Serpeggiava un diffuso malessere: i titoli di Stato offerti al 70% del loro valore e all’interesse dell’8% erano crollati a quota 37; la Banca anglo-italiana (di cui era presidente Ricasoli) era fallita; la guerra del 1866 era costata 800 milioni e il deficit dello Stato era salito al 60%. Si erano dovuti decurtare l’appannaggio del re e gli stipendi dei ministri. Ma ciò che doleva non era tanto questo spettacolo di un’Italia povera quanto il senso cocente della sconfitta e del disonore: c’era stata Lissa, c’era stata Custoza. Per i nazionalisti Venezia era quasi una vergogna: un regalo della Prussia. Che importava se i palermitani erano in rivolta e inneggiavano a Francesco II e a santa Rosalia? Molti tra gli uomini che contavano (ed ecco nella vignetta Garibaldi ‘seminare’ le grandi questioni di fronte a un’attonita Italia) erano fermamente convinti che i mali d’Italia si sarebbero dissolti e il Paese si sarebbe ritrovato libero e felice solo che si fosse finalmente compiuto il ‘grande gesto’, un atto eroico, un’impresa epica. Siamo nell’aprile del 1867. Non occorrerà attendere molto: tra pochi giorni si metterà in moto quel complesso e incredibile sviluppo di azioni, manovre e malintesi che anziché abbattersi sul «pauvre diable de Saint-Père» finirà per ritorcersi su Garibaldi, sui suoi volontari e, in definitiva, sull’Italia. "La Rana", 5 aprile 1867
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