La censura sinottica nei confronti di Lazzaro di Betania e di tutta la sua famiglia •
Il quarto Vangelo Il quarto Vangelo, cosiddetto "secondo Giovanni", è molto caro a tanti cristiani che lo preferiscono agli altri tre. Quasi di sicuro perché fa apparire un Gesù che largheggia in insegnamenti di grande profondità spirituale, contraddistinti spesso da quel tono misterioso che è esclusivo delle discipline iniziatiche. In esso è ricca la simbologia e l'uso di linguaggi pittoreschi. INIZIO DEL QUARTO VANGELO NELLA VERSIONE GRECA
Fin dall'inizio l'evangelista ha scelto di toccare la corda del cuore con la lirica appassionata di una canto al logos, principio ancestrale di tutto ciò che è, eterno faro di verità e di certezza per tutti coloro che sono figli della luce. E poi c'è un episodio, che non è descritto negli altri Vangeli, il quale basterebbe da solo a conquistare al testo giovanneo la preferenza di una larga schiera di fedeli. Mi riferisco al celebre miracolo avvenuto nel villaggio di Betania, dove Gesù richiamò in vita il caro amico defunto, Lazzaro, il fratello di Marta e Maria. Il miracolo è descritto con tale sentimento, con le sorelle trepidanti e i popolani partecipi al dolore e alla speranza, che non poteva non suscitare un interesse particolare. E noi glie ne dedicheremo molto, in questo scritto. Certamente questo Vangelo è molto diverso dagli altri tre, ovverosia da quelli detti "secondo Marco, Matteo e Luca", i quali sono definiti comunemente "sinottici", per il fatto che le narrazioni sono spesso parallele, quasi coincidenti nelle parole e nei periodi. Creare una quadruplice sinossi (ovverosia uno schema in cui appaiono affiancati i brani che si assomigliano) che comprenda anche il quarto Vangelo è estremamente difficile, perché spesso il parallelismo si perde, i brani sono molto diversi e così anche la dinamica degli eventi descritti. Prima di affrontare la questione che è l'oggetto specifico di questo scritto, sarà bene esaminare alcune caratteristiche del quarto Vangelo, la cui conoscenza permetterà di comprendere meglio aspetti e implicazioni del problema che andremo a trattare.
Personaggi sinottici e giovannei. Nei Vangeli secondo Marco, Matteo e Luca, sono presenti elenchi dei cosiddetti dodici apostoli, che riportiamo qui di seguito in uno schema di confronto:
Il quarto Vangelo, al contrario, non riporta alcun elenco preciso, e si limita a nominare i diversi apostoli nel corso della narrazione, man mano che questi compaiono. Fin qui, naturalmente, non ci sarebbe niente di singolare, se non dovessimo però constatare che, in realtà, alcune denominazioni sono diverse e che in tutto si raggiungono solo otto identità. Vediamo chi sono:
Possiamo così notare che il quarto Vangelo, oltre a non contemplare alcuni apostoli della tradizione sinottica, ne contempla alcuni che gli sono propri. O, almeno, ha delle denominazioni che gli sono proprie. C'è un particolare che dobbiamo aggiungere, sia di Simone, che di Andrea, che di Filippo, si dice che provengono da Betzayda, un villaggio sulla riva nord-orientale del Lago di Tiberiade, nel Golan. Se vogliamo concludere la nostra breve rassegna delle discordanze nei personaggi sinottici e in quelli giovannei, dobbiamo far notare che Marco, Matteo e Luca contemplano altre identità assenti nel quarto Vangelo: per esempio i genitori di Giovanni Battista, Elisabetta e Zaccaria, i due miracolati per resurrezione, cioè la figlia di Giairo e il figlio della vedova di Nain; mentre il testo giovanneo contempla Nicodemo, Lazzaro e le sue sorelle, Marta e Maria, che sono assenti nei testi sinottici. A dir la verità Luca parla di Marta e Maria, in questo episodio: "Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: "Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti". Ma Gesù le rispose: "Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta"" (Lc X, 38-42), però, noi possiamo notare che Luca, pur nominando le due donne, non cita la località che è Betania, specificata in altre occasioni, ed evita di precisare che esse sono le sorelle di Lazzaro, quelle che erano presenti alla cena dell'unzione. In tal modo, mancando una chiara caratterizzazione dei personaggi, che invece è effettuata con esattezza e insistenza nel testo giovanneo, i nomi perdono la loro importanza e le due figure restano avvolte in una sorta di anonimato. In pratica ci sono nei gesti che compiono, ma è come se non ci fossero nelle identità. Del resto anche il personaggio di Lazzaro manca completamente nei testi sinottici, e questo fa pensare che Marco, Matteo e Luca avessero qualche motivo particolare per omettere dal loro racconto le identità dei componenti di questa famiglia, i quali svolgono delle funzioni di grande importanza nel quarto Vangelo.
Assenza di brani nei sinottici e nel quarto Vangelo. Possiamo adesso nominare alcuni brani di rilievo, presenti nella tradizione sinottica, che sono totalmente assenti nel quarto Vangelo: i quaranta giorni e le tentazioni nel deserto, l'arresto e la morte di Giovanni Battista, l'ossesso di Cafarnao, la guarigione della suocera di Simone, la resurrezione della figlia di Giairo, la resurrezione del figlio della vedova di Nain, numerose guarigioni miracolose, numerose parabole, la trasfigurazione sul monte, il fico disseccato, la questione del tributo a Cesare, la piccola apocalisse ("non resterà pietra su pietra"), la pronunciazione della condanna a morte a Gesù da parte degli ebrei, l'ascensione al cielo. Mentre altri brani sono presenti nel quarto Vangelo e assenti nei sinottici: le nozze di Cana, il paralitico in piscina, il dialogo con la samaritana, l'adultera perdonata, la discussione con Nicodemo, la resurrezione di Lazzaro, il lavaggio dei piedi agli apostoli.
Il primato di Pietro. Il primato di Pietro, a cui Gesù avrebbe affidato il compito di guidare la Chiesa con le parole: "E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli" (Mt XVI, 18-19), è completamente assente nel testo giovanneo. Al contrario, in esso è esplicitamente mostrata la subordinazione di Pietro rispetto ad un altro personaggio: "Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: "Dì, chi è colui a cui si riferisce?". Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: "Signore, chi è?"" (Gv XIII, 23-25); "Pietro allora, voltatosi, vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si era trovato al suo fianco e gli aveva domandato: "Signore, chi è che ti tradisce?". Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù: "Signore, e lui?". Gesù gli rispose: "Se voglio che egli rimanga finchè io venga, che importa a te? Tu seguimi"" (Gv, XXI, 20-22). Stiamo già evidenziando una serie consistente di divergenze che allontanano il testo giovanneo dagli altri tre. Con questo noi possiamo sicuramente permetterci di ipotizzare che i Vangeli sinottici siano scaturiti dall'esigenza di esprimere una particolare interpretazione ideologica e dottrinaria delle opere e dell'insegnamento di Gesù. Come abbiamo visto altrove, tale interpretazione è molto diversa da quella offerta nella letteratura giudeo-cristiana, anche se in realtà noi non abbiamo la possibilità di leggere i testi giudeo-cristiani, ma le informazioni che di essi possiamo avere, dalle citazioni confutatorie presenti nelle opere dei padri della chiesa, sono già sufficienti a darci una chiara misura delle grandi distanze che separano questo filone da quello facente capo all'insegnamento di Paolo di Tarso, sfociato nella compilazione del canone neotestamentario. Sebbene il quarto Vangelo sia incluso nel canone neotestamentario, dobbiamo riconoscere una certa quantità di divergenze che lo allontanano dagli altri tre testi e, se avanziamo la ragionevole ipotesi che lo scritto di cui disponiamo oggi non sia il testo integrale, come lo avrebbe redatto di prima mano l'evangelista, possiamo riconoscere che l'ambiente in cui esso è stato prodotto aveva presupposti ideologici e dottrinari abbastanza lontani da quelli dell'ambiente paolino che ha generato i testi sinottici. Potremmo già affermare che si nota nel testo giovanneo una sensibile componente gnostica, caratteristica dell'ambiente originario che deve averlo creato, la quale, naturalmente, sarebbe stata successivamente sottoposta ad interventi correttivi, anche molto pesanti, atti a renderlo compatibile con la tradizione affermatasi negli ambienti ecclesiastici.
Linguaggi di stile Qumràniano. Una delle peculiarità del testo giovanneo è la terminologia che ricorre spesso ad espressioni come figli della luce e figli delle tenebre, o semplicemente luce e tenebre, per esprimere i concetti di bene e male. La stessa lirica iniziale al logos contiene più volte queste espressioni e, in seguito, troviamo passi come: "E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. ]Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio " (Gv III, 19-21); "Di nuovo Gesù parlò loro: "Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita"" (Gv VIII, 12) "Gesù allora disse loro: "Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce"" (Gv XII, 35-36). Ora, noi abbiamo visto altrove che questa terminologia è assolutamente indicativa del linguaggio e della dottrina Qumràniana, e ciò pone importanti interrogativi sulle relazioni fra cristianesimo ed essenato.: "In una sorgente di luce sono le origini della verità e da una fonte di tenebra le origini dell'ingiustizia. In mano al principe delle luci è l'impero su tutti i figli della giustizia: essi cammineranno sulle vie della luce. Ed in mano all'angelo della tenebra è tutto l'impero sui figli dell'ingiustizia: essi camminano sulle vie della tenebra" (Regola della Comunità III, 19). A conclusioni del tutto analoghe possiamo arrivare se analizziamo un altro passo del quarto Vangelo, in cui si utilizza l'immagine delle acque vive: "Gesù le rispose: "Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: "Dammi da bere!", tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva". Gli disse la donna: "Signore, tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest'acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo gregge?". Rispose Gesù: "Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna"" (Gv IV, 10-1 Da confrontare con questo passo del Documento di Damasco, importante scritto esseno di cui è stata rinvenuta copia nelle grotte di Qumràn: "tutti gli uomini che sono entrati nel patto nuovo, nel paese di Damasco, ma se ne sono poi ritornati, hanno tradito e si sono allontanati dal pozzo delle acque vive" (Documento di Damasco XIX, 33-34 a lato riprodotto).
Assenza della istituzione della eucarestia. Quando abbiamo parlato dell'assenza nel quarto Vangelo di brani che sono presenti nei sinottici, abbiamo trascurato un punto importante: l'istituzione della eucarestia. Infatti si tratta di un fatto così significativo da meritare una attenzione particolare, che gli dedicheremo adesso. Se confrontiamo nei quattro Vangeli i brani relativi all'ultima cena, noteremo che tutti e tre i sinottici contengono una descrizione della istituzione della eucarestia, ovverosia del mistero della ripetizione del sacrificio di Gesù sulla croce e, in particolare della trasformazione sovrannaturale (transustanziazione) del pane e del vino in carne e sangue di Cristo, di cui i fedeli si cibano, compiendo così un sacramento rituale, il cui significato è stabilito come dogma di fede. Il quarto Vangelo, sebbene sia estremamente più abbondante nella descrizione dell'ultima cena, aggiungendo atti come la lavanda dei piedi e copiosi insegnamenti che i sinottici ignorano, e occupando così uno spazio quattro o cinque volte superiore a quello dedicato dai sinottici a questo brano (o più ancora), non fa cenno alcuno all'istituzione dell'eucarestia. La ignora nella maniera più completa. Ora, noi non possiamo fare a meno di ribadire che l'ultima cena, per una serie di motivi che abbiamo esaminato altrove (sia la somiglianza sorprendente col rito di apertura del pasto comunitario a Qumràn, sia la datazione dell'evento, che risulta coerente col calendario solare in uso presso la confraternita essena e non con quello ufficiale degli ebrei di Gerusalemme) era un banchetto ritualizzato secondo la tradizione ebraica, coerente con le concezioni e i costumi degli intransigenti circoli messianici. In questi ambienti, introdurre una concezione teofagica (teofagia = cibarsi del Dio), che è peculiare di alcune religioni pagane dell'area mediterranea, e proporre ai convitati ebrei della cena di cibarsi del sangue e della carne del figlio di Dio, inteso come vittima scarificale, non solo sarebbe stato blasfemo, ma letteralmente ed assolutamente impossibile. Qualcosa di non lontano da quel famoso "abominio della desolazione", di cui parla la Bibbia, quando descrive la profanazione del tempio con immagini o insegne sacrileghe. Si tratta di empietà che più di una volta hanno suscitato reazioni di violenza incontrollata da parte degli ebrei, come ci è testimoniato dallo stesso Giuseppe Flavio. Ed è per questo che abbiamo tutte le ragioni per insinuare molto più di un semplice sospetto che tale irruzione di spiritualità pagana nella scenografia di quel pasto ebraico non sia affatto il frutto della volontà di Gesù, ma delle libere formulazioni teologiche che hanno avuto sviluppo negli ambienti della predicazione paolina.
La cronologia solare. Scrive Jean Daniélou, sacerdote cattolico che ha avuto accesso ai manoscritti di Qumràn, nel suo libro "Les Manuscrits de la Mer Morte et les Origines du Christianisme" (Editions de l'Orante, Paris, 1975): "...Sappiamo che uno dei più difficili problemi dell'esegesi del Nuovo Testamento, è la determinazione del giorno della Cena. I Sinottici la considerano un pasto pasquale e la fissano quindi al 14 nizan (marzo-aprile) di sera. Ma per san Giovanni, la crocifissione ebbe luogo prima della Pasqua: il Cristo è stato dunque crocifisso nella giornata del 14 nizan ed ha istituito l'Eucaristia il 13 sera. In questo caso, la Cena non sarebbe più un pasto pasquale, e questo contraddirebbe i Sinottici. A meno che il Cristo non avesse anticipato il pasto pasquale. Ma come spiegarlo? Il problema sarebbe risolto se si potesse dimostrare che in quell'epoca vi erano due date differenti per la celebrazione della Pasqua... ...Ora, esiste una vecchia tradizione secondo la quale il Cristo avrebbe consumato la cena pasquale un martedì sera, sarebbe stato arrestato il mercoledì e crocifisso il venerdì. Questa tradizione era stata fin qui quasi dimenticata. La Jaubert ha dimostrato che le genti di Qumràn utilizzavano un antico calendario sacerdotale di 364 giorni, che era costituito da quattro trimestri di 91 giorni, formati ciascuno da 13 settimane. Seguendo questo calendario, siccome l'anno comporta esattamente 52 settimane, le feste cadono obbligatoriamente lo stesso giorno del mese e della settimana. In questo calendario, la Pasqua veniva sempre di mercoledì, e la vigilia era dunque di martedì. Così il Cristo avrebbe celebrato la Cena alla vigilia della Pasqua secondo il calendario esseno. Per contro, sarebbe stato crocifisso alla vigilia della Pasqua ufficiale, che in quell'anno cadeva di sabato. Ma, una volta scomparso e dimenticato il calendario degli Esseni, il ricordo di questa data si è cancellato, e si è piazzata la Cena sia il mercoledì, secondo san Giovanni, sia il giovedì. La scoperta del calendario di Qumràn permette di restituirle la sua vera data, e per tale motivo uno degli enigmi del Nuovo Testamento è spiegato...". Ci troviamo pertanto, ancora una volta, davanti ad una inequivocabile indicazione che dimostra la stretta relazione esistente fra l'ambiente originario di produzione del quarto Vangelo e la confraternita essena che aveva dimora nel monastero di Qumràn.
Aggiunte e suddivisioni Il quarto Vangelo sembra avere una duplice concusione. Infatti alla fine del ventesimo capitolo noi possiamo leggere quanto segue: "... molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome." (Gv XX, 30-31). Eppure, abbastanza sorprendentemente, il testo non si conclude a questo punto, bensì riprende la narrazione con una terza apparizione di Gesù sul lago di Tiberiade. Già questo fatto fa capire che il brano, molto probabilmente, è una aggiunta successiva e l'idea appare fortemente rinforzata se esaminiamo alcuni degli argomenti di questa parte. Infatti troviamo tre cose, due delle quali stridono in modo abbastanza palese coi contenuti dei capitoli precedenti, e la terza solleva importanti perplessità dal punto di vista storico. Di che si tratta? Innanzitutto noteremo che in questa parte vengono nominati per la prima volta due apostoli altrimenti assenti, vengono definiti semplicemente come "i figli di Zebedeo" (neanche Zebedeo era mai stato nominato prima) e, per confronto coi sinottici, capiamo subito che si tratta di Giacomo e di suo fratello Giovanni. Poi noteremo che c'è un episodio in cui si cerca di recuperare il ruolo primario di Pietro rispetto a Gesù, che in precedenza non era mai stato messo in evidenza. Infatti c'è un dialogo in cui Pietro per ben tre volte risponde affermativamente alla domanda di Gesù che gli chiede se egli gli vuole bene, e infine il maestro gli ordina: "pasci le mie pecorelle", praticamente dichiarandolo capo spirituale della comunità cristiana. Il terzo fatto singolare riguarda la frase conclusiva: "Pietro allora, voltatosi, vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si era trovato al suo fianco e gli aveva domandato: "Signore, chi è che ti tradisce?"... Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere." (Gv XXI, 20-25), in cui si dichiara che l'autore del Vangelo stesso è "quel discepolo che Gesù amava", identificato dalla tradizione in uno dei due figli di Zebedeo, e precisamente nell'apostolo Giovanni. Ora, questo fatto è contestato da molti studiosi che mostrano le numerose contraddizioni di una identificazione di questo genere. Per prima l'età che avrebbe dovuto avere l'evangelista, dal momento che il quarto Vangelo è riconosciuto come un testo che ha visto la luce alla fine del primo secolo o all'immediato inizio del secondo. Giovanni avrebbe dovuto avere almeno novanta anni. Poi molte indicazioni storiche, fra cui una profezia presente nello stesso Nuovo Testamento, ci indicano che Giovanni sarebbe deceduto prematuramente come martire. Infine ci sono considerazioni stilistiche e di contenuti: avrebbe potuto un ame-ha-aretz, cioè un popolano ebreo incolto, pescatore semianalfabeta (o analfabeta del tutto), iniziare a scrivere un testo in lingua greca dotta, attingendo alla filosofia ellenica del Logos? Tutto questo ci porta con estrema chiarezza ad intuire che il ventunesimo capitolo del quarto Vangelo non è che uno dei pesanti interventi successivi, a cui abbiamo già accennato, atti a renderlo compatibile con la tradizione affermatasi negli ambienti ecclesiastici cristiani. Il testo originale non si estendeva oltre a ciò che oggi è contenuto nei primi venti capitoli. Ora, in aggiunta a quanto sopra, possiamo ancora notare che i primi venti capitoli sembrano essere divisi con perfetta simmetria in due parti di dieci capitoli ciascuna. Dal primo al decimo capitolo appare Giovanni Battista, che è un protagonista primario di questa metà. Egli è annunciato fin dall'inizio con le seguenti parole: "Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui." (GV I, 6-7), ed è, per così dire, congedato da una frase in cui si afferma che tutto ciò che egli aveva detto risponde a verità, affinché gli altri credano: "Molti andarono da lui e dicevano: "Giovanni non ha fatto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero". E in quel luogo molti credettero in lui." (GV X, 41-42). Nella seconda metà del Vangelo Giovanni Battista scompare completamente dalla scena e diventano protagonisti primari persone che finora non si erano mai viste, come Lazzaro di Betania ed un certo "discepolo che Gesù amava", e noi vedremo in seguito che queste due individualità solo apparentemente sono distinte. Questa personalità unica è annunciata subito all'inizio della seconda metà, con parole che gli affidano una funzione di grande importanza, celebrare la gloria di Dio con un evento di cui Lazzaro è protagonista: "Era allora malato un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella. Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dirgli: Signore, ecco, il tuo amico è malato. All'udire questo, Gesù disse: Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio" (Gv I, 1-4), e, con una sorprendente simmetria strutturale rispetto alla prima metà del testo, anche questa volta abbiamo un congedo tramite una frase in cui si afferma che tutto ciò che egli aveva detto risponde a verità, affinché gli altri credano: "Questi (fatti) sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome." (GV XX, 31), ribadita anche nella conclusione aggiunta: "Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera." (GV XXI, 24). Tutto questo è molto curioso, anche se destinato a rimanere abbastanza oscuro. Certamente noi comprendiamo che all'interno del quarto Vangelo, nelle sue parole e nelle sue architetture, sono celati significati che il suo autore voleva trasmettere e che sono comprensibili solamente attraverso una analisi molto approfondita e, talvolta, solo da un lettore in possesso di certe chiavi interpretative.
L'attribuzione della paternità del quarto Vangelo Abbiamo già parlato del fatto che la tradizione attribuisce questo testo all'apostolo Giovanni, ma abbiamo anche detto che molte ragionevoli obiezioni mostrano la consistente improbabilità di questa attribuzione, quasi una evidente impossibilità. Giovanni sarebbe stato giustiziato insieme al fratello Giacomo: "Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: "Che cosa vuoi?". Gli rispose: "Dì che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno". Rispose Gesù: "Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?". Gli dicono: "Lo possiamo". Ed egli soggiunse: "Il mio calice lo berrete..."" (Mt XX, 20-23) [si noti che Gesù usa l'espressione "bere questo calice" con riferimento al proprio martirio], "...secondo non pochi moderni sarebbe stato martirizzato nel 41-44 d.C., insieme con il fratello Giacomo, da Erode Agrippa I. L'affermazione si basa su due testi, uno di Filippo Sidete (430 ca.) e l'altro di Giorgio Hamartolos o Peccatore, sec. IX, che citano la notizia dal Secondo Libro o Discorso di Papia..." (Grande Dizionario Enciclopedico UTET a cura di P.Fedele, voce "Giovanni, apostolo"). In realtà, se fosse stato chiaro fin dal primo momento che questo testo era stato scritto da un discepolo così importante come Giovanni (a cui Gesù, sempre secondo l'interpretazione tradizionale, con la quale non concordiamo, avrebbe addirittura affidato la madre Maria, affinché egli la prendesse nella propria casa) non si capisce perché a suo tempo ci siano state tante resistenze contro l'inclusione di tale autorevole scritto nel canone neotestamentario e perché sia stato così controverso il dibattito che si è concluso con la decisione di affiancarlo ai tre Vangeli sinottici. In effetti, al tempo di questo dibattito, il presbitero di Roma Gaio respingeva questo scritto affermando che l'autore era un maestro gnostico dell'Asia minore, un certo Cerinto. Più tardi, quando l'opera giovannea fu accettata ed inserita nel canone, l'obiezione di Gaio fu superata affermando che Cerinto si era disonestamente attribuita la paternità di scritture di cui, invece, era autore Giovanni. Ora, noi non possiamo sapere con certezza chi sia stato l'autore della forma originaria di quel testo che oggi ci si presenta come il quarto Vangelo, né convalidare l'eventuale attribuzione a Cerinto. Però è certa una cosa: che il quarto Vangelo non è stato scritto dall'apostolo Giovanni, e che la sua origine è da cercare in una comunità gnostica dell'Asia minore.
Il discepolo senza nome Come abbiamo già visto, uno dei personaggi di questo scritto, diciamo pure un protagonista di rilievo, non è mai chiamato per nome ma è caratterizzato solo dall'espressione "il discepolo che Gesù amava". Egli, definito in questo modo, compare solo nella seconda metà del Vangelo. Vediamo in quali occasioni: "Dette queste cose, Gesù si commosse profondamente e dichiarò: "In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà". I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: "Dì, chi è colui a cui si riferisce?". Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: "Signore, chi è?"" (Gv XIII, 21-25), "Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme con un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote e perciò entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote; Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell'altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare anche Pietro" (Gv XVIII, 15-16), " "Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!"" (Gv XX, 1-2), "Quando già era l'alba Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: "Figlioli, non avete nulla da mangiare?". Gli risposero: "No". Allora disse loro: "Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete". La gettarono e non potevano più tirarla su per la gran quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: "E` il Signore!". Simon Pietro appena udì che era il Signore, si cinse ai fianchi il camiciotto, poichè era spogliato, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: infatti non erano lontani da terra se non un centinaio di metri" (Gv XXI, 4-8), "Pietro allora, voltatosi, vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si era trovato al suo fianco e gli aveva domandato: "Signore, chi è che ti tradisce?". Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù: "Signore, e lui?". Gesù gli rispose: "Se voglio che egli rimanga finchè io venga, che importa a te? Tu seguimi". Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: "Se voglio che rimanga finchè io venga, che importa a te?". Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera" (Gv XXI, 20-24). Perché l'evangelista avrebbe avuto la necessità di lasciare anonimo questo personaggio? Si tratta di un fatto singolare, che non ha simili nel Nuovo Testamento, ogni qual volta si parla di figure di grande rilievo ed importanza. Noi siamo pertanto indotti a sospettare che si tratti di un espediente finalizzato a nascondere la vera identità di un personaggio che sarebbe stato molto pericoloso per l'interpretazione neocristiana del ruolo storico di Gesù, il quale, dalla predicazione paolina, era stato reso totalmente estraneo ad ogni coinvolgimento col messianismo degli ebrei. Nella seconda delle citazioni che abbiamo appena visto, questo discepolo anonimo è caratterizzato da un altro fatto, che può fornirci elementi utili alla discussione sulla sua identità. Di lui viene detto che era noto al sommo sacerdote, al punto da poter entrare nel cortile in cui era stato portato Gesù arrestato, in quella circostanza tutt'altro che tranquilla e ordinaria, e da poter fare entrare anche Simon Pietro, che alle guardie era totalmente sconosciuto. Ora, un eventuale Giovanni apostolo, autore di un Vangelo nato alla fine del secolo, pertanto molto giovane al tempo degli eventi in questione, per di più popolano incolto proveniente dalle regioni settentrionali della Palestina, non poteva essere certamente un uomo conosciuto dal sinedrio e fidato al sommo sacerdote. Il personaggio, invece, doveva essere una persona che risiedeva nell'area di Gerusalemme, che non fosse proprio un adolescente e che avesse un'autorità tale da meritare questi privilegi. Egli era introdotto negli ambienti altolocati della società gerosolimitana. A meno che, naturalmente, la notizia offerta dal quarto Vangelo non sia completamente fantasiosa.
La contraffazione delle identità Nel paragrafo precedente abbiamo accennato a espedienti finalizzati a nascondere la vera identità del personaggio. Adesso dobbiamo precisare che una operazione di questo genere, ovverosia la contraffazione dell'identità di una figura della narrazione evangelica, è estremamente comune e riguarda quasi tutti i più importanti personaggi. Tutte le volte che si evidenzia questo procedimento è facile rendersi conto che lo scopo dell'evangelista è sempre lo stesso: lo potremmo definire "intento di spoliticizzazione", e riguarda il fatto di purgare i personaggi da ogni caratteristica che possa farli riconoscere come individui coinvolti nella lotta messianica (ovverosia nella causa sostenuta dalle sette esseno-zelote). Lo possiamo notare nelle interpretazioni scorrette che sono state fornite a certi attributi associati ai personaggi; per esempio cananaios inteso come cananeo, quando invece deriva dall'ebraico qan'ana che significa zelota, patriota; oppure bar Jona, proditoriamente sdoppiato in due parole, per farlo apparire come figlio di Giona, mentre i manoscritti originali recitano barjona, che è un altro termine ebraico che indica gli zeloti. Anche il titolo Nazareno, che riguarda Gesù, è soggetto a una contraffazione del suo significato, poiché non ha riferimento alla città di Nazareth, ma è un titolo religioso e/o settario. Se eseguiamo una indagine approfondita, finalizzata alla individuazione dei diversi procedimenti di contraffazione delle identità, giungiamo inequivocabilmente a riconoscere che molti personaggi hanno subito anche degli sdoppiamenti (compaiono più di una volta con nomi diversi e quindi sembrano due persone distinte); ed inoltre scopriamo che molti dei cosiddetti apostoli sono zeloti, e che spesso sono anche membri della famiglia di Gesù: suoi fratelli. La redazione evangelica è pervasa dall'intento di trasformare in semplici apostoli i fratelli zeloti di Gesù. Noi vedremo in seguito un meccanismo simile, che avrebbe sdoppiato Lazzaro facendolo diventare anche "il discepolo che Gesù amava", e che avrebbe sdoppiato la sorella di Lazzaro, Maria di Betania, facendola diventare anche Maria Maddalena. Ma ci sono altri casi clamorosi che non possiamo esaminare in questa sede per motivi di spazio, che riguardano Maria madre di Gesù e Maria di Cleofa; nonché Tommaso e Taddeo (si tratta di soprannomi, il vero nome sarebbe Giuda); Simone fratello di Andrea e Simone lo zelota (si tratterebbe di Simone detto Cefa = pietra, o Barjona = brigante, fuorilegge); Giuseppe il padre di Gesù e Alfeo/Cleofa (si tratterebbe del padre comune a molti degli apostoli/fratelli di Gesù).
Lazzaro, non Giovanni, come discepolo che Gesù amava Ed eccoci finalmente, dopo una serie di considerazioni utili e necessarie ma pur sempre preliminari, ad affrontare l'argomento specifico di questo articolo. Inizieremo leggendo un passo del quarto Vangelo, proprio quello con cui si apre la seconda metà: "Era allora malato un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella. Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dirgli: "Signore, ecco, il tuo amico è malato"" (Gv XI, 1-3; Vangelo e Atti degli Apostoli, versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, Edizioni Paoline, 1982) Concentriamo la nostra attenzione sull'ultima frase: "Signore, ecco, il tuo amico è malato". Se osserviamo il testo greco noteremo che esso recita così: "Kirie, ide, on fileiV asqenei" in cui l'espressione "on fileiV" significa "colui che ami", non "il tuo amico", e la frase completa deve essere letta come segue: "Signore, ecco, colui che ami è malato". Anche l'antico testo latino recita "Domine, ecce quem amas infirmatur" Perché molte traduzioni moderne tendono ad ammorbidire il significato di quella frase trasformando il verbo amare nel sostantivo amico? La risposta è semplice: perché, sempre nel vangelo di Giovanni, c'è un personaggio indicato insistentemente come "colui che Gesù ama" che in questo modo può essere identificato subito come Lazzaro di Betania. Come si noterà, nel passo "Signore, ecco, colui che ami è malato" sembra che il messaggero non abbia alcuna necessità di specificare esattamente il nome del personaggio affinché Gesù capisca di chi si sta parlando: colui che Gesù ama è Lazzaro. Ora, non c'è nessuna circostanza in tutto il Nuovo Testamento in cui sia così esplicitamente dichiarato l'amore di Gesù per qualche altra individualità particolare, se non nei confronti di Lazzaro e... del discepolo che Gesù amava. Ovviamente la traduzione ritoccata sembra il frutto dell'intenzione di impedire che sorga spontanea l'associazione palese fra Lazzaro e il discepolo amato.
Quando mai, in tutto il Nuovo Testamento, si dice dell'apostolo Giovanni che Gesù lo amasse in modo particolare? Perché dunque la tradizione ha identificato il discepolo amato nell'apostolo Giovanni? Perché gli ha attribuito la paternità del quarto Vangelo? Perché tutto ciò, a dispetto di alcune palesi evidenze (come quella relativa al fatto che tale discepolo sarebbe stato noto al sommo sacerdote) che mostrano l'inconsistenza di questa identificazione e di questa paternità? Perché le cattive traduzioni? Perché l'aggiunta di una seconda conclusione?
Lazzaro censurato dai Vangeli sinottici Noi possiamo facilmente renderci conto che la tradizione, dopo che il quarto Vangelo fu introdotto nel canone, aveva qualche importante ragione per nascondere la vera identità storica di Lazzaro, e con lui di tutta la sua famiglia. Infatti i tre sinottici hanno eliminato questa famiglia e, soprattutto, hanno completamente eliminato il miracolo della resurrezione di Betania. Marco e Matteo hanno fatto piazza pulita della famiglia di Betania, mentre abbiamo visto che l'unica menzione che Luca fa di Marta e Maria non consente di identificarle come sorelle di Lazzaro, né di collocare geograficamente la loro abitazione, lasciandole così in una posizione di semplici comparse, su uno sfondo volutamente indefinito. Quando poi i sinottici parlano della unzione di Gesù, durante la cena di Betania, essi si sforzano con ogni mezzo di "potare" l'episodio da ogni elemento che possa indicare l'identità dei personaggi. Mentre il quarto Vangelo nomina Lazzaro e dice che era uno dei commensali, dice che Marta era impegnata a servire a tavola (evidentemente la casa era proprio quella di Lazzaro e delle sorelle), dice chiaramente che Maria fu colei che portò il vaso di alabastro con l'essenza di nardo ed eseguì l'unzione, i sinottici hanno reso tutti anonimi e Luca ha addirittura attribuito il gesto a Maria Maddalena, invece che a Maria di Betania, mentre Marco e Matteo lo fanno eseguire ad "una donna". Quale ragione al mondo avevano gli autori sinottici per effettuare una censura così sistematica e per dimenticare la resurrezione di Lazzaro? Noi non possiamo fare altro che pensare che queste personalità fossero pericolose per l'interpretazione offerta dai seguaci di Paolo del ruolo storico di Gesù, dopo che egli era stato trasformato in un salvatore simile al Soter dei greci e al Saoshyant dei persiani, ovverosia un maestro spirituale che non doveva avere più niente a che fare col Messia di Israele dei Manoscritti del Mar Morto, l'aspirante re dei Giudei che era stato giustiziato dal procuratore Pilato. Noi abbiamo senz'altro una buona ragione per credere che, se gli evangelisti erano così interessati a "ripulire" i Vangeli da ogni collegamento con la lotta messianica degli esseni e degli zeloti, tutte le personalità che sono state sottoposte a severa censura hanno avuto probabilmente un ruolo in qualche movimento messianico. Questa è la prima solida indicazione che ci permette, se non altro, di domandarci se il Lazzaro del quarto Vangelo non sia stato un rappresentante ben conosciuto del patriottismo religioso dei messianisti.
Gesù come parente di Lazzaro Betania era un villaggio a poco meno di un'ora di cammino da Gerusalemme, sul versante est del monte degli ulivi. Al suo posto oggi troviamo Al' Ayzariyah, una cittadina palestinese il cui cielo è riempito dal canto dei muezzin. Ma vi possiamo trovare anche molte chiese cristiane e, in prossimità di una di queste, proprio sul ciglio della strada, si apre la bocca di uno stretto e scuro budello che precipita in ripida discesa, per una decina di metri, nelle viscere della terra. Un cartello redatto con mezzi di fortuna avverte "Lazarus' tomb", ma il tutto ha l'aspetto vano di una acchiapperella per turisti ingenui. Qual'era l'importanza del villaggio di Betania per Gesù? "...uscì fuori dalla città, verso Betània, e là trascorse la notte. La mattina dopo, mentre rientrava in città..." (Mt XXI, 17-18) "...ed entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l'ora tarda, uscì con i Dodici diretto a Betània. La mattina seguente, mentre uscivano da Betània..." (Mc XI, 11-12). Come possiamo notare, Gesù doveva conoscere nel paese delle persone che gli erano molto vicine, dal momento che costoro gli offrivano una dimora per trascorrere la notte. Di chi altri poteva trattarsi se non della famiglia di Lazzaro? Di chi se non degli stessi che, proprio in quei brevi giorni prima dell'arresto, avevano organizzato un banchetto solenne in suo onore, nel quale le stesse Marta e Maria svolgevano il ruolo di inservienti? Sarà bene meditare attentamente su un fatto assai significativo: gli evangelisti sinottici hanno dunque ritenuto opportuno di cancellare dai loro racconti la memoria di queste persone fondamentali nella vita di Gesù. Non possiamo passare con indifferenza su questa constatazione. Adesso ricorderemo che un Vangelo gnostico ritrovato casualmente, nel 1945, fra le sabbie di Nag Hammadi (Egitto), una copia in lingua copta di un testo che risale al secondo secolo, detto Vangelo di Filippo, così recita in due versi distinti: "Erano tre che andavano sempre con il Signore: sua madre Maria, sua sorella e la Maddalena che è detta sua consorte. Infatti si chiamavano Maria sua sorella, sua madre e la sua consorte" (Vangelo di Filippo, 32), "...la consorte di Cristo è Maria Maddalena..." (idem, 55), così commenta la studioso italiano Marcello Craveri, curatore della edizione Einaudi (Torino, 1969) del Vangeli Apocrifi: "...la tradizione che Gesù avesse una sorella di nome Maria è anche in Epifanio (Adv Haeres. 78,8) e in altri apocrifi. Quanto ad un legame affettivo tra Gesù e Maria Maddalena, confusa con Maria di Betania, vi sono altre testimonianze apocrife..."; e ancora: "... [Maria Maddalena] ... non avendo fatto alla tomba del Signore quanto solevano fare le donne per i morti da loro amati, prese con se le amiche e andò alla tomba dove era stato posto" (Vangelo di Pietro XII, 50-51); e infine: "...la liturgia latina, diversamente da quella greca, identifica questa Maria Maddalena con Maria di Betania, sorella di Marta e Lazzaro, e con la peccatrice anonima di cui parla Luca festeggiandola il 22 luglio..." (Dizionario Enciclopedico UTET, a cura di P. Fedele, voce "Maria Maddalena") Esistono dunque tradizioni extracanoniche secondo le quali Maria Maddalena, intercambiabile con Maria di Betania, sarebbe stata la moglie di Gesù. Tutto ciò è rafforzato da altre tradizioni dell'alto medio evo che hanno a che fare col cosiddetto Santo Graal. Di quest'ultimo sono state raccontate le cose più straordinarie: si sarebbe trattato del calice dell'ultima cena, nella quale Giuseppe di Arimatea avrebbe raccolto addirittura il sangue di Gesù che colava dalla croce, per poi conservarlo nei secoli; avrebbe posseduto proprietà sovrannaturali; sarebbe stato al centro di una ricerca spasmodica, che ricorda quella del vello d'oro, dell'arca santa, della spada magica di excalibur, ecc... Al di là di tutte queste cose affascinanti, è molto più probabile che il significato di questa tradizione della coppa sia legato a questioni dinastiche che hanno caratterizzato la vita politica del primo millennio d.C., e forse anche dopo. Capisco che ancora il lettore non veda il legame con la questione relativa a Maria Maddalena, ma sarà presto chiarito. Il fatto è che, se Gesù era l'aspirante re dei Giudei (così recitava l'iscrizione posta dai romani sulla croce come capo d'accusa) e se, come tutti i rabbì di Israele, rispettava la legge secondo cui un rabbì non poteva essere celibe ["E subito si avvicinò a Gesù e disse: "Salve, Rabbì!"" (Mt XXVI, 49)] ed era sposato con Maria Maddalena/di Betania, noi possiamo immaginare che avesse avuto dei figli e che questi vantassero, come il padre, figlio di Davide, una discendenza regale. Ora, per quanto la cosa possa essere considerata leggendaria, e magari lo è realmente, si dice che Maria Maddalena si sia rifugiata nella Francia meridionale, presso una grossa comunità della diaspora ebraica, e che alcuni secoli dopo i regnanti Merovingi, vantando di essersi imparentati con un discendente di Cristo, rivendicavano un diritto dinastico (per avere nelle proprie vene sangue della famiglia di Davide) sul Sacro Romano Impero. Questo filone dinastico, cioè di sangue regale, è al centro della questione del Santo Graal: in lingua provenzale antica (la famosa laguedoc della Francia meridionale) sangue reale si dice sang raal, che fa presto a diventare San Graal. Dunque il Santo Graal non è tanto la coppa fisica in cui sarebbe stato raccolto il sangue di Gesù, ma è il sangue della stirpe di Davide inteso come linea dinastica, che implica un diritto di sovranità. Si tratta di una affascinante e misteriosa questione in cui politica e religione si intrecciano intimamente e a noi, in questa sede, non importa sapere quanto ci sia di vero, ma semplicemente constatare che esistevano delle tradizioni il cui punto di partenza era il fatto che Gesù sarebbe stato sposato con Maria Maddalena/di Betania. Forse il motivo per cui gli autori sinottici hanno ritenuto opportuno di eliminare i componenti di questa famiglia o di contraffarne le identità, e per cui il quarto Vangelo ha incontrato tante difficoltà ad essere incluso nel canone, comincia ad emergere da un oscuro oceano di misteri. E Lazzaro comincia ad apparire come il cognato di Gesù.
Maria Maddalena, controfigura di Maria la sorella di Lazzaro Ma sono proprio spariti i componenti della famiglia di Betania dai racconti sinottici? Niente affatto. Essi compaiono spesso, ma con identità mascherate. E, del resto, anche i componenti della famiglia di Gesù, suo padre, sua madre, i suoi fratelli, compaiono con identità ritoccate; questi ultimi, per esempio, attraverso cambiamenti di nomi, di paternità, e addirittura sdoppiamenti, formano alcuni di quelli che conosciamo come apostoli. Naturalmente non era possibile sopprimere del tutto alcuni personaggi così importanti, ed ecco che la tradizione sinottica ha creato una controfigura della sorella di Lazzaro e l'ha chiamata Maria Maddalena, tant'è vero che quando Luca ci parla del banchetto di Betania ci dice che l'autrice del gesto di unzione fu Maria Maddalena, la peccatrice da cui erano usciti sette demoni. É proprio vero che il quarto Vangelo aveva portato una lunga serie di pasticci dopo la sua introduzione nel canone: come si poteva, per esempio, conciliare il banchetto secondo Luca con quello secondo Giovanni? Quest'ultimo infatti ci dice così chiaramente che la donna dell'unzione era Maria, la sorella di Lazzaro, mentre il primo lascia intravedere l'identità di Maria Maddalena. - Niente di male - hanno pensato gli interpreti - deve trattarsi per forza di due episodi distinti -. A questo modo sembra che, quando Gesù si spostava per la Palestina e veniva ospitato ad una cena, arrivassero di solito delle donne che, a dispetto della loro modestia, era proprietarie di una ricchezza smisurata, ovverosia di un vaso di alabastro contenente una libbra di olio di nardo, del valore di trecento denari, e che tali donne si divertissero abitualmente a rovesciare il profumo in testa a Gesù e sui suoi piedi, asciugandoli poi coi propri capelli. Altro che anonima donna col vasetto di profumo! Maria, consorte dell'aspirante Messia di Israele, aveva portato l'olio della unzione messianica affinché il marito fosse dichiarato nella sua dignità regale di fronte al popolo di Gerusalemme. Ora forse possiamo anche comprendere perché... " e allora Gesù... "... vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco il tuo figlio!". Poi disse al discepolo: "Ecco la tua madre!". E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa " (Gv XIX, 26-27), c'era una vera e propria riunione di famiglia intorno alla croce, madre, moglie, cognato. Ed è abbastanza logico che Gesù abbia affidato la madre a quei parenti cari presso i quali la donna era già solita dimorare quando si trovava in Giudea.
La controfigura sinottica dello stesso Lazzaro Ovviamente sorge la domanda se gli autori sinottici, dopo avere controfigurato Maria la sorella di Lazzaro, non abbiano creato una immagine controfigurata anche per lo stesso Lazzaro. A questo proposito è necessario elencare i miracoli di resurrezione presenti nelle narrazioni evangeliche e sottoporli ad un confronto analitico:
Ora, noi possiamo osservare che qualsiasi racconto è costituito da almeno due componenti strutturali: la successione degli eventi (che noi chiameremo in questa sede "architettura dinamica") e i parametri statici, ovverosia nomi di personaggi e località (che noi chiameremo "architettura statica"). Com'è facile capire, se due racconti hanno grandi somiglianze sia nell'architettura statica che in quella dinamica, chiunque può giungere alla logica conclusione che si tratta dello stesso racconto. Se invece una sola delle due architetture corrisponde nei racconti, possiamo ancora pensare che si tratti dello stessa cosa? Ovviamente la risposta è molto più positiva se la somiglianza si verifica nell'architettura dinamica che non in quella statica; infatti, se i personaggi e le località hanno nomi somiglianti, ma gli eventi sono completamente diversi, è impossibile credere che si tratti dello stesso racconto. L'anima di un racconto sono i fatti, non i nomi. Se, invece, si hanno architetture dinamiche somiglianti ma diverse architetture statiche, ovverosia personaggi con nomi diversi, in luoghi diversi, che danno luogo alla stesso concatenarsi di eventi, allora è facile pensare che ci sia stato solo un cambiamento nei nomi, ma che si stia parlando dello stesso racconto. Questo processo della riutilizzazione di un racconto, previo mutamento della sola architettura statica, si verifica spesso nella letteratura antica e, in particolar modo, religiosa. Molte leggende sumere si trovano nella Bibbia con personaggi cambiati, trasformati ora in Adamo ed Eva, ora in Noé (il Ziusudra dei sumeri e l'Uta-Napishtim dei babilonesi), così come il Mosè della Bibbia ripercorre nel racconto della sua nascita gli stessi eventi che riguardano Sargon di Accad ["Io sono Sargon, il re possente, il re dal dominio universale, il re di Agade. Un'umile madre mi generò in segreto, mi mise in un cesto di giunchi e con bitume ne sigillò il coperchio; mi gettò nel fiume, che però non mi sommerse, ma mi sostenne e mi portò da Akki, l'acquaiolo; questi mi allevò come suo figlio" (tratto da A.Caocci, Conoscere per capire la storia, Mursia, Milano 1981)]. Lo stesso Gesù Cristo dei Vangeli riproduce cliché narrativi che gli preesistono: "...la volontà dei Deva fu compiuta; tu concepisti nella purezza del cuore e dell'amore divino. Vergine e madre, salve! Nascerà da te un figlio e sarà il Salvatore del mondo [Krishna, n.d.a.]. Ma fuggi, poiché il re Kansa ti cerca per farti morire col tenero frutto che rechi nel seno. I nostri fratelli ti guideranno dai pastori, che stanno alle falde del monte Meru... ivi darai al mondo il figlio divino..." (E.Shurè, I grandi Iniziati, Bari, 1941). Adesso, se confrontiamo i miracoli della resurrezione della figlia di Giairo e della resurrezione del figlio della vedova di Nain, ci accorgiamo che abbiamo differenze sostanziali tanto nell'architettura dinamica quanto in quella statica, evidentemente si tratta di riferimenti originali totalmente indipendenti l'uno dall'altro. Del resto sarebbe stato assurdo che Luca ripetesse nello stesso Vangelo lo stesso episodio, cambiandone i personaggi. A conclusioni completamente diverse possiamo giungere se confrontiamo il miracolo di resurrezione che è comune a tutti i sinottici con quello che è caratteristico del quarto Vangelo:
Osserviamo un fatto che è sorprendente: i due racconti hanno esattamente la stessa architettura dinamica e sono intercambiabili l'uno con l'altro mediante una semplice correzione dei parametri statici. É la situazione esemplare che si verifica tutte le volte che abbiamo un innesto (come nei casi sopra osservati relativi a Mosè e a Gesù Cristo), oppure quando ci si riferisce allo stesso evento, ma se ne vogliono mascherare i protagonisti. La figlia di Giairo non è che la controfigura di Lazzaro. Gli autori sinottici, coerentemente con quello che abbiamo già visto, non volevano evidenziare l'identità di questi personaggio, ma non hanno potuto rinunciare a questo miracolo di resurrezione e ne hanno alterato l'architettura statica.
La resurrezione e la rinascita Del significato spirituale nascosto dietro le apparenze dei racconti evangelici non è possibile capire molto, finché si parte dal presupposto che si tratti di cronache lineari di fatti accaduti così come sono narrati. Nel capitolo "premesse per l'analisi storica del racconto evangelico" abbiamo già accennato alla necessità di una seria analisi di tutti i racconti relativi ai cosiddetti miracoli, e al fatto che spesso occorre essere in possesso di chiavi interpretative che presuppongono una conoscenza di linguaggi simbolici e, talvolta, di espressioni iniziatiche. Abbiamo visto che il raggiungimento di quella che in oriente è chiamata illuminazione spirituale diventa spesso, nel linguaggio evangelico, una rinascita (vedi il dialogo con Nicodemo - Gv III, 3-8) o il passaggio dalla condizione di morte a quella di vita, cioè una resurrezione. Ricordiamo a questo proposito le molte frasi come "Non è un Dio dei morti ma dei viventi" (Mc XII, 27), "Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti" (Mt III,22), e le esplicite dichiarazioni che troviamo nei Vangeli gnostici sul significato della resurrezione: "Coloro che dicono che il Signore prima è morto e poi è risuscitato, si sbagliano, perché egli prima è risuscitato e poi è morto. Se uno non consegue prima la resurrezione non morirà, perché, come è vero che Dio vive, egli sarà già morto" (Vang. Di Filippo, 21), "Mentre siamo in questo mondo, è necessario per noi acquistare la resurrezione, cosicché, quando ci spogliamo della carne, possiamo essere trovati nella Quiete" (Vang. Di Filippo, 63). Assai spesso, nelle confraternite spirituali, il discepolo riceveva dal maestro un tipo di iniziazione che era strutturata cerimonialmente come una resurrezione. Veniva simulata in tutto e per tutto una scenografia funebre: l'adepto poteva essere avvolto in un panno funebre, poteva essere posto all'interno di una cripta, poteva trascorrervi tre giorni nel buio e nel silenzio, senza bere e senza mangiare (ma si trattava in realtà di non più di 36 ore, perché veniva seppellito la sera del primo giorno e riesumato all'alba del terzo giorno). Ciò era comune in Egitto, come in Palestina, in Caldea, in Persia, in India. In alcuni circoli iniziatici orientali, ancor oggi la morte e la resurrezione non sono semplici esteriorità liturgiche, ma complesse e pericolose acrobazie associate ad uno stato di profonda catalessi e ad uno straordinario abbassamento del metabolismo basale, documentato anche dagli scienziati (vedi il khechari mudra degli yogi tantrici, che prevede il seppellimento reale dell'adepto sotto uno spesso strato di terra). Senza azzardarsi a sostenere che Gesù fosse un maestro di questi esercizi di funambolismo fisiologico, possiamo senza dubbio pensare che la cosiddetta resurrezione di Lazzaro fosse una cerimonia di iniziazione come quelle che dovevano essere normali all'interno della confraternita essena, riservate agli adepti avanzati.
Eleazar ben Jair Durante la orribile guerra che insanguinò la Palestina, negli anni dal 66 al 70, indicibili catastrofi si abbatterono sugli ebrei. Gamla, nel Golan, che aveva dati i natali ai principali esponenti della lotta zelotica, fu assediata e distrutta e tutti i suoi abitanti morirono trucidati o suicidi essi stessi, gettandosi spontaneamente nel precipizio che affiancava la città. Nel 70 la stessa Gerusalemme, dopo un lunghissimo e tremendo assedio, cadde sotto il ferro e il fuoco delle legioni di Tito e il tempio fu profanato e saccheggiato. Un paio di anni prima, lo stesso monastero di Qumràn, l'eremo nella simbolica "terra di Damasco" degli esseni, presso le rive nord occidentali del Mar Morto, fu distrutto dalle legioni di Vespasiano, durante la marcia da Gerico a Gerusalemme. Qualche tempo prima i confratelli, intuendo l'imminenza di questo pericolo, avevano nascosto le loro scritture nelle grotte sulle scarpate sovrastanti, nella speranza che, in un futuro mai giunto, essi potessero riappropriarsene. I più irriducibili membri della confraternita evitarono di disperdersi e, sfruttando una lacuna nell'organizzazione tattica dei romani, all'indomani della caduta di Gerusalemme, si impadronirono della fortezza di Masada, sempre sulla riva occidentale del Mar Morto, a sud di Qumràn [vedi nel viaggio fotografico le numerose fotografie di Masada]. Furono un migliaio coloro che la abitarono per ben tre anni e la difesero a oltranza, sotto uno stretto assedio romano, prima di essere a loro volta sconfitti. Anche questa volta si ebbe un tipico esempio di martirio zelotico: tutti si dettero la morte, nell'imminenza dell'arrivo dei legionari, e costoro non trovarono che cadaveri ad attenderli. Gli uomini di Masada erano guidati da un certo Eleazar ben Jair (Lazzaro, figlio di Giairo), un'autorità spirituale, nonché politica e militare, di cui Giuseppe Flavio ci dà alcune brevi notizie: era discendente di Giuda il galileo (il capo zelota che veniva da Gamala), parente di Menahem, il figlio di Giuda il galileo che era riuscito (unico nella dinastia degli aspiranti Messia di Israele) ad indossare la veste regale in Gerusalemme, nei giorni funesti dell'assedio romano, per un brevissimo periodo prima di essere ucciso. Se l'aspirante re dei Giudei che era stato crocifisso a Gerusalemme da Ponzio Pilato, nell'anno 30 o poco dopo, veniva da Gamala ed era il figlio primogenito dello stesso Giuda (come abbiamo visto nel capitolo "il problema del titolo Nazareno"), e aveva anticipato senza successo l'impresa che invece era riuscita, sebbene in modo effimero, al fratello minore Menahem, ne possiamo subito concludere che Eleazar ben Jair era anche parente del Cristo dei Vangeli. Giuseppe Flavio ci ha trasmesso il discorso che questo Lazzaro avrebbe pronunciato a Masada, ai suoi seguaci, per convincerli che l'unica cosa da fare, di fronte alla prospettiva della sconfitta, era quella di togliersi la vita. Non credo che sia facile convincere un migliaio di persone a suicidarsi tutte insieme. Ma se la circostanza è quella che i romani stanno per arrampicarsi sulla montagna da cui non è possibile fuggire, se il capo ha un grande ascendente spirituale, com'è caratteristico di un autorevole maestro, e se i seguaci sono dei fanatici fedeli degli ideali religiosi esseno-zeloti, allora una cosa del genere può diventare possibile. Il discorso ha l'aria di un sermone iniziatico degno di una disciplina orientale, né mancano espliciti riferimenti alla religiosità dell'oriente, con l'elogio degli indiani che accolgono la morte come una liberazione per l'anima: "...la morte, infatti, donando la libertà alle anime, fa sì che esse possano raggiungere quel luogo di purezza che è la loro sede propria, dove andranno esenti da ogni calamità, mente finché sono prigioniere di un corpo mortale, schiacciate sotto il peso dei suoi malanni, allora sì che esse son morte, se vogliamo dire il vero; infatti il divino mal s'adatta a coesistere col mortale... comunque, se volessimo ricevere una conferma attingendola dagli stranieri, guardiamo agli indiani, che seguono i dettami della filosofia... essi salgono su un rogo, perché l'anima si separi dal corpo nel massimo stato di purezza, e muoiono circondati da un coro di elogi..." (Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, VII, 8). Evidentemente non è così inverosimile pensare, come alcuni studiosi sostengono, che le idee della confraternita essena fossero influenzate da elementi di spiritualità indo-buddista, oltreché iranico-caldea.
Lazzaro dei Vangeli e Lazzaro di Masada Quando abbiamo detto che la resurrezione di Lazzaro e quella della figlia di Giairo sono le due versioni parallele, una giovannea e l'altra sinottica, dell'iniziazione superiore ricevuta dal discepolo amato da Gesù, abbiamo detto che gli autori sinottici hanno operato alcuni cambiamenti, nei parametri statici dell'episodio, per mascherare le identità dei personaggi. Lazzaro ha cambiato età e sesso, è diventato una ragazza. Il cambiamento è abbastanza radicale da rendere assai difficile, se non impossibile, il riconoscimento della persona. Forse non è cambiato il nome del padre, ed è rimasto quello originale: Giairo. Se così è dobbiamo pensare che Lazzaro fosse figlio di un certo Giairo. Ovverosia che egli fosse... Eleazar ben Jair. Ora, questa ipotesi non può certo essere dimostrata nel senso proprio del termine, ma a suo sostegno si possono elencare diverse somiglianze fra il Lazzaro del Vangelo e quello che fu la guida di Masada.
E con questo credo che sia giunto il momento di chiudere questa trattazione sul problema del discepolo che Gesù amava. La quale lascerà aperti tantissimi quesiti, ma avrà senz'altro mostrato che i Vangeli devono essere letti con molta attenzione.
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