i quattro Evangelisti) è una caratteristica dell’Italia Centrale, praticamente assente al nord come al sud dell’Italia. La facciata superiore di S. Francesco si distingue inoltre dai precedenti romanici della regione per l’assenza nel portale di un apparato iconografico scolpito. Questa volontaria parsimonia nell’uso della statuaria verrà rispettata anche nella posteriore architettura degli Ordini mendicanti. Apparentemente inspiegabile appare dunque la presenza delle due aquile a coronamento del cornicione, alle quali corrispondono altre due aquile scolpite alla base delle colonnine d’angolo addossate alla facciata interna della chiesa. I più vi riconoscono lo stemma di Gregorio IX, ma, considerando le “simpatie” politiche di Elia, non sarebbe azzardato identificarvi l’aquila imperiale di Federico II di Svevia. Poco prima di fuggire nel campo imperiale, in seguito alla rimozione dalla carica di ministro generale, frate Elia vide ultimate nel 1239 le campane per il campanile della chiesa. Nella più grande di queste campane, una scritta recitava che essa era stata fusa per volere di frate Elia nell’anno del Signore 1239, al tempo di papa Gregorio IX e del potentissimo Imperatore Federico. L’aggettivo potentissimo accostato al nome di Federico II è una chiara allusione alle simpatie di Elia per le insegne imperiali e prelude alla scelta di campo del Frate dopo la rimozione dalla carica di Ministro Generale. Molto spesso trascurato dalla stampa turistica, nella chiesa inferiore di Assisi si erge il monumento sepolcrale della Casa di Brienne, uno dei complessi più misteriosi dell’intera basilica. Nel 1509 Galeotto, il già citato sacrestano di S. Francesco, ricorda nel suo catalogo sulle sepolture: “Item nella ditta ecclesia iace Giovanni di Ierusalem et imperatore costantinopolitano il quale fo frà minore e [la] sua figliola la quale fu moglie di Federico imperatore secundo”. Già in relazione a questo monumento potremmo introdurre l’argomento, che più avanti verrà ampiamente affrontato, riguardante la “congiura del silenzio”. In effetti mentre nella figura seduta - considerando anche la testimonianza di Bartolomeo da Pisa - può essere ravvisata l’immagine di Giovanni di Brienne, per quanto concerne la figura giacente - che fra Galeotto e molti altri asseriscono essere la stessa figlia di Giovanni e moglie di Federico II - molti dubbi sono stati sollevati a riguardo. A tale proposito è stato notato come la veste corta fino alle caviglie e la presenza dei piedi in vista, disdica ad un personaggio femminile. Ma la statua non è sempre stata così. Infatti è stato definitivamente accertato che in epoca imprecisata tutta la parte inferiore del corpo venne accorciata e riscalpellata. Perché e da chi, resta un mistero. Del tutto ignorate dalle peraltro numerosissime pubblicazioni sia turistiche che storico-illustrative della Basilica, risultano invece le quattro protomi umane inserite esternamente nelle parti alte e contrapposte del transetto della Chiesa superiore, a fianco delle imposte delle arcate ogivali delle polifore gotiche che danno luce al transetto stesso. Sfuggite fino al 1981 ai più attenti studiosi della Basilica di Assisi, in due di esse non sembra azzardato riconoscere l’Imperatore Federico II ed il suo segretario Pier delle Vigne. Il volto coronato presenta infatti forti analogie con quello di Federico II, presente nella tipologia dei ritratti ufficiali dell’Imperatore divulgati attraverso i sigilli dei diplomi e con quello riprodotto nel famoso trattato di falconeria composto dallo stesso Imperatore e conservato nella Biblioteca Vaticana, nonché con il busto già presente sulla porta di Capua, ora perduto - ma di cui si conserva un calco - e con il volto presente su una colonna della bifora sinistra del lato sud del chiostro dell’abbazia di Casamari, che un’antica e tutt’oggi accolta tradizione indica come quello di Federico II. Da notare che nella suddetta abbazia, contrapposto al suddetto volto imperiale, su di un’identica colonna è raffigurato anche il volto di Pier delle Vigne. Ultimamente c’è chi ha ravvisato nel secondo busto del transetto della Basilica di Assisi non già Pier delle Vigne ma lo stesso Frate Elia, raffigurato con una folta barba, come nella Croce dipinta da Giunta Pisano, e con in capo un berretto esotico, secondo il costume descritto da Salimbene di Adam. Chi se non Frate Elia poteva aver pensato a commissionare e a far collocare il ritratto dell’Imperatore nella Chiesa che con tutte le sue forze andava costruendo? Tenendo nella dovuta considerazione storica ciò che da noi è stato precedentemente esposto, resta inspiegabile la cortina di silenzio calata sulla figura di Elia, il suo indubbio “interesse” per l’“arte regia”, i suoi stretti rapporti con Federico II di Svevia, la costante presenza, occulta e palese, dell’Imperatore nella basilica di Assisi. Solo una congiura, orchestrata ad arte fin dal medioevo, può spiegare un simile silenzio su una delle figure più importanti del suo tempo. Per comprendere appieno l’importanza storica di Elia, basterebbe considerare solo quanto segue: fu il primo Ministro Provinciale di Toscana; il primo Ministro Provinciale di Terra Santa; il primo Ministro Generale dell’Ordine; fu il primo Custode del Sacro Convento, della Tomba di San Francesco e della Basilica, proclamata da Gregorio IX “Caput e Mater” di tutto l’Ordine Minoritico. Santa Chiara, scrivendo nel 1236 alla Beata Agnese di Praga le diceva: “Attieniti ai consigli del Venerabile e Padre Nostro Frate Elia, Ministro Generale, e anteponili ai consigli di qualsiasi altro e ritienili più preziosi per te di qualsiasi dono”. I motivi della “congiura” possono essere molteplici, dalla condanna senza appello pronunziata da un guelfismo manicheo che non perdonò mai le “simpatie” imperiali del Frate - con relative scomuniche - ad un razionalismo di stampo illuminista presente purtroppo nella stessa Chiesa, per la quale tutto ciò che va al di là del semplice messaggio cristiano, ad uso e consumo delle masse, non può essere accolto come fatto reale e storicamente accettabile, ma relegato, nella migliore delle ipotesi, nell’ambito della fantasia e dell’occulto, nell’accezione peggiore del termine. Questo fu ed è il destino dell’esoterismo di Elia. Pertanto, tutti i documenti che potevano far luce sulla sua autentica figura, verranno nel tempo, o distrutti o distorti. Di conseguenza anche tutto ciò che avrebbe potuto in qualche modo accomunare il francescanesimo con lo scomunicato Federico II, venne accuratamente celato o distrutto, al fine di non turbare, attraverso i secoli, le “coscienze” dei più. Sarebbe del resto difficile far comprendere l’equazione “San Francesco - Frate Elia - Federico II” senza mettere in discussione gli stereotipi di una agiografia fino ad oggi contrabbandata come l’unica delle verità. Se Elia fosse stato veramente ciò che di lui i suoi denigratori vanno dicendo, come mai San Francesco - ad esempio - nel suo testamento, lasciò scritto: “Confesso a Dio Padre e al Figlio e allo Spirito Santo e alla Beata Vergine Maria e a tutti i Santi in cielo e in terra a frate Elia, Ministro Generale di questo nostro Ordine, come a mio signore degno di venerazione tutti i miei peccati”? E poco prima di morire, come riportato da Tommaso da Celano nella “Vita Prima”, rivolgendosi ad Elia disse: “Ti benedico, o figlio, in tutto e per tutto; e come l’Altissimo, sotto la tua direzione, rese numerosi i miei fratelli e figlioli, così su TE e in TE li benedico tutti. In cielo e in terra ti benedica Dio, Re di tutte le cose. Ti benedico come posso e più di quanto è in mio potere, e quello che non posso fare io, lo faccia in TE Colui, che tutto può. Si ricordi Dio del tuo lavoro e della tua opera e ti riservi la tua mercede nel giorno della retribuzione dei giusti. Che tu possa trovare qualunque benedizione desideri e sia esaudita qualsiasi tua giusta domanda”. Già in passato vennero strappati dagli antichi registri del Sacro Convento tutti i fogli che si riferivano alla persona di Elia ed inoltre andò “perduto” il Registro dove frate Illuminato segnava tutte le lettere che Elia riceveva e spediva: in pratica fu tutto appositamente e faziosamente distrutto. Non si può non pensare ad una congiura se si considera che di lui ci è rimasta solo la famosa lettera a fra Gregorio da Napoli “In morte di San Francesco”, dove si apprende delle stimmate del Santo. Dopo il 1239 vennero fuori i primi scritti contro Frate Elia, ed in effetti è proprio dopo la caduta del Frate che vennero lanciate contro di lui le accuse più inverosimili. Lo stesso “Speculum Vitae” raccoglie senza criterio e senza controllo le più assurde dicerie. Esso pone, ad esempio, di fronte a Frate Elia, in veste di violento accusatore, nel 1239, Sant’Antonio da Padova, morto nel 1231 e canonizzato da oltre sei anni. Questo clamoroso anacronismo dà la misura del valore del resto. Ma primo fra tutti, a dare inizio alla “congiura” fu addirittura frate Tommaso da Celano, primo biografo ufficiale di San Francesco. Nella “Vita Seconda”, n. 184, arriva addirittura a cambiare le carte in tavola. Vorrebbe far capire che il Ministro Generale non era Frate Elia. Infatti per la “Vita Seconda”, trovandosi Francesco vicino a morire, un frate gli avrebbe chiesto di indicare chi poteva essere il Ministro Generale. Alla domanda, il Celano, mette sulle labbra del Santo morente questa falsa risposta: “Non conosco alcuno capace di essere guida di un esercito così vario e pastore di un gregge tanto numeroso”. Al tempo stesso nega la scelta a Ministro Generale di Frate Elia, definito invece tale in iscritto e benedetto da San Francesco. Quello che desta soprattutto giusta indignazione è il sapere che il Celano stesso nella “Vita Prima”, al n. 110, chiama Frate Elia Ministro Generale. Con la risposta che il Celano mette in bocca a Francesco morente, egli nega al Santo quello che invece gli attribuì nella “Vita Prima”, ai nn. 48-49-50, cioè il celebrato carisma della profezia e di leggere i segreti dei cuori e delle coscienze. La conferma di tali “doti” in Francesco difficilmente, in effetti, si sarebbe conciliata con la scelta, da parte del Santo, di un “braccio destro” alchimista, ghibellino e scomunicato. E la cosa sembra aver funzionato, se dopo 762 anni il generale sentimento verso Elia è rimasto pressoché immutato. Inoltre, sempre il Celano, passando a raccontare il commovente particolare della Benedizione, nella Vita Seconda, n 216, la riduce “all’imposizione della destra sul capo di ciascun frate, cominciando dal suo vicario (non più Ministro e per di più senza nome); al saluto di addio a tutti i figli, senza distinzioni; alla generale benedizione nei presenti a tutti i frati; alla proibitiva conclusione che nessuno si usurpi questa benedizione data ai presenti per gli assenti”. Francesco non cerca il Ministro Generale, come nella Vita Prima, n. 108; di Frate Elia non si ricorda nemmeno il nome e non si legge più la bella e sincera frase del Santo: “Su TE (Frate Elia) ed in TE benedico tutti i miei fratelli e figli”. Nel 1263, San Bonaventura, secondo biografo ufficiale di San Francesco, che sapeva a mente la Vita I e II del Celano, descrivendo nella sua Leggenda Maggiore, al capitolo XIV n. 5, il particolare della Benedizione di San Francesco morente, dice: “Stese sopra di loro le mani, intrecciando le braccia in forma di croce, benedisse tutti i frati, presenti ed assenti”. Anche per questo Santo il nome di Frate Elia è dimenticato. Fra gli scritti ostili a Frate Elia vi sono persino i famosi “Fioretti di San Francesco”, pubblicati verso la fine del 1300. Al Capitolo XXXVIII apprendiamo che a San Francesco fu rivelato che Frate Elia si sarebbe dannato, ma che poi la sentenza di dannazione fu revocata. Al Capitolo VI si parla di una solenne benedizione data da San Francesco a frate Bernardo, anziché a Frate Elia, con l’unito incarico d’essere il primo dei suoi fratelli (che il racconto sia falso lo dichiara il Celano, non ancora in fase di “revisionismo”, nella Vita I, al n. 108, dove si parla di Frate Elia e non di Bernardo). Nel 1662, lo storico Waddingo, nei suoi Annali, Vol. 1, p. 165, n. IX, arriva a scrivere quanto segue: “La vigilia della sua morte, Francesco chiamati i Frati e benedetto il pane, ne diede un pezzetto a ciascuno, perché lo mangiassero come segno di carità e di concordia. Tutti lo mangiarono con devozione, eccetto Frate Elia, impedito dai gemiti e dalle lacrime. Poi incrociate le braccia, pose la destra sul capo di Bernardo, il quale si trovava genuflesso a sinistra del Santo giacente nel lettuccio (a destra vi era genuflesso frate Egidio) e gli impartì molte benedizioni. Lo munì pure del privilegio di essere il Signore dei suoi Fratelli e di andare e di stare liberamente dove voleva”. É chiaro che lo “storico” ricopia il racconto dei Fioretti e lo abbellisce con il particolare dell’Ultima Cena di Francesco con i suoi Fratelli, nella quale “solo frate Elia non mangia il pezzetto di pane benedetto”. In verità, di questo particolare non parlano né il Celano, né la Leggenda Perugina, né le Cronache non francescane. Il particolare ha evidentemente lo scopo di paragonare Frate Elia a Giuda, il traditore. Addirittura nell’Albero della Vita di Ubertino da Casale si racconta che lo stesso Francesco catalogò Frate Elia fra i bastardi dell’Ordine, perché indossava un largo cappuccio ed una tonaca preziosa, lunga ed ampia. Tale ennesima falsità è peraltro contraddetta nell’immagine che di Elia ci dà un suo contemporaneo, Giunta Pisano, nel 1236. A conferma della secolare “damnatio memoriae” nei riguardi di Frate Elia, riportiamo qui un ulteriore inconfutabile documento. Si tratta di un quadro in carta stampata di 2,30 metri x 1,70, proveniente dalla tipografia di Avignone. Risale al 1663 ed è conservato nella sacrestia di S. Francesco a Cortona, dove da 748 anni riposano le sue Ossa. Rappresenta un Albero Francescano il quale riporta nei suoi vari rami i primi discepoli di Francesco, seguono i Santi, i Predicatori, i Missionari, i Dottori, i Vescovi e i Papi. Lungo il tronco, alla base del quale c’è San Francesco, si vedono figurati, in piccoli dischi gemelli, i Ministri Generali dell’Ordine fino all’anno 1633. Sono 67. L’ultimo disco è vuoto. Che si tratti dei Ministri Generali lo dichiara il sottostante cartiglio dove si legge: “Generales qui iuxta tenorem Regulae dicuntur, successores S. Francisci”. Incredibilmente Frate Elia non risulta, né come primo né come secondo Ministro Generale, né mai. Il Primo è Giovanni Parenti, poi Alberto da Pisa, Aimone, Crescenzio, Giovanni da Parma, Bonaventura ecc. ecc. Frate Elia è relegato fuori dal tronco, figurando dentro un ricciolo destro del quadro. E ai giorni nostri cosa accade? Abbiamo in precedenza parlato della testa coronata raffigurante con ogni probabilità l’Imperatore Federico II, presente all’esterno dei finestroni del transetto della Basilica di Assisi. Giuseppe Rocchi, Renato Bonelli, Antonio Cadei, Joachin Poeschke, grandi studiosi della Basilica assisiate, nei loro lavori, la ignorano completamente. La “dimenticanza” più vistosa a riguardo è nel volume di Wolfgang Schenkluhn sull’architettura di S. Francesco, e la cosa sorprende non poco trattandosi della più accurata indagine della Chiesa nel suo aspetto materiale. L’assenza è ancora più sorprendente quando si esamini il significato politico attribuito al monumento dallo studioso tedesco, che vorrebbe riconoscervi una testimonianza del conflitto personale tra Gregorio IX e Federico II, a tutto vantaggio del pontefice. Naturalmente, la scoperta di un ritratto imperiale sulle pareti della Chiesa avrebbe fatto crollare tutto il castello di carte del libro, ed è probabile che sempre per questa ragione lo Schenkluhn abbia omesso di segnalare anche la presenza del nome di Federico, accanto a quelli di Gregorio IX e di Elia, sulle campane fuse per il campanile, per volere del Frate, nel 1239. Strane, troppe coincidenze o non piuttosto una comune volontà, attraverso i secoli, di ignorare volutamente, con l’ausilio della menzogna, tutto ciò che in qualche modo potrebbe minare alcune “certezze” assunte a fondamento di una visione del mondo senz’altro più semplice e più comoda ma senz’altro più “orizzontale” e più opaca, nonché falsa? Rimettere in discussione il profilo esoterico di alcune figure oramai storicamente “catalogate”, l’Idea imperiale ed i suoi rapporti con il Sacro in generale e con il Francescanesimo in particolare, significherebbe minare dalle fondamenta quella sicumera culturale troppo spesso alibi per avvenimenti adattati ad una realtà di comodo. Soltanto il ritorno ad una profonda onestà intellettuale potrà permettere il recupero della comprensione del codice simbolico di tanti antichi monumenti, permettendo all’uomo di oggi di proiettarsi e dilatarsi verso alte e superiori dimensioni già simbolicamente presenti nella pietra di per sé trasparente.
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