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Gli uomini avevano già sterminato una buona parte del mondo animale, quando incominciò a nascere in loro un certo timore per la propria maestria nell'uccidere. La paura è antica quanto la cupidigia, ma si nasconde più facilmente; essa si rivela solo indirettamente, ama travestirsi. Gli uomini primitivi, così come quelli moderni, non sanno spiegarsi la vita dell'anima degli animali altro che attraverso l'analogia delle loro manifestazioni fisiche con le proprie. Quando le somiglianze esteriori sono minime, oppure quando negli uomini il processo psichico si complica, la possibilità di stabilire un paragone viene praticamente a mancare. Allora ogni spiegazione del comportamento degli animali avviene con favole antropomorfe, come in quel racconto dell'allevatore di uccelli, le cui oche hanno la loro amministrazione della giustizia dapprima schiamazzano tra loro, questo è il dibattito; poi, dopo aver condannato a morte il malfattore, si precipitano su di lui e lo beccano finché esso soccombe; questa è l'esecuzione.
È assai probabile che in quella ristretta cerchia di rapporti sociali, che già esisteva fra gli appartenenti a una stessa collettività almeno fin dal tardo Paleolitico, gli uomini abbiano esteso anche agli animali le loro abitudini di vita e i loro concetti di giustizia. Per essi gli animali non erano pari a loro per nascita, ma nemmeno erano esseri del tutto estranei. C'era un'evidente corrispondenza in tutte le azioni determinate dal desiderio di vita, nella ricerca del cibo, nell'assalto, nella difesa, nella fuga davanti al pericolo. Non si trattava solo di azioni e reazioni di un singolo animale, ma di un intero gruppo, come per gli uomini se uno si lanciava all'assalto, gli altri correvano insieme a lui; se uno correva via anche gli altri fuggivano. Pareva talvolta che il senso collettivo degli animali si manifestasse ancor
più chiaramente: quando gli animali della stessa specie venivano in aiuto a uno dei loro minacciato dall'uomo o da animali d'altra specie.
Nello spirito umano aiuto e vendetta sono fratelli. Non sarà così anche negli animali? Non si vendicheranno se l'uomo uccide uno di loro - proprio come fanno gli uomini di una stessa collettività quando uno di loro viene ucciso o fatto prigioniero?
La paura della vendetta degli animali è il grande Leitmotiv che riecheggia in tutte le oscure regole sociali e culturali che si riassumono sotto le denominazioni di totem e di tabù, ma la sua diffusione si estende oltre le primitive forme di società, riflettendosi ancora nei riti e nei miti degli antichi popoli civili con propaggini fino ai nostri tempi. Essa prende una piega morale e si chiama allora coscienza; assume forme curiose, quasi commerciali, giacché l'uomo si sforza di redimere le sue colpe di fronte agli animali, non solo risparmiandone alcuni, ma onorandoli e attribuendo loro onori divini. Dopo avere sacrificato intere specie di animali al suo benessere materiale, egli ne preserva altre per la salute dell'anima. Poiché il guaio della, sua situazione è che il pericolo non cessa con la morte. Egli teme la vendetta nel mondo dell'aldilà. Può essere stato vincitore durante la vita, ma dopo la morte gli animali lo soggiogheranno e lo renderanno simile a loro, e se tornerà sulla terra, avrà l'aspetto di un orribile animale.
L'idea che l'uomo possa rinascere trasformato in animale è molto antica, e si ritrova in molte regioni della terra tra popolazioni sia molto che poco evolute spiritualmente. Alcuni antropologi vedono in questa concezione una specie di darvinismo primitivo, la credenza cioè che l'uomo derivi dagli animali. Ma c'è una grande differenza tra l'evoluzionismo primitivo e quello scientifico: l'evoluzionismo primitivo crede nella reversibilità dell'evoluzione, quello moderno no. I sostenitori dell'ortogenesi hanno a questo proposito formulato una legge fondamentale di storia dell'evoluzione: la legge dell'irreversibilità. Essi si richiamano al fatto che non si è mai osservato che un gruppo animale estinto sia nuovamente comparso. Può accadere che un organo diventi fisiologicamente inutile, che una specie si deformi, degenerando in forme nane, ma non di più. Anche la teoria delle mutazioni con le sue improvvise deviazioni dalla regola ed eccezioni, non ammette una generale evoluzione a ritroso.
La concezione della natura presso le civiltà primitive è meno ottimistica, per lo meno il suo ottimismo è di altro genere. Essa non esclude affatto grandi trasformazioni, come hanno fatto le scienze naturali per circa due millenni; ma evoluzione significa per essa non un movimento progressivo più o meno rettilineo, bensì un movimento di andata e ritorno. Essa applica anche alla natura vivente quel principio che i moderni ammettono caso mai per la storia politica: ciò che fu può anche ritornare. È il pensiero della circolarità.
Questo concetto ciclico si sviluppò nella forma più pura nell'antico Egitto, forse perché le regolari inondazioni del Nilo e l'osservazione degli astri ribadivano colà negli uomini la credenza in un periodico ritorno degli stessi fenomeni. Certo il mondo fisico in senso stretto rimane invariato; solo i suoi abitanti mutano di continuo. L'anima dell'uomo trapassa, subito dopo la morte, in un animale, e migrando a turno attraverso tutti gli esseri viventi della terra, dell'acqua e dell'aria, dopo tremila anni ritorna nuovamente nel corpo di un uomo. Ma anche qui la sua permanenza non è lunga. Quando l'uomo muore, la sua migrazione attraverso il regno animale ricomincia, e così per tutta l'eternità.
Questa è la metempsicosi, di cui parla Erodoto. Essa ha il carattere di una legge naturale ineluttabile per la quale a mala pena c'è differenza fra uomo e animale - entrambi non sono che punti di sosta di un eterno ciclo. Probabilmente questa fu la dottrina di qualche setta; la più antica concezione egiziana della vita dopo la morte corrisponde assai poco a questa versione. Nel sesto secolo avanti Cristo, la dottrina della metempsicosi si estende a Occidente e a Oriente. Essa entra nel mondo greco mediante Pitagora e i suoi discepoli, su un piano completamente metafisico; in India, grazie a Gautama Buddha, diviene una parabola morale che i suoi discepoli prendono però evidentemente molto alla lettera.
Secondo la dottrina indiana la bestia è molto al di sotto dell'uomo - l'adorazione della vacca nasce assai più tardi. Perciò la trasmigrazione dell'anima attraverso il regno degli animali assume il carattere di una terribile punizione. Buddha minaccia con ciò i malfattori, gli stolti, dediti al piacere. Chi durante la vita si comporta da bruto, dopo morto sarà anche fisicamente degradato ad animale. Questo è il pensiero che l' Illuminato vuole inculcare nella mente dei suoi seguaci. Esprimendolo con poetica eloquenza, egli espone nello stesso tempo una originalissima suddivisione del regno animale, basata su caratteri fisiologici. Riportiamo qui alcune frasi dei discorsi di Buddha:
Vi sono, o monaci, esseri divenuti animali che divorano erba; essi inumidiscono l'erba con la saliva e la tritano con i denti. Ma quali sono, o monaci, gli esseri divenuti animali che divorano l'erba? Cavalli, buoi, asini, capre, antilopi e quanti altri esseri divenuti bestie divorano l'erba. Orbene, o monaci, quel folle che fu qui prima gaudente, che compì azioni cattive, al dissolversi del suo corpo dopo la morte rivivrà nella comunità di quegli esseri che vivono da erbivori.
Vi sono, o monaci, esseri divenuti animali che divorano sterco; non appena fiutano da lungi odor di sterco, essi si affrettano a quella volta: di questo vogliamo rifocillarci... Ma quali sono, o monaci, quegli esseri divenuti animali che divorano sterco? Polli, maiali, cani, sciacalli e quanti altri esseri divenuti bestie divorano sterco.
E così via in forma salmodica. Vi sono esseri, divenuti animali, che nascono nelle tenebre, vivono nelle tenebre, muoiono nelle tenebre: scarafaggi, tarme, scolopendre. Vi sono esseri, divenuti animali, che nascono nell'acqua, vivono nell'acqua, muoiono nell'acqua: pesci, tartarughe, coccodrilli. Vi sono esseri, divenuti animali, che nascono nell'immondizia, vivono nell'immondizia, muoiono nell'immondizia; esseri che nascono, vivono e muoiono in pesci putrescenti o in putrescenti vivande o nelle paludi e nelle pozzanghere. A ognuna di queste enumerazioni segue la stessa tremenda minaccia: gli uomini stolti, che hanno compiuto cattive azioni, diventeranno siffatti esseri viventi.
E soprattutto non si deve credere che a loro modo gli animali vivano bene.
Se io volessi, o monaci, in qualche modo chiarirvi le cose della bestialità, voi non potreste tuttavia, o monaci, rendervi ben conto mediante la parola di quanto profonde siano le sofferenze dell'esser bruti.
Che l'uomo possa per punizione essere degradato ad animale, è concezione diffusa tanto nel mondo orientale che in quello occidentale. La mitologia greca è piena di trasformazioni di uomini insubordinati in buoi, maiali, delfini - le Metamorfosi di Ovidio ne offrono una raccolta. Talvolta si tratta solo di un capriccio divino, o magari di una grazia per sottrarre qualcuno a un gran pericolo. Ma il presupposto di tutte queste leggende rimane la coscienza della superiorità dell'uomo sugli animali.
Almeno nei primi stadi della civiltà questa coscienza fu limitata dal fatto che gli animali apparentemente hanno utilissime qualità che mancano all'uomo. Gli uomini possono compensare con le armi la loro inferiorità in forza fisica rispetto ad alcuni animali. Più difficile è invece competere con la loro agilità. Numerosissimi animali sono più agili dell'uomo, e anche quando questi riesce a ridurre la loro superiorità nella velocità, addomesticando alcuni veloci corridori e rendendoli sedentari, rimangono però agli animali altre qualità che non fanno che ridestare la sua ammirazione e la sua invidia. I pesci nuotano meglio di lui, e soprattutto il volo degli uccelli gli mostra quanto imperfetto egli sia. Certo, egli ha archi e frecce, con cui può dare la caccia anche agli animali dell'aria, ma la portata di queste armi non si spinge molto lontano. In confronto agli uccelli l'uomo rimane un incapace.
L'aspirazione al dominio, la gelosia, rodono l'uomo. Il complesso di inferiorità nei confronti degli animali, diventa il punto di partenza e la forza motrice di tutto un indirizzo mentale, che si rispecchia nell'organizzazione sociale e nelle forme del culto. Nonostante tutti i mascheramenti e i rigiri, la meta è palese: l'uomo vuole appropriarsi quelle prerogative degli animali che a lui mancano, si vuole alleare con essi per essere più forte; soprattutto vorrebbe assorbirli completamente in se stesso perché nessuno, all'infuori dei propri compagni, possa procurarsi gli stessi vantaggi.
In principio era l'astuzia. Forse fu soltanto l'istinto del gioco, cioè quella primordiale gioia di essere un altro, di travestirsi, che suggerì agli uomini delle caverne l'idea di mettersi la testa degli animali che avevano abbattuto. Con una testa di orso o di cervo si possono spaventare i compagni di accampamento. Essi non hanno subito afferrato che cosa ci sia dietro; forse anche gli animali non se ne accorgeranno, se ci si avvicina ad essi con il loro stesso aspetto. È un trucco da cacciatori, senza che occorra senz'altro pensare a magia o a un qualche profondo significato spirituale. Se il gioco si ripete e se magari porta a un ricco bottino di caccia, il travestimento diventa una bandiera nella quale si crede, come si crede a tutto ciò che porta a un successo, e quando i compagni lo imitano, diventa un distintivo della comunità. L'animale che porta fortuna diventa il totem del clan.
È certo che questo tipo di simbolismo animale si ritrova fin nel Paleolitico. Sulle pitture murali della caverna di Lascaux, che probabilmente sono di qualche migliaio d'anni più antiche degli affreschi di Altamira, si vede un uomo con la testa di uccello che ha trovato la morte nella lotta con grandi animali. Al di fuori della scena vera e propria della battaglia, sta rannicchiato malinconicamente un uccello in lutto per la morte del suo fratellastro. È probabile si tratti del contrassegno di un clan che aveva per animale-totem l'uccello, e al quale, apparteneva sia il caduto che il pittore.
Quando un animale è divenuto il totem, la mascotte di una comunità, non gli nuocciono più nemmeno gli insuccessi; si sa con quanta ostinazione i popoli restano attaccati alla bandiera sotto la quale essi hanno perduto una battaglia. Naturalmente non si può far del male a un animale portafortuna. Esso non è solo tabù, sacro nel senso che non è lecito toccarlo, altro che nelle cerimonie religiose; esso è pure mana, conferisce forza straordinaria, particolare velocità, ingegno e utili capacità.
Gli uomini primitivi non sono benefattori del mondo, né hanno spirito apostolico. Quando possiedono qualcosa che sembra assicurare loro superiorità fisica o benessere, non se ne separano volentieri. Il totem è un'esclusività, nessun altro clan ne deve partecipare. Per rendere credibile a sé e agli altri il diritto all'esclusività, si costruiranno alberi genealogici. I legami familiari, la parentela di sangue, l'origine, saranno d'ora in poi le migliori prove della legittimità. Se l'animale-totem è l'antenato del clan, tutti gli altri rapporti si spiegano da sé: al proprio antenato non si può dare la caccia, non lo si può uccidere, non lo si può mangiare, salvo che per rafforzare simbolicamente la comunità con un rito solenne.
Nella maggior parte dei casi rimane oscuro come si sia compiuta la discendenza degli uomini dal totem. Leggende popolari tanto americane, quanto africane narrano che uomini e animali al principio delle cose appartenevano a una sola famiglia ed erano della stessa specie. Ma solo raramente la credenza in un passato comune si concretizza in una determinata rappresentazione degli antenati animali dell'uomo, come in quella graziosa leggenda indiana secondo la quale il progenitore di tutti gli esseri viventi sarebbe stato un cigno. Da esso, in modo veramente favoloso, sarebbero derivati una gazza, un lupo e una folaga. La gazza un giorno propone al lupo di procurare un po di terra in modo che la folaga venga a posare i piedi sulla terraferma. La terra è trovata e mentre il lupo canta e suona su una raganella, la gazza sparge la terra sull'acqua. Così avrebbero avuto origine terra e mare come sono oggi. Quanto alla gazza, il più accorto degli animali, si trasforma in un indiano.
In molte comunità totemiche pare che non si abbia nessuna idea sull'origine dei componenti del clan dall'animale-totem. In alcune anche una pianta o qualcosa di inanimato serve come totem - qualsiasi generalizzazione in questo campo si è dimostrata insufficiente.
Anche il rapporto tra totem e tabù non: è così stretto e necessario come una volta si ammetteva. Comunque è del tutto errato pensare che tutti gli animali che è proibito mangiare siano sacri per i popoli o le comunità religiose in questione. Frazer - che volle con la violenza racchiudere in un paio di cassetti l'immenso materiale che aveva raccolto - affermò che il maiale era un animale sacro per gli Ebrei per il fatto che essi non lo mangiavano e nemmeno l'uccidevano. Da questo punto di vista, logicamente tutti gli animali che per una qualche ragione l'uomo non solo non mangia, ma neppure distrugge, per lo meno originariamente sarebbero stati sacri all'uomo.
Che il divieto di gustare carne di maiale presso gli Ebrei, i Siriani e gli Arabi - presso questi già molto tempo prima di Maometto - sia una misura di profilassi igienica, è chiaro per chiunque abbia abitato in zone calde e sappia quanto, anche con i moderni sistemi di conservazione, avvelenamenti e disturbi digestivi siano provocati più spesso dalla carne di maiale che da altre specie di carne. Il maiale è inoltre meno comodo, per i nomadi, e perciò più svantaggioso degli animali da pascolo.
Senza dubbio i modi di vedere relativi all'igiene e all'economia variavano da luogo a luogo e da tribù a tribù. Mentre per gli Arabi la carne di cammello era uno degli alimenti principali, per gli Ebrei la stessa era impura, eppure anch'essi usavano il cammello come animale da trasporto, il che dimostra che questo animale non era affatto sacro per loro. È molto probabile che siffatti divieti abbiano avuto origine da qualche epidemia o da qualche altro avvenimento accidentale. In Oriente, ancora in tempi moderni, i cammelli erano considerati come deviatori di malattie, nel senso che, attirando su di sé i contagi, ne preservavano gli uomini - e si capisce perfettamente come chi crede in questo potere dei cammelli si guardi dal mangiare la loro carne. Nell'Antico Testamento agli uccelli viene attribuita una prerogativa analoga: quella di liberare dalla lebbra.
Atteggiamenti di questo genere ci possono oggi apparire assurdi, ma ciò non toglie che a suo tempo essi fossero ritenuti efficaci misure sanitarie e non riti religiosi. Nella Bibbia, la complicatissima procedura riguardante gli uccelli viene nettamente distinta dal susseguente sacrificio del capro espiatorio. Sarebbe pure sbagliato considerare queste cose semplice magia - in quanto vi si scorge l'influenza di forze soprannaturali - o una dimostrazione della mentalità mistica dei primitivi. Del resto, dove sono nella medicina i confini tra misticismo e razionalismo? Non ci appaiono ancora completamente mistici molti metodi diagnostici, preventivi e terapeutici del secolo XVII - il secolo di Descartes e di Spinoza? E siamo così sicuri che fra trecento anni non apparirà mistico molto di quello che oggi è considerato ultima conquista della scienza? Il misticismo è il razionalismo di ieri.
Ancor più oscuro dei totem e dei tabù resta il vero e proprio culto degli animali presso gli antichi, in particolare presso gli Egiziani. Anche a questo riguardo i sociologi hanno invero dato varie spiegazioni, ma gli egittologi sono più scettici e preferiscono confessare francamente che sull'origine e sul senso delle immagini degli dèi-animali non si sa assolutamente nulla. Il fatto che nell'epoca predinastica esistessero lungo il Nilo organizzazioni totemiche, affini a quelle dei Negri d'Australia e degli Indiani nord-americani, non spiega ancora come nell'elevata civiltà del regno dei Faraoni potessero svilupparsi e mantenersi tali forme di culto.
Gli abitanti dell'Egitto furono per lungo tempo cacciatori e pescatori e probabilmente passarono alla coltivazione del terreno più tardi delle popolazioni della Mesopotamia, ma nella sua epoca d'oro l'Egitto fu un paese agricolo, e l'allevamento del bestiame vi aveva solo un'importanza secondaria. Gli animali servivano soprattutto per tirare l'aratro e per i pozzi. Il problema del macello non era perciò così importante, e può darsi che in alcune regioni i buoi fossero lasciati morire di morte naturale. Con la santità degli animali viventi non si andava comunque molto lontano. Per quanto Apis, il dio dall'aspetto di toro, da divinità locale fosse a poco a poco divenuto divinità nazionale e il suo culto godesse ovunque grande popolarità, non si è mai rinunciato per questo ad attaccare i buoi al giogo e ad addossare loro i lavori più pesanti.
In realtà già nei miti religiosi più antichi gli dèi-animali a tal punto erano stati ridotti a simboli, che essi non avevano più in comune con gli esseri viventi terreni altro che la forma. Il cielo è il ventre di una vacca, il sole è un falco con gli occhi infuocati, o anche un poderoso scarabeo, la luna é un ibis, gli dèi creatori di Elefantina, Sobk e Chnum, hanno l'aspetto di coccodrillo e di montone; Isis, una delle divinità più tarde, conserva la testa di vacca, talvolta porta anche solo delle corna stilizzate su testa umana, oppure sta come donna senza alcun emblema animale sotto Hathor, la vacca gigante, nella quale si è personificata.
Il culto degli dèi-animali fu soppiantato per un certo tempo dalla deificazione dei Faraoni e da Rà, dio del sole con aspetto umano, con corna di montone ormai solo decorative; ma nell'ultimo millennio prima di Cristo esso rifiorì, collegato ai riti dei misteri importati da altri paesi. È solo in questo periodo, quando l'Egitto viene a trovarsi in decadenza politica e anche artistica, e quando evidentemente si era del tutto perduto l'antico significato simbolico delle immagini di animali - è solo in questo periodo che gli animali degli dèi diventano animali divini. Sacri e intoccabili diventano ora non solo serpenti velenosi e gatti, ma anche vacche e pesci; chi li offende si espone alla pena di morte. Se è vero quanto hanno riferito Erodoto e altri scrittori greci, gli Egiziani dovevano essere diventati pressoché vegetariani.
I conquistatori stranieri promuovono questo sviluppo - i popoli superstiziosi sono più facili a governarsi. Quale sia la sorte degli animali, a loro non interessa, giacché l'Egitto produce solo cereali. Pare che persino ad Alessandria, che era città più greca che egiziana e che preferiva il culto di Adone e di Afrodite, sia una volta scoppiata un'insurrezione perché un soldato romano aveva ucciso un gatto.
Con tutto ciò i più originali monumenti egiziani di animali non sono gli animali in pietra o in bronzo che ancor oggi suscitano nei musei un leggero brivido, bensì le grandi piramidi ai margini del deserto libico. Gli Egiziani non sapevano certamente di avere accumulato qui, per la gloria dei Faraoni, milioni e milioni di protozoi. Solo i paleontologi moderni hanno scoperto che il calcare delle piramidi di Gizeh è costituito quasi esclusivamente di nummuliti fossili.
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