Sacerdotesse e Danzatrici

Nelle Religioni Antiche

© Montesion

 

La storia delle sacerdotesse nelle religioni antiche non può distaccarsi dalla storia delle meretrici-sacre e delle danzatrici-concubine che popolavano i grandiosi templi degli Assiro-Babilonesi, dei Fenici, dei Persiani, degli Egizi, dei Greci, degli Indiani.

La loro vita e le loro attribuzioni - se si escludono quelle speciali delle Vestali - quasi si identificavano, compendiandosi, con poche varianti, nelle mansioni di famule, di assistenti o di «partecipanti» alle funzioni religiose.

Il paganesimo, che a base della filosofia cosmogonica poneva il fenomeno sessuale, per il quale la Vita si perpetua misteriosamente in tutto l'Universo, non solo non disdegnava nelle sue istituzioni religiose il fattore erotico, ma lo celebrava e lo esaltava, appunto perchè riscontrava in esso il meraviglioso principio vitale infuso dalla Divinità invisibile alla Natura manifestata.

In questo, il paganesimo non faceva, del resto, che seguire evidentemente la tradizione di religioni ancora più antiche, che si perdono nella lontana preistoria.

É noto, infatti, che la prima religione del mondo è quella che si riferisce all'Amore, mentre il primo idolo-simbolo creato dalla filosofia umana è il falloj, o, piuttosto, le «pietre-scodelle» che altro non erano se non la figurazione simbolica, quasi stilizzata, dell'organo sessuale femminile verso il quale fu rivolto il primo culto e la prima venerazione, come all'alveo della vita, alla miracolosa e misteriosa sorgente di ogni esistenza.

Dalle pietre-scodelle della preistoria sorse poi il Lingam, che è riconosciuto come l'idolo più antico venerato dall'uomo sulla Terra.

 

La prima religione sorse, quindi, per l'Amore, come hanno confermato le scoperte fatte nella grotta di Surésne, in Francia; ed era naturale che la donna avesse, nei vari riti, il ruolo femmineo che ad essa aveva dato la sacra Natura. Ruolo, perciò, importante quanto quello dell'uomo, per il quale la donna condivise il sacerdozio nelle solenni funzioni religiose che dovevano propiziare la Divinità a favore del perenne miracolo della generazione.

Ma - a parte queste ammissioni che, se hanno il merito della verosimiglianza e se sembrano confermate da interessantissime scoperte archeologiche, non possono tuttavia avere alcun carattere di certezza - pare che una sola nazione abbia dato al sacerdozio morale della donna le forme vere di un sacerdozio ufficiale, assegnandogli un rango elevato nelle istituzioni. La Grecia sola avrebbe avuto questo pensiero, forse per la innata tendenza a valorizzare e ad esaltare ogni bellezza e specialmente quella muliebre.

Il popolo dell'antica Grecia seppe vivere eroicamente la propria esistenza, trasfigurandola nella bellezza, nella quale vedeva riflesso il divino.

Roma, che pure tanto ha appreso dai Greci, non ha seguita la istituzione dei vari sacerdozi femminili, probabilmente perché la tradizione etrusca e il pontificato politico non glielo permetteva.

L'unico sacerdozio femminile, a Roma, fu quello, limitatissimo, delle Vestali, delle quali sono noti il prestigio, l'autorità e l'alta costituzione.

L'origine di queste sacerdotesse devesi forse ripetere dallo stabilimento del culto pelasgico di Vesta, conservato in Italia dagli Etruschi e da essi trasmesso poi ai Romani. Poiché fin dai più remoti tempi la Grecia rendeva onori del tutto particolari alla grande dea del fuoco; e Vesta veniva invocata religiosamente prima e dopo tutti i sacrifici.

Ma, sebbene, all'infuori di queste, non siano giunte a noi altre notizie circa il sacerdozio femminile veramente costituito, non è possibile affermare che presso alcun altro popolo le donne abbiano avuto una costituzione sacerdotale riconosciuta di ministri di culto.

É vero, anzi, che presso alcuni popoli, esigendosi nei sacerdoti la castrazione e non essendovi per tale ragione grande concorso di uomini, fu istituito l'uso di consacrare le donne in luogo di essi.

Dai monumenti cretesi pre-ellenici risulta inoltre evidente il posto elevato tenuto dalle donne nelle funzioni sacerdotali, tanto che i flautisti stessi sono sovente vestiti con abiti femminili. E di abiti femminili si vestivano spesso anche i sacerdoti nei Misteri di Bacco.

 

Ora, coordinando ricerche storiche e archeologiche, noi possiamo ritenere, in linea generale, che il nome di «sacerdotessa», così come è stato adoperato fino a noi, ha un significato del tutto generico. In realtà, esso comprende tre distinte significazioni, corrispondenti, a un di presso, alle seguenti tre categorie:

 

I CATEGORIA - Le vere e grandi sacerdotesse, con sacerdozio costituito e riconosciuto. In questa categoria possono essere comprese le Jerofantide che di scendevano da famiglie privilegiate, le Vestali che seguivano un corso di 10 anni di preparazione al sacerdozio, ed altre grandi sacerdotesse ufficialmente consacrate. Le appartenenti a questa categoria erano sempre di numero molto limitato.

II CATEGORIA - Le sacerdotesse semplici, di numero naturalmente molto maggiore, con attribuzioni di «partecipanti» ai vari culti e di «diaconesse» riconosciute. Queste donne consacrate sostituivano spesso i sacerdoti, specialmente presso quei popoli ove il numero di questi era insufficiente. Ma l'attribuzione più propria delle sacerdotesse di questa categoria era quella di «assistenti» o «partecipanti», alle sacre funzioni. Nella religione di Mitra, pare che raggiunsero il grado più alto degli ordini minori.

III CATEGORIA - Le vergini sacre, numerosissime, che si dedicavano devotamente ai vari culti per volontaria e libera oblazione. Di queste, alcune erano, per voto, permanenti, altre temporanee, secondo che attendevano alle funzioni religiose per tutta la vita o solo in talune ricorrenze.

Le «sacerdotesse» di questa terza categoria sono graziosamente chiamate da Strabone jerodule.

 

Noi possediamo, così, elementi bastevoli per tracciare, in quadri sintetici, la storia del sacerdozio femminile presso i vari popoli dell'antichità; sacerdozio, che se alla nostra moderna mentalità può apparire, in massima parte, indecente e lubrico, era, peraltro, informato ai più alti principi filosofici e teologici, mentre attraverso il mimetismo della Natura, ritenuto niente affatto indecente, mirava alla esaltazione della Divinità e all'unione mistica dell'uomo con lo spirito divino.

Le «indecenze» e le «sciocchezze» degli antichi appaiono tali soltanto all'occhio nostro superficiale e miope. In realtà, esse contengono tali elementi di sapere, tale vastità di concezione, tale nobile spregiudicatezza di sentimento, che costituiscono una perenne umiliazione per la nostra mentalità così rattrappita nell'ignoranza e così offuscata dalla superstizione.

 

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Se è vero che, in occidente, le donne erano nelle religioni misteriche generalmente escluse dalle iniziazioni, la loro partecipazione nei culti orientali aveva un carattere considerevole e preponderante.

Basterà ricordare i Misteri Eleusini nei quali il culto di Cerere e di Proserpina era particolarmente affidato a sacerdotesse chiamate metropoli o melisse.

Le sacerdotesse dei Misteri di Eleusi erano anzi presiedute da una Jerofantida che doveva discendere dalla famiglia dei Filleidi, alla quale apparteneva il diritto e l'onore di iniziare le donne ai sacri misteri. Le donne delle famiglie dei Filleidi avevano quindi il privilegio della pienezza del sacerdozio.

Le candidate, secondo le affermazioni di S. Epifanio, il quale naturalmente biasimava questi riti, si presentavano alle sacre cerimonie interamente nude; e nudi anche gli uomini si presentavano alla Grande Iniziazione - detta Epoptea - dovendo dopo alcune funzioni, cingersi i lombi con una simbolica pelle di cerbiatto e più tardi coprirsi con una veste purpurea, prima di ricevere la corona di mirto ed essere nominati macarioi, felici.

In questi Misteri, la «sacerdotessa» assumeva una importanza eccelsa nel momento più solenne della iniziazione che cadeva nel penultimo giorno.

Nelle funzioni di quella giornata, la sacerdotessa rappresentava personalmente Demetra e compiva il rito simbolico della jerogamia (matrimonio sacro) col Jerofante che, a sua volta rappresentava Zeus.

Nel Telesterion poi, mentre tutti gli iniziati spegnevano le loro fiaccole e tacevano, lo Jerofante si appartava con la sacerdotessa. Dopo un certo tempo si rifaceva la luce e il sacerdote, mostrando a tutti una spiga di grano, annunciava che la «forte Brimo aveva concepito Brimo». Quindi dall'alto del suo trono, tra lo sfavillare delle fiaccole, nella maestà dei suoi abiti sacerdotali, mostrava le cose sacre (ta iera), vale a dire i genitali femminili (che simboleggiavano l'alveo misterioso della Vita) riprodotti con una pasta speciale e devotamente conservati come il simbolo più sacro della generazione di tutte le cose.

 

Nel culto di Cerere è, ancora più evidente, la parte preponderante affidata alle sacerdotesse. In commemorazione del fatto - famoso nel mito della Dea - per cui la vecchia (detta Jambe da Apollodoro, Baubone da Clemente Alessandrino e Metanira da Nicandro) fece sorridere la Dea Cerere, già tanto triste, scoprendosi le parti sessuali, le sacerdotesse conservavano, nelle ceste mistiche, come cosa sacra, l'organo sessuale femminile (1), al pari del fallo largamente usato nei Misteri di Samotracia e di Eleusi, nonché in quelli Orfici, a simboleggiare il principio spermatico della Natura.

Anche nei Misteri Orfici è importante la parte sostenuta dalle sacerdotesse, le quali preparavano, dirigevano e partecipavano al matrimonio sacro della mistica sposa con Dioniso-Zagreo.

In speciali ricorrenze le donne di Eleusi e tutte quelle che convenivano per la festività in onore di Cerere, compivano una solenne processione sulla sacra via che da Atene menava ad Eleusi e, davanti al «fico sacro», imitavano la vecchia Baubone, scambiandosi fra loro parole oscene.

Nei Misteri d'Iside e di Osiride, la donna sosteneva un ruolo egualmente importante, in qualità di «sacerdotessa» destinata a rappresentare talvolta la grande Dea.

Da un testo di Porfirio sappiamo, infine, che nelle religioni misteriche, e in particolare, nella religione di Mitra, le donne venivano «ordinate» accolite e diaconesse.

A Tripoli d'Africa, infatti, venne recentemente scoperta la tomba di una lea , cioè di una leonessa, grado gerarchico sacerdotale che corrispondeva all'ordine di «accolito» nella religione cristiana.

 

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Se non che, mentre nelle religioni misteriche, di cui del resto ben poco è giunto fino a noi, le sacerdotesse avevano un ruolo di partecipanti mistico-simboliche alle sacre iniziazioni e alla jerogamia, nelle altre religioni pagane prendevano parte alle cerimonie con forme di culto più esteriore e meno allegorico, sebbene tutti i riti conservassero fondamentalmente la loro originaria significazione filosofico-mistica.

Ed é qui, fuori dalle religioni misteriche, che la partecipazione delle donne alle pratiche dei vari culti comincia ad essere più largamente estesa, perché comprendeva, insieme alle diaconesse propriamente «ordinate», un gran numero di donzelle-sacre, che partecipavano alle funzioni religiose in qualità di canefore, di fallofore, di famule, di flautiste e principalmente come danzatrici.

La danza, insieme alla prostituzione sacra, pare costituire la principale missione di questo lieto e fresco sciame di verginelle che Strabone ha chiamato jerodule.

La danza aveva, specialmente presso i Greci, la massima importanza nella religione.

Gli antichi - dice il De Menil (Histoire de la Danse) - credevano che gli Dei avevano insegnata la danza all'umanità, dandole essi stessi l'esempio. Essi facevano derivare la parola corsj  che significa dama, dal vocabolo cara, che esprime la gioia.

I Greci ritenevano pertanto che nulla fosse più accetto alla divinità che l'uso di armonici movimenti del corpo, specie se eseguiti da belle fanciulle.

Questa persuasione era, del resto, pienamente condivisa da tutti i popoli dell'antichità, primi fra gli altri gli Ebrei, i quali non sapevano in miglior modo rendere grazie al Signore di Israele se non con cantici e danze. E danze-sacre erano state da essi istituite intorno al Vitello d'oro, intorno all'Arca della Santa Alleanza e nelle tre feste principali dell'anno: la festa di Maggio, la festa delle Messi, e la festa dei Tabernacoli.

Può quindi ritenersi, con ogni verosimiglianza, che la prima istituzione liturgico-religiosa fosse il ballo eseguito da vergini.

 

E, pertanto, in Grecia come in Egitto, in Babilonia come in India, ogni qualvolta si solennizzava una ricorrenza sacra, o si dedicava un tempio, o si erigeva un'ara per una Deità, veniva concertata la relativa danza speciale che le jerodule dovevano poi religiosamente eseguire. Da ciò l'importanza massima delle danzatrici sacre presso gli antichi.

In Delo trionfava la danza detta appunto della eseguita da cori di vergini in onore di Apollo e di Diana. Le teorie vi partecipavano con la più splendida magnificenza. I giovinetti e le vergini facevano mostra di tutta la loro leggiadria. La bellezza, perché gradita dagli Dei, veniva quasi divinizzata. Dopo il sacrificio di un'ecatombe le donne di Delo si univano alle più avvenenti fanciulle delle diverse teorie e con esse intrecciavano le danze. Mentre i giovinetti cantavano inni a Diana, le jerodule, scorrendo lievemente in giro nei loro candidi pepli, appendevano, una dopo l'altra, ghirlande di fiori alla statua di Venere.

In tal modo, la danza diventava sacerdozio ambito dalle più leggiadre fanciulle, sicché il numero di queste giovani «sacerdotesse» era grandissimo specialmente in Grecia ove i templi erano numerosi nelle varie isole.

Per ragioni evidenti le donne, sia come «diaconesse» che come «danzatrici», erano escluse dai templi di Marte, di Mercurio e di Vulcano. Ma immense erano le schiere di vergini nei templi di Giove, di Giunone, di Nettuno, di Dioniso, di Cerere, di Proserpina e specialmente di Diana e di Venere.

Il santuario di Giove Olimpico a Elide, da cui le donne erano escluse, non eclissò quello di Dodona e poté appena rivaleggiare con i templi di Apollo a Delfo, di Cerere in Eleusi, di Minerva ad Atene, di Diana ad Efeso, di Giunone ad Egina.

 

Quanto all'influenza morale, nessun tempio ha uguagliato quello di Venere a Corinto officiato esclusivamente da donne.

Strabone dice che in questo vasto e lussuoso tempio vivevano mille sacerdotesse con mansioni di danzatrici e di meretrici sacre.

Con tutto ciò non può ritenersi che il numero delle sacerdotesse greche raggiungesse in proporzione quello delle sacerdotesse barbare. Perché se moltissime erano le «vergini» addette a certi templi greci, poche erano invece le sacerdotesse vere.

La massa era costituita dalle giovani danzatrici, che alternavano la danza all'ufficio di portatrici di ghirlande e di frutta nelle frequenti processioni, talora cantando, talora spargendo anche erbe e fiori lungo il cammino.

Era naturale che nella Grecia, culla di ogni bellezza, trionfasse quest'amore per la danza sacra e che interi sciami di donzelle abbracciassero, come ambito sacerdozio, la missione di danzatrici in onore delle varie Deità.

Nulla, infatti, doveva apparire più «bello», e quindi più «sacro», che questi cori di fresche fanciulle che alternandosi, con arte squisita, in schiere e in teorie, ora tenendosi per mano come in ghirlande, ora danzando liberamente, innalzavano alla Divinità l'inno della giovinezza, l'aroma della loro freschezza virginea.

 

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Ma, oltre che con la danza, le giovinette sacerdotesse, in Babilonia come in Egitto, in Grecia come in India, onoravano ed esaltavano le Divinità con la prostituzione sacra.

Queste graziose jerodule pullulavano in gran numero nei più famosi templi.

La Dea Belit - la Venere assiro-babilonese - che Erodoto ricorda col nome di Mylitta, e che sotto altri vari nomi fu venerata da tutte le popolazioni semitiche, ebbe il massimo culto da parte delle giovani sacerdotesse che per lei si prostituivano nei templi e nelle campagne.

Belit era chiamata la «Dea; sovrana signora del mondo», «Madre degli Dei», «Regina della terra», «Regina di ogni fecondità». Essa occupava il posto più elevato non solo in Babilonia, ma nel pantheon delle vicine nazioni, ove il suo primo attributo di Regina delle vergini, aveva intensificato al massimo punto il culto e la devozione da parte delle ragazze.

Immenso era lo stuolo delle «sacerdotesse» di questa grande, Dea, «gran madre dell'amore e della fecondità», alla quale erano state assegnate danze sacre speciali, come quelle in onore di Moloch, di Nebo, di Baal, di Adonis (2).

E mentre a Dodona, le sacerdotesse erano scelte fra le donne di una certa età, perchè la regola del Santuario esigeva la continenza, in Ascalona, in Balbek, in Hamat, in Erice affluivano le fanciulle jerodule per celebrare, con la prostituzione, il massimo culto verso la grande Dea. I boschetti e le colline ombrose i prati verdeggianti e gli alberi fronzuti, le ville colorite di fiori, profumate di rose e di mammole, i margini fragranti dei ruscelli offrivano i siti più adatti al rito sacro della prostituzione in onore della più alta protettrice delle donne, regina dell'amore e della bellezza.

 

E, intanto, in Fenicia, sotto il nome di Astarte, a Cartagine sotto il nome di Tamit, in Arabia sotto il nome di Alilat, a Biblo sotto il nome di Bahaltis, in Jerapoli sotto il nome di Dea Sira, la Venere assiro-babilonese era adorata in templi maestosi ove cori di sacerdotesse-giovinette levavano verso di lei cantici ed inni, tra la fragranza dei fiori e il, profumo dell'incenso.

Era il trionfo dell'amore, della bellezza e della giovinezza. La sentimentalità dei fedeli vedeva in tutto ciò riflesso il divino, e moltiplicava queste meravigliose cerimonie di culto, attraverso le quali sentiva di esaltare quanto di più bello v'era nella vita creata e perpetuata dagli Dei.

A Cipro, a Pafo, ad Amatunta, nei vetusti templi dorati, gli abitanti consacravano alla Dea le loro figlie fin dalla nascita. Sacerdotesse fin da bambine, queste ragazze rimanevano votate alla divinità per tutta la vita. Talora lo jerofante stesso deflorava le fanciulle con un coltello d'oro, offrendo alla grande madre Venere la loro verginità.

 

I millenni non sono riusciti a cancellare la memoria delle magnificenze di molti santuari assiro-babilonesi ove era adorata la Venere-Instar o Dea Mylitta. Ma famosissimi sono rimasti, fra tutti, quello di Erek in Babilonia, quello di Eliopoli in Fenicia, quello di Aphaco presso il Libano.

Questi due ultimi conservarono il culto ed ebbero sacerdotesse fino al tempo di Costantino, che li fece poi distruggere.

Ma il tempio di Babilonia non fu superato da alcun altro per il lusso e la magnificenza in onore della grande Dea Belit o Dea Mylitta. Esso é rimasto anche famoso per la prostituzione delle donne devote e delle «sacerdotesse» in onore della grande Regina della Fecondità.

Questo tempio aveva la forma classica dei templi babilonesi.

Erodoto dice che comprendeva un'area di due stadi per ogni lato ed era recinto da un grosso muro. Entro il recinto c'era uno spazio accessibile a tutti i fedeli, formato da corti, laghetti, portici, giardini, coltivazioni ad uso dei sacerdoti. Uno spazio era, invece, riservato solo a questi ultimi, ed era quello che costituiva il tempio propriamente detto.

Questo aveva forma piramidale a sette piani degradanti.

Sulla piattaforma dell'ultimo piano si trovava la sala riservata alla grande sacerdotessa della Divinità.

La sala aveva una mensa d'oro e un letto parimenti tutto d'oro.

La «sacerdotessa» era scelta dalla stessa Divinità per per bocca dei sacerdoti.

Nessuno poteva entrare in quella superba sala dorata; poiché il Nume stesso andava di notte a riposare con la «sacerdotessa» eletta e privilegiata, compiendo in tal modo la jerogamia.

Ma se il Tempio aveva una sala riservata per il Nume in persona e per la sua sposa privilegiata, apriva numerosi altri anditi e molti altri luoghi, più o meno lussuosi, ai sacri amori delle vergini jerodule che donavano devotamente se stesse alla Divinità nella persona dei sacerdoti del tempio.

Si comprende da ciò il significato del nome col quale il Tempio veniva indicato. Esso era detto Socoh-Beneth (Socoth = tenda, tabernacolo; beneth = fanciulle) ossia «padiglione delle ragazze» perchè tutte le donne, almeno una volta nella loro vita, dovevano recarvisi per prostituirsi in onore della grande Venere.

(Tale costume era, del resto, comune anche in Palestina ove si celebrava, pare annualmente, una festa detta appunto dalla Bibbia Socoth Beneth : «festa delle tende delle ragazze» nella quale il Movers ha visto l'origine della «festa dei tabernacoli» di cui è cenno anche nell'Evangelo).

Le donne affluivano alla «Tenda delle ragazze» in Babilonia, per sacrificarsi alla grande Dea, in grandissimo numero e non potevano uscirne senza aver adempito a questo precetto religioso.

La folla dei devoti era tale, che, - dice Erodoto - talvolta i galli e gli eunuchi dovevano sostituire le donne nel sacrificare alla Dea.

Evidentemente ciò non costituiva motivo di biasimo o di ripugnanza, poiché il rito era inteso sostanzialmente come mimetismo della divina Natura fecondatrice.

Molte donne si recavano al Tempio anche con servi e con masserizie e là, con il capo cinto di una corona di fiori, assise in una delle corti o sulla riva di uno dei laghetti, o sotto uno dei portici, attendevano, talora anche molti giorni, gli uomini che le avessero prescelte. Gli uomini entravano a cavallo o su cammelli o su carri, si soffermavano lungo le funi tese, che segnavano i recinti riservati alle donne, e sceglievano la sposa, ad imitazione del Nume che aveva scelta, per i suoi riposi notturni, la grande «sacerdotessa» a lui accetta.

La donna, per precetto sacro, non poteva rifiutarsi all'invito da chiunque partisse, fosse pure stato un uomo brutto o vecchio; né poteva respingere la mercede che questi le gettava in grembo, fosse pur stata tenuissima.

La mercede costituiva offerta sacra perché veniva intenzionalmente data alla Divinità.

Il profeta Geremia, parlando dei sacerdoti e degli idoli assiro-babilonesi, così dice in una sua epistola: «I templi erano pieni di polvere e di fumo d'incenso. Le persone devote offrivano voti dei quali i sacerdoti avevano cura e custodia. L'oro e l'argento che i fedeli presentavano agli Dei per ottenere la remissione dei peccati, veniva dai sacerdoti serbato per il mantenimento del tempio e delle prostitute che erano considerate come sacerdotesse. Tutte le volte che si offriva agli Dei qualche sacrificio i sacerdoti ne profittavano per vestire poi le loro mogli e i loro figliuoli con gli abiti che erano stati offerti per ornamento degli idoli».

 

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In Egitto non vi erano vere e proprie sacerdotesse costituite.

L'Egitto, geloso dell'influenza morale delle donne non volle ammetterle al vero sacerdozio; ma accordò loro la «consacrazione» alle varie Divinità, e specialmente a Iside, in qualità di «sacrificatrici» di «famule» e di «partecipanti» ai vari culti.

Le donne avevano quindi, nei templi, le stesse mansioni di quelle del Tempio di Erice dedicato a Venere, erano cioè sacre ancelle, che mediante il concorso dei sacerdoti, offrivano la loro verginità alla Dea dell'Amore.

Ma erano anche sacerdotesse danzatrici.

Esse eseguivano, infatti, non solo la danza intorno al bue Api, ed altre danze sacre ma partecipavano alla danza che Luciano chiama astronomica. Questa danza doveva dare un'idea del movimento dei corpi celesti, dell'armonia delle loro differenti rivoluzioni, come pure della potente influenza degli astri sul mondo elementare. Era una danza originaria di Caldea, a meno che i magi della Mesopotamia non l'abbiano importata dalla penisola dell'Indostan.

(Questo culto si ritrova anche presso i Persiani e gli Assiri. Presso i Greci se ne constatano vestigia nella teoria pitagorica perché é dall'Egitto che Pitagora ha riportata questa credenza. Il grande matematico dice: «Dio essendo un numero o un'armonia bisogna onorarlo con cadenze misurate»).

La danza astronomica egiziana, essendo in onore di Iside, era eseguita dalle sue giovani sacerdotesse, le quali componevano in onore della Dea le più elette e simboliche evoluzioni ritmiche, intrecciandole alle movenze degli altri partecipanti.

Le sacerdotesse di Osiride erano, invece, principalmente fallofore.

Nelle feste solenni esse recavano, in processione, un simulacro del Dio, con un membro di dimensioni enormi, che veniva agitato con un sistema di corde abilmente tese.

Era questo il culto propiziatorio in onore del Principio attivo dell'Universo rappresentato dal fallo, e in votato dalle sacerdotesse a favore della conservazione della Vita nella sua forma vegetale, animale e universale.

Stuoli di sacerdotesse precedevano il simulacro cantando gl'inni speciali, altri lo seguivano recando cesti di fiori e di frutta. Osiride, Dio della generazione e della vita, Osiride dio di ogni fecondazione doveva spargere sulla terra il dono della sua virtù spermatica, far scorrere la linfa nelle piante, far compiere il miracolo della fecondazione nel grembo delle madri.

Tale era la preghiera fervente delle giovani sacerdotesse.

 

A Nilopoli, invece, le donne avevano speciale devozione per il bue Api.

Questo bue, sacro alla Luna, era riconoscibile da evidenti attributi virili. Quando esso moriva, tutto l'Egitto, come ridotto simbolicamente in vedovanza, prendeva il lutto, e rimaneva in queste mistiche gramaglie finché un altro bue non fosse stato consacrato.

I sacerdoti menavano allora il nuovo Api a Nilopoli e, per 40 giorni, solo le donne, per speciale privilegio, potevano avvicinarlo. Per cerimonia propiziatoria, davanti all'animale sacro, grave e attonito, esse si scoprivano con funzione liturgica, mostrando al bue le loro nudità.

Intanto, le «sacerdotesse» compivano la danza stabilita, che doveva propiziare l'attività virile, simboleggiata nel bue, a favore di tutte le devote che dalla sacra influenza del principio fecondatore attendevano che si perpetuasse in loro la virtù divina della generazione.

Il sacerdozio femminile in Egitto poggiava quindi sul simbolismo filosofico-mistico della terra dei Faraoni, ed era tutto informato ai principi teogonici e cosmogonici che presso gli antichi popoli costituivano l'essenza della religione.

Le sacerdotesse erano ancelle di questo simbolismo, mentre la loro missione contribuiva ad esprimerlo e ad esaltarlo per la parte sacra e naturale che si riferiva alla femminilità.

 

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Più tipiche, perché con mansioni più precise, appaiono le sacerdotesse asiatiche.

Le sacerdotesse-danzatrici dei templi indiani, sono, secondo la leggenda, di origine celeste.

Dice il Jacolliot (La femme dans l'Inde) «Esse discendono dalle Apsaras, cortigiane e danzatrici del cielo d'Indra. I poeti le fanno uscir dal mare.... Esse si misero immediatamente a danzare sui flutti, si seducenti e belle di forme che i Dêvas e gli Assuras si accanirono in un combattimento terribile per impadronirsene. I Dêvas vittoriosi le condussero al loro capo Indra che le dichiarò danzatrici ordinarie del cielo.

«Una delle Dee, avendo avuto commercio con un mortale, mise al mondo una figlia, che, non potendo, per la sua origine terrena, abitare nel cielo, fu affidata a dei bramini che l'allevarono nell'interno della pagoda. La bambina, sebbene in tenera età, si mise istintivamente a danzare davanti alle statue degli Dei. Fatta grandicella ebbe sette figlie e ad esse insegnò a danzare nel tempio, come ella stessa aveva fatto».

Da ciò l'origine delle sacerdotesse-danzatrici dette Devadassi.

Le Devadassi (deva = dio; dassi = schiava) sono le ragazze indiane «spose di Dio» che, consacrandosi alla Divinità, offrono ad Essa le loro grazie nella persona dei bramini, e adempiono alla loro missione di ancelle sacre, danzando e cantando nei templi.

Il loro numero era, talora, grandissimo. In India vi sono state migliaia di devadassi anche in un solo tempio.

Nel santuario di Comana ve ne furono un'epoca circa seimila. Anche nel tempio di Urahog vi erano cori formati da migliaia di vergini giovinette destinate ad offrire alle varie Divinità il fiore della loro giovinezza.

Le fanciulle erano dai bramini chieste ancora bambine ai genitori, o da questi spontaneamente offerte al servizio del tempio, per voto fatto, o anche per alleviare, in tal modo, il peso della loro indigenza.

Secondo il Fourment, i membri della casta dei Kaid-Kolen (tessitori) erano obbligati a consacrare alle divinità la loro quinta figlia, o la più giovane fra le figlie, se ne avevano meno di cinque.

Ammesse al tempio all'età di 9 o 10 anni, le devadassi portano un monile in segno di matrimonio: é il taly, gioiello d'oro traversato da un cordone di 108 fili, in omaggio alle 108 facce del Dio Rudza. Questo cordone é cosparso di zafferano in memoria di Lacmy, la la dea della gioia.

Tre volte al giorno le devadassi debbono danzare nella pagoda nelle ore del poudja.

La loro danza é una preghiera d'amore: «la loro estasi significa l'annienta men to dell'anima individuale nella grande anima divina» (3).

Coperta dal sacro manto della religione, la prostituzione di queste sacerdotesse fanciullette non ha nulla di disonorevole. Dentro le ombre tranquille del tempio ove vivono lontano dal mondo, si coltivano di buon'ora le loro menti con studi di lettere, preferendo a tale istruzione quella che ad esse insegna il modo di piacere maggiormente e di avvivare le loro maniere allettatrici con vezzi seducenti e con le grazie naturali.

 

Là esse imparano a fingere un tenero e soave languore, in un bell'occhio nero e vivo, a raccogliere o stendere gli sguardi ora furtivi ora liberi, a mescere l'ardire carezzevole e lascivo col timido pudore, ad adombrare l'accorgimento con le sembianze della semplicità e dell'inavvertenza, a dare soprattutto alle loro snelle ed eleganti membra le attitudini più adatte a solleticare il desiderio: pongono in opera insomma tutto il fascino dell'amore.

Oltre a questo principale scopo di appagare, cioè, i desideri dei sacerdoti le devadassi prendono cura del tempio in qualità di schiave-sacre, e accendono le lampade, e preparano le funzioni, e profumano gli altari.

Ma più che altro, esse sono le riconosciute danzatrici del tempio.

Un passo del Bhagavata-Purana dice: «Le loro danze, generalmente assai lascive, testimoniano la loro adorazione profonda per il Dio. Danzando, esse rimangono rapite d'amore, rappresentando gli alti fatti attribuiti alle Divinità».

Desiderate per la loro grazia e la loro seducente bellezza, le devadassi offrono anche i loro favori ad altri, ma è necessario che questi sappiano chiederli e avvalorare la domanda col danaro.

I bramini, non gelosi di questo, dato il numero grandissimo di concubine, acconsentono volentieri che le «schiave di Dio» accrescano le entrate delle pagode, col prezzo delle loro compiacenze.

E quando per lo sfiorire della loro bellezza i bramini le congedano dal tempio, le «schiave di Dio» essendo già ritenute sacre nell'opinione dei devoti e degne di essere ricercate per aver appartenuto alla Divinità, nessuno svantaggio hanno da temere dal cambiamento del loro stato.

Dice l'autore delle lettere sulle Indie orientali: «Un giorno mi incontrai in una danzatrice-concubina del Dio Subramaunia, da esso congedata non so per quale ragione, ma probabilmente perché cominciava ad invecchiare. (Il Dio le degna dei suoi abbracciamenti fino all'età di venti o venticinque anni). La ragazza aveva seco cinque o sei servitori che raccoglievano, nei luoghi dove la «schiava di Dio» passava, le offerte dei fedeli. Era vestita decentemente per non dire riccamente, tutta frange d'oro e d'argento : teneva in mano una piccola lancia e un'immagine del Dio, suo marito, del quale andava evidentemente orgogliosa. L'essere stata «schiava» di un Dio era naturalmente la più alta soddisfazione per una donna. Io non vidi mai sguardi più accorti e vivaci, né fisonomia più lusinghevole e più fina».

 

Oltre le devadassi (termine, del resto, generico, che indica tutte le sacerdotesse-concubine indiane) vi sono le murli che di poco si differenziano, le nartahi, le canceni e le balladiere.

Le Nartahi sono reclutate come tutte le altre devadassi. Sono danzatrici che accompagnano le processioni in talune speciali festività, ma non sono confinate ad esercitare la loro professione entro il recinto di alcun tempio particolare.

Le Canceni costituiscono un altro ordine di sacerdotesse-danzatrici, ma in massa si identificano alle balladiere.

Le Balladiere (dal portoghese bailadeire) sono principalmente danzatrici sacre, ma al pari di tutte le devadassi, spazzano le pagode, servono nelle sacre funzioni, accendono le lampade ed eseguono le danze davanti alle statue degli Dei, sia durante i sacrifici, sia nelle processioni e nelle feste religiose e civili.

Nelle feste sacre esse danzano le danze dette Ramdjeniy.

Ogni anno subiscono esami su tre materie.

Benché appartengano alle pagode, o piuttosto ai bramini, esse sono autorizzate ad ornare le feste dei rajahs, purché il danaro ricevuto in queste occasioni sia versato interamente nelle mani dei bramini stessi.

 

La istituzione asiatica di queste sacerdotesse-ballerine e concubine deve rimontare ad una lontana antichità.

I libri indiani più celebri alludono, infatti, alla danza sacra delle fanciulle. Arriano, storico greco del 2° secolo, ne fa cenno (Indica, VIII) quando parla di una danza che Bacco, dopo i Greci, avrebbe insegnata ai popoli dell'India. (Si potrebbe anzi trovare in questo mito l'anello di congiunzione fra la mitologia greca e la teogonia indostanica).

Il culto del fuoco, che s'incontra all'origine della tradizione ariana, aveva, infatti, come principale manifestazione religiosa, le danze eseguite durante il canto degli inni che formano la raccolta del Rig-Veda.

Il fuoco, così adorato, è simbolo del Sole, di cui si festeggiava in certe epoche la marcia annuale. Questo culto si é sparso in Europa con le migrazioni ariane. Se ne ha una prova nei Poemi Orfici che altro non sono che delle imitazioni dei canti del Rig-Veda.

É dunque nell'India che il culto del fuoco con le relative danze sacre ha avuto origine (4).

Ecco perché in Asia e specialmente in India la danza sacra ha raggiunto la più grande importanza.

Le danze delle bajadere (e del resto anche quelle delle devadassi, delle canceni, delle nartahi, che in sostanza erano tutte «spose di Dio») sono in massima parte pantomime amorose.

Esse danzano quasi sempre una per volta. Poco spazio basta a i loro movimenti, che principalmente consistono nello sporgere ora un braccio ora un altro, in togliersi o riporre il velo sul capo, in attitudini ora amorose, ora supplichevoli, ora languide, tratteggiate di timore, di lamento, di gelosia, di tutti i trasporti dell'amore e del piacere.

L'abbigliamento loro è il più leggiadro e il più acconcio a far risaltare la grazia femminile: i piedi e le mani sono carichi di monili e di armille.

 

Il Raynal parlando di queste danzatrici indiane così si esprime: «Tutto, cospira al successo di queste vo. luttuose donne. L'arte e la ricchezza del loro acconciamento, del pari che la loro industria, dà risalto alla loro bellezza. I loro capelli lunghi e neri ondeggianti sulle spalle, o raccolti in nodi, sono carichi di diamanti intrecciati di fiori; i loro monili sono ricchi di pietre preziose. Incomparabile è la cura che esse pongono per preservare le loro mammelle, come una delle parti più attraenti del loro corpo. Per non lasciarle troppo ingrossare o sformarsi, le rinchiudono in due custodie fatte di un legno sottilissimo e leggerissimo, giunte insieme e affibbiate di dietro. Queste custodie sono così morbide e arrendevoli che cedono alle varie attitudini del corpo senza nuocere punto alla delicatezza della pelle. Di fuori sono coperte con una foglia d'oro tempestata di diamanti. É questa, certo, la più raffinata specie di ornamento che sia stata adottata dalle sacerdotesse dell'amore».

La maggior parte delle balladiere credono di accrescere la bellezza della loro carnagione e la impressione dei loro sguardi col delineare ombre nere intorno agli occhi con uno spillone intinto nella polvere di antimonio. Ma tutte lucidano e tingono di vermiglio le loro unghie, si profumano il corpo col sugo delle radici di zafferano o con la polvere di sandalo.

L'arte di piacere è la intera loro vita.

Votate fin dai più teneri anni alle Divinità, esse non desiderano che piacere ai bramini che la rappresentano, rimanendo devote schiave d'amore.

Sacerdozio, dunque, lubrico e lascivo, ma in realtà, sacerdozio di estrema devozione.

Le devadassi, appaiono principalmente nelle feste di Dassara, alla fine della stagione delle piogge e ai Nauratri o «nuove veglie». In queste feste, però, le danze sono calme e serene e hanno solo un certo senso di languore.

Ma nelle feste di Holi, in onore della Dea della Primavera, le sacerdotesse si abbandonano alla più sfrenata licenza, sicché «la festa si compie in una deboscia senza limiti e senza vergogna, principalmente perché tale dissolutezza viene considerata accetta alla Divinità e compiuta in suo onore» (5).

Né é facile resistere alle affascinanti maniere di queste fanciulle sacre.

Le balladiere e, in genere tutte le devadassi, ottengono perfino la preferenza sulle bellezze di Cascemir che popolano i migliori serragli dell'India, e sulle bellezze Georgiane e Circasse che affollano i serragli di Ispahan e di Costantinopoli.

La modestia o piuttosto la riserva delle orgogliose schiave degli harems, sequestrate dalla società degli uomini, non può uguagliare le arti miracolose e le insidie di queste espertissime fanciulle, la cui vita, per la esagerata credulità degli uomini e per la inveterata superstizione, rimane sacrificata interamente ad un sacerdozio lubrico, ad una missione forse soltanto sensuale, dichiarata «sacra» dalla libidine umana.

 

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Anche nel Giappone e in Cina sono state in onore, fino a qualche secolo fa, le danze sacre eseguite da giovanette consacrate agli Dei.

La Cina, più particolarmente, aveva sacerdotesse che si davano a diverse specie di danze in onore delle divinità. Erano queste danze: l'Yun-men (o porta del Cielo) e la Ta-konem, danza circolare, riassunte in un'altra: la Ta-yem. C'era inoltre la cadenzata Ta-tao, la Hya, danza della Virtù, la Ta-hu, danza della Beneficenza, e alcune altre.

In Siberia, presso una tribù di Teleuti, popolazione tartara, esisteva, come esiste tuttora, una categoria di sacerdotesse, o Sciamane, poco dissimili da quelle indiane.

Gli Sciamani, cioè i preti, abusavano della credulità e della sensibilità di quelle ragazze votate a Dio, per farle vittime e complici delle loro cerimonie.

La Sciamana aveva un abito corto con molti sonagli e strani monili. Accendeva il fuoco sacro, e poi, tenendo in una mano il tamburo magico, e nell'altra una bacchetta coperta di pelle di renna, si dava alla danza, dimenandosi assai. Poi si fermava di colpo, accostava il tamburo all'orecchio, come per consultarlo, e subito dopo dava le risposte profetiche a chi gliele aveva richieste, ricevendone in compenso una renna, un cavallo, una pelliccia, secondo la possibilità dei richiedenti.

Gli Uida, popolo di negri che vive sulle coste della Guinea, aveva anticamente una schiera di sacerdotesse-concubine.

Quando una donna é elevata alla dignità di beta, cioè di sacerdotessa, diviene orgogliosa all'eccesso, anche se nata da schiava. É rispettata quanto i sacerdoti, e prende il titolo di figlia di Dio. Mentre le altre donne devono servire i loro mariti come schiave, la beta, invece, ha un'autorità assoluta su chi la sposa e dispone dei beni di quello con imperioso dispotismo. L'elezione di queste donne avviene, secondo il Desmarchais, in maniera assai curiosa.

Ogni anno si sceglie un certo numero di fanciulle da consacrarsi al loro Dio-serpente: e le vecchie sacerdotesse sono, poi, incaricate dell'esecuzione. A tal fine, quest'ultime, sul far della sera, escono armate di bastoni, entrano in città come tante furie, correndo per le strade; e, gridando nigo, boudiname!, cioé ferma, prendi!, arrestano tutte le ragazze che incontrano, dagli otto ai dodici anni. Nessuno impedisce loro questa drammatica scelta, perché esse sono seguite e difese da sacerdoti armati di clave, pronti ad uccidere chiunque ardisca opporre la minima resistenza.

Dopo il ratto le giovani sono condotte ai loro monasteri, mentre si avvisano i genitori, perché non stiano in pena. Spesso i padri ritengono un grande onore avere qualche figlia consacrata al Dio-serpente: e perciò si rallegrano della elezione. Ce ne sono, anzi, di quelli che pongono addirittura sulla porta di casa la piccola destinata al sacerdozio.

Quando le vecchie hanno compiuto il numero delle nuove adepte, cominciano ad educarle.

Dapprima le trattano con dolcezza e insegnano loro le danze e i canti sacri pel culto del Dio-serpente. Ma l'ultima parte del loro noviziato é assai dolorosa, perché si incidono, con acute punte di ferro, su tutto il loro corpo, molte figure di fiori, di animali, e specialmente di serpenti.

Quando esse guariscono, la loro pelle somiglia a un bellissimo raso nero a fiori, che principalmente serve come segno perpetuo della loro consacrazione al servizio del serpente.

Dopo qualche tempo si celebra la cerimonia delle loro nozze col sacro animale. I parenti, superbi di sì bella alleanza, mandano alle figlie gli ornamenti più ricchi che possono.

Così abbigliate, le fanciulle sono condotte al tempio, e la notte seguente vengono fatte discendere nei sotterranei, dove sono due o tre serpenti che le sposano per commissione del Gran Serpente.

Frattanto le compagne e le vecchie sacerdotesse ballano e cantano a suon di musica; compiuta la funzione, le spose escono dal sotterraneo e acquistano immediatamente il titolo di moglie del Gran Serpente, che portano fino alla morte.

Il giorno dopo tornano alle famiglie: e, se non si sposano, come spesso avviene, si danno a far commercio del proprio corpo. Per questo fu insegnata loro la più sopraffina galanteria amorosa e l'arte di piacere, in modo da accrescere i proventi. I quali, poi, sono divisi con le direttrici, che danno a intendere alle allieve che esse otterranno, poi, straordinarie ricompense nel delizioso paese del Serpente.

 

Completeremo la nostra esposizione, aggiungendo qualche cenno sulle sacerdotesse dall'antico Messico. Presso quel popolo, esse incensavano gli idoli e presentavano loro l'oblazione giornaliera di commestibili, mantenevano vivo il fuoco sacro e spazzavano l'atrio. Erano, però, escluse dai sacrifici e dalle principali dignità del sacerdozio. Tra esse, alcune erano consacrate in tenera età dai genitori; altre, per un loro voto, servivano in questo o quel monastero per un anno o due. A 17 o 18, poi, i genitori cercavano loro marito, e, trovatolo, presentavano al sacerdote, in piattini dipinti, alcune quaglie, fiori, copal e commestibili, accompagnando l'offerta con un discorso di ringraziamento per la cura usata nell'educazione della loro figliola.

 

Il sacerdozio femminile è, dunque, esistito presso tutti i popoli. Sacerdozio, come abbiamo visto, multiforme e vario nelle sue manifestazioni, ma che, in sostanza, traeva il suo speciale carattere dagli usi, dai costumi, dalla cultura e specialmente dalle superstizioni dei popoli dai quali era istituito.

 


 

1. Queste parti «sacre» (ta iera) venivano chiamate pecten-cteis (vaschetta oblunga) ed erano preparate con diversa materia. Sappiamo che i Siracusani facevano il pecten, per le ceste mistiche, con una speciale pasta ove entrava tra l'altro il miele e il sesamo.

2. Un esempio di queste danze assiro-babilonesi si trova nel bassorilievo di Koyuudsik scoperto da Layard negli scavi di Ninive.

3. Cfr. Vuiller, La Danza.

4. L'uso delle danze religiose si è, del resto, conservato nell'Estremo Oriente (Giava, Birmania, Giappone).

5. Rousselete, L'Inde des Rajahs.

  

 

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