Bhagavadgītā (sanscrito, sf.pl.; devanāgarī: भगवद्गीता, , "Canto del Divino" o "Canto dell'Adorabile" o, meno comunemente, Śrīmadbhagavadgītā; devanāgarī: श्रीमद्भगवद्गीता, il "Meraviglioso canto del Divino") è un poema di contenuto religioso di circa 700 versi (śloka) diviso in 18 canti (adhyāya), contenuto nel VI parvan del grande poema epico Mahābhārata.
La Bhagavadgītā ha valore di testo sacro, ed è divenuto nella storia tra i testi più popolari e amati tra i fedeli dell'Induismo.
L'unicità di questo testo, rispetto ad altri, consiste anche nel fatto che qui non viene data un'astratta indicazione del Bhagavat, ma questa figura divina è un personaggio protagonista che parla in prima persona, e fornisce la possibilità di una sua darśana (dottrina) completa.
Eliot Deutsch e Lee Siegel datano l'inserimento della Bhagavadgītā nel Mahābhārata al III secolo a.C. Tuttavia il primo testo completo di commentario, la Bhagavadgītābhāya, è opera di Śankara (788-821) anche se, evidenzia Mario Piantelli, vi sono certamente delle redazioni anteriori più estese di cui restano tuttavia solo tracce emergenti in quella kaśmīra commentata da Rāmakantha (VII-VIII secolo) e, successivamente da Abhinavagupta (X-XI secolo). Comunque sia il poema presenta diversi rimaneggiamenti operati nel corso del tempo.
Il poema - circa settecento versi (Śloka) totali, suddiviso in 18 canti - costituisce uno dei capitoli del Mahābhārata, ma assume un valore del tutto autonomo all'interno della sua struttura, anche per il notevole valore teologico.
L'episodio narrato nel poema si colloca nel momento in cui il virtuoso guerriero Arjuna - uno dei fratelli Pāndava e prototipo dell'eroe - è in procinto di dare inizio alla battaglia di Kurukshetra (Kurukṣetra), che durerà 18 giorni, durante la quale si troverà a dover combattere e uccidere i membri della sua stessa famiglia, parenti, mentori e amici, facenti parte della fazione dei malvagi Kaurava, usurpatori del trono di Hastināpura. Di fronte a questa prospettiva drammatica, Arjuna si lascia prendere dallo sconforto e rifiuta di combattere.
Attraverso i 18 capitoli della Bhagavad Gītā, Krishna - incarnazione di Dio ed identificabile con l'Ātman, ovvero il proprio Sé più profondo ed immortale - indica ad Arjuna le tecniche mistiche (Yoga) per liberarsi definitivamente dal ciclo delle nascite e delle morti (samsāra) ed ottenere la liberazione (moksa).
Dopo una lunga analisi sui concetti di anima, religione, dharma e su altri concetti che formano il fondamento della filosofia indiana, ad Arjuna viene inoltre spiegata l'importanza dell'azione senza attaccamento al risultato e viene descritto il bhakti yoga, l'unione con Dio attraverso l'amore e la devozione come unico mezzo per raggiungere la perfezione e la moksa:
«Soltanto col servizio devozionale è possibile conoscere 'Me', il Signore Supremo, che cosa e Chi sono 'Io'. E colui che diviene pienamente cosciente di 'Me' grazie a questa devozione, entra rapidamente in Dio.» (Bhagavad Gītā, XVIII, 55)
La Bhagavad Gītā è considerata l'essenza di tutta la spiritualità vedica indiana, poiché essa racchiude il senso delle 108 Upanisad, le quali a loro volta costituiscono un condensato dei 4 Veda. In essa vengono fusi i due poli della ricerca soggettiva umana: monismo e dualismo. |