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Se oltre alla funzione eminentemente sociale, in armonia di quello che dovette essere l'ambiente primitivo, noi vogliamo che l'essere venerato dal gruppo umano serva anche ad una funzione di orientamento, di conoscenza e di forza di fronte alla realtà naturale, apparirà subito che l'adeguazione perfetta del totem attuale alla funzione sociale, si tramuta in una assoluta insufficienza e in una manifesta sproporzione rispetto a questo secondo compito, troppo superiore ed eterogeneo per esso. Non solo noi non troviamo nella specie animale o vegetale venerata la capacità di rendere ragione dei fenomeni della natura, di presentarsi all'uomo come la causa efficiente di essi (compresi quelli più grandiosi, più emozionanti o più nocivi), di apparire il principio dominatore e sopreminente da cui scaturisce nella natura la potenza e la forza; ma ancora a questa insufficienza teoretica vediamo accoppiarsi l'assenza manifesta nel totem di attributi e di qualità supposte, che a questa funzione rispondessero. Ciò, se ci spiega molto bene come e perché i sostenitori e gli studiosi del totemismo hanno ravvisato nella religione una funzione unicamente e semplicemente sociale, dimenticando che in un'età molto più arretrata la colleganza sociale non poteva essere un fine a sé, ma solo un mezzo di lotta per il raggiungimento di qualche cosa di più intimo e di più urgente, cioè la vita della specie sol da poco apparsa in una natura vergine, indifferente od ostile, ci prova d'altro canto che l'essere venerato primitivo doveva presumibilmente consistere in qualche cosa, che nel mentre era capace di creare e mantenere questa coesione ed unità sociale, potesse anche assolvere l'altra e più fondamentale funzione. E in questa credenza ci rafforzeremo ancor più, se poniamo mente che la necessità dell'esistenza di un elemento naturalistico nella vita primitiva non è una semplice induzione nostra, di carattere teoretico, ma qualche cosa che risulta dall'indagine storica e dalla presente realtà, se di questo elemento tracce oltre modo eloquenti e diffuse, sia pure in una forma forzatamente non più originaria, noi riscontriamo sempre e quasi dovunque accanto al totemismo: dico, la magia. La sua presenza ci spiega come il totemismo attuale abbia potuto denudarsi di ogni contenuto naturalistico, che è venuto interamente assorbito dalla magia nella vita selvaggia. Il carattere poi - come abbiamo dimostrato - niente affatto primordiale della magia, ci obbliga ad ammettere o che, allorquando la magia era sostituita dalla concezione religiosa della natura, questa coesisteva col totemismo, o che la funzione sociale presentemente esplicata dal totem poteva essere ed era veramente - per quanto ci é possibile ora intuire - compresa nel compito stesso della religione della natura. E non ci difettano infatti solidi indizi atti a spingerci verso questa seconda ipotesi. Noi già abbiamo mostrato in un nostro studio sulla paternità nel totemismo, che dalle stesse narrazioni mitiche su l'origine del totem è possibile desumere che l'attuale forma zoomorfica (animale) o fitomorfica (vegetale) probabilmente non è affatto originaria, che essa verosimilmente è il termine di un processo aberrante di determinazione e di sempre più precisa configurazione di un essere primitivamente amorfo e indeterminato, simbolo vago della forza vitale, animante la natura e il mondo. Per cui questo processo di determinazione in forma animale sarebbe il parallelo aberrante di quello sano e normale che condurrà al radioso antropomorfismo estetico della religione della bellezza, al sublime «antropopatismo» etico della religione della morale e della legge. Ma indipendentemente da quello che poté essere il totem in una fase originaria, dal carattere - ormai da tutti pacificamente ammesso - collettivistico della vita e della religione primitive, noi possiamo desumere la forma che il divino dovette avere nella concezione religiosa della natura, ossia nell'antecedente che l'attuale magia esige e presuppone. Il totemismo sperimentalmente ci prova non soltanto che la vita sociale a cui esso corrisponde, è essenzialmente collettivistica, ossia unitaria in senso multiplo, complesso e confuso; ma ancora che la stessa mentalità che esso presuppone nell'uomo, è di tal natura. Il totem ha potuto essere felicemente definito un dio collettivo [1], nel senso che l'uomo venera non già un essere concreto e individuale; cioè un singolo animale, ma una specie particolare, e quindi presso che un clan di divinità, di cui i singoli individui non sono che tante incarnazioni, che non lo esauriscono mai. Ciò presuppone non soltanto una singolarissima capacità di vedere l'uno nel molteplice, ma di più di concepire l'unità come la realtà vera e permanente, in una forma non individuale, bensì confusa, globale, indeterminata, quale può essere quella che risulta dalla identità formale di una collettività di individui simili. Ora, a questa conformazione della mentalità primitiva, indipendentemente dalla prova storica offerta dal totemismo, noi avremmo potuto giungere, come a quella che assolutamente doveva essere propria del pensiero primitivo, in virtù della psicologia genetica. Nel mentre infatti lo studio dell'anima infantile veniva a scoprire che il sincretismo é il carattere vero della mentalità del bambino [2], la psicologia generale giungeva a riconoscere che così le idee individuali, come quelle universali derivano per via di dissociazione da qualche cosa di più primitivo e originario, che il Bergson qualifica così: «Sembra bene che la distinzione netta degli oggetti individuali sia un lusso della percezione, egualmente come la rappresentazione chiara delle idee generali è un raffinamento dell'intelligenza... Sembra dunque che noi principiamo né con la percezione dell'individuo, né con la concezione del genere, ma con una conoscenza intermediaria, con un sentimento confuso di qualità preminente o di rassomiglianza; questo senti-mento, egualmente lontano dalla generalità pienamente concepita e dall'individualità nettamente percepita, le ingenera l'una e l'altra per via di dissociazione. L'analisi riflessa lo epura in idea generale; la memoria discriminativa lo solidifica in percezione dell'individuale». Ora, se noi questo sentimento confuso e sincretistico delle qualità preminenti delle cose, che si afferma al di sopra delle singole individualità che sfuggono ancora al pensiero, e che non è ancora capace di staccarsi talmente dalla molteplicità sino ad assorgere al grado di concetto avente una esistenza autonoma, e quindi universale, lo traduciamo in termini religiosi, ossia consideriamo quale sarà l'idea del divino armonizzabile con esso, vedremo facilmente che come il monoteismo risponde alla capacità di cogliere l'universale, e il politeismo nelle sue infinite forme, sino alla disgregazione sua estrema, quale è rappresentata dall'animismo assoluto, corrisponde alla possibilità di a vere idee ben nette e precise (individuali) di personalità divine nei gradi superiori e di incarnazioni divine asistematiche, evanescenti, infinite nell'animismo; questa singolarissima forma di mentalità primitiva e di visione elementare della realtà trova il suo corrispondente esatto nell'enoteismo vitalistico. É esso precisamente una concezione unitaria del divino, così ancora indeterminata, da non essere giunta a solidificarsi in una personalità o individualità precisa, con caratteri distintivi e con forma definita (umana o non umana); e al tempo stesso così legata ancora alla molteplicità del reale, di cui tuttavia esprime la qualità preminente, da non poter conseguire quella indipendenza dal molteplice, che rifulge nel dio unico e trascendente. Abbiamo qui bensì una forma di unità, ma di una unità che non ha alcuna pretesa di sorpassare il campo dell'esperienza immediata, o di presentarsi come qualche cosa di distinto e di diverso dalla natura, bensì proprio ciò che in tutto l'ambiente circostante, globalmente preso e sommariamente considerato, appare come la qualità preminente di tutte le cose, la nota dominante e la chiave esplicatrice. E individuare questa qualità dominante, unica, eppure presente ognora in tutta la molteplicità delle cose, non ci sarà punto difficile, sol che noi poniamo mente a quella che la psicologia genetica da un canto e la storia delle religioni dall'altro hanno dimostrato essere la nota caratteristica della visione che del mondo ha l'uomo nell'infanzia così dell'individuo come della specie. Noi abbiamo visto che questa nota é la personificazione universale delle cose, o meglio l'animazione e la vivificazione della realtà circostante: fondamento supremo della religione. La qualità preminente dunque delle cose per la mentalità primitiva é la loro natura animata, l'essere i fenomeni tutti o l'espressione o l'incarnazione di una forza vitale divina, operante nella natura: quella stessa forza vitale cui l'uomo primitivo, nella lotta per la conservazione della vita, ambiva di propiziarsi, e con cui desiderava di collegarsi, per un incremento della stessa propria forza vitale. Enoteismo vitalistico naturale denomineremo noi, dunque, la concezione del divino, che lo studio della mentalità primitiva suggerisce ed impone. Ma se noi siamo pervenuti ad una rappresentazione del divino strettamente unitaria, che é come il vincolo che unisce tutte le va-rie ed innumerevoli manifestazioni della natura, la forza unica di cui tutti i fenomeni sono un effetto o una estrinsecazione, il principio che tutti li spiega e tutti li genera, possiamo supporre che questa forza centrale, verso di cui la collettività primitiva era interamente orientata nella sua lotta ansiosa per l'esistenza, nella sua brama ardente di conseguire una più salda e più ricca energia vitale, non potesse fare a meno di esercitare una azione su la condotta del gruppo umano, conforme precisamente alla sua natura unitaria nella molteplicità, una influenza cioè che modellasse a sua immagine la condotta e la costituzione della collettività verso di lei orientata. In altri termini, accanto alla funzione biologica del dio enoteistico, dovette affermarsi necessariamente una funzione sociale, se questa efficacia biologica poteva sorgere ed affermarsi solo mediante una condotta dei singoli e dell'intera collettività rispetto alla natura in armonia della concezione che essa aveva del suo dio. In altri termini, noi non vediamo quale motivo possa impedire di pensare che quella funzione sociale esplicata ora dal totem fosse assolta da un dio, che del totem aveva tutti i caratteri di unità indeterminata, confusa e molteplice, ed in più un contenuto di forza vitale operante sull'intera natura e dominante su di essa. [1] «Il totem non é un dio come gli altri, é piuttosto un dio collettivo, o un clan di divinità. Ciò che venera il selvaggio, infatti non é qui tale oggetto, tale pianta, tale animale, ma gli oggetti, le piante e gli animali della stessa specie, concepiti come costituenti una famiglia celeste, che ha gli stessi interessi, gli stessi bisogni, gli stessi alleati. In questa tribù celeste ciascun individuo è dio, una collettività intera é onorata in lui» A. Bros, op. cit., p. 239-40. Abbiamo già detto però che non é esatta l'interpretazione religiosa del totem a cui il Bros aderisce. [Torna al Testo] [2] Il carattere non analitico, e quindi non discriminativo e non individualizzante della mentalità umana alle origini così del singolo come della specie é uno dei risultati più certi: «L'oggetto, per il bambino, non é già un composto di parti in varia guisa raggruppate... L'analisi delle parti sarà fatta più tardi: per ora non c'è che percezione complessiva. Ed é naturale. L'attività percettiva, come ogni altra della mente, é stimolata dal nostro interesse; si percepisce come ci importa di percepire in quel momento. Di un albero, per esempio, abbiamo una visione diversa, guardandolo mentre passeggiamo e osservandolo da botanici: visione complessiva nel primo caso, analitica nel secondo, perché avevamo interesse ad analizzarla. Ora, il fanciullo, da principio non si interessa evidentemente che ad un oggetto nel suo insieme, come massa... non si cura dei particolari, come del resto noi non ci curiamo delle parti che compongono un'automobile o una locomotiva che dobbiamo schivare per non essere schiacciati. Anzi é così vivo nel fanciullo questo modo di percepire le cose, secondo la loro forma generale, che merita di essere distinto con un nome speciale. Io ho proposto di chiamarlo sincretismo, come il Renan designava, con questo nome, quel modo primitivo di vedere, generale, complessivo, ma oscuro, inesatto, nel quale tutto si accumula senza distinzione, proprio dell'uomo primitivo» . Ed. Claparéde, Psicologia del fanciullo, trad. ital., Pavia, 1912, p. 149-150. Ciò che é detto delle singole particolarità di uno stesso oggetto, vale ancor più per i tratti distintivi dei singoli individui di una stessa specie, dei singoli oggetti di uno stesso genere. La percezione di essi é unitaria, confusa, generica: anche noi adulti difficilmente distinguiamo una mosca da un'altra, e nella attitudine mentale e pratica verso di esse non vige in noi che l'idea confusa del genere, non mai quella del singolo. Un progresso ulteriore in questo campo, che ci fa, per esempio, affezionare ad un cane a preferenza di ogni altro, rappresenta senza dubbio un raffinamento dell'osservazione. È così dunque che il selvaggio non distingue un animale da un altro della stessa specie, ma venera tutti gli animali della stessa specie (totem), venera in altri termini una specie. [Torna al Testo]
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