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di
Giorgio
(Tratto dal bollettino VIDYA" di Giugno 2008)
I vari rami della Tradizione affermano che
esiste un'unica Realtà, che noi chiamiamo in
vari modi secondo i condizionamenti
culturali, e affermano anche che la
liberazione si ottiene con il raggiungimento
della pura e luminosa "consapevolezza" della
nostra vera natura.
Non si riferiscono, quindi, né alla
consapevolezza del corpo (respiro,
posizioni, movimento... ), né a quella delle
sensazioni (piacevoli, spiacevoli, neutre),
e neanche a quella della mente (processi
mentali e loro contenuti), anche se ogni
forma di consapevolezza può essere di aiuto
per la ricerca della nostra vera natura.
La pura "consapevolezza" viene chiamata da
alcuni "vera natura" o "natura primordiale",
o "natura della mente" oppure "coscienza" o
"stato naturale"; da altri "essenza degli
esseri realizzati", e da altri ancora
"spazio" (1).
Ma che cosa è la consapevolezza della nostra
vera natura? La consapevolezza è uno stato
non duale, quindi parlarne non è semplice;
tentiamo allora, "attraverso la grazia di
Quello", di esprimerla a parole e dire che:
- non è pensiero: essere consapevoli non
vuol dire pensare o essere introspettivi. Se
si pensa, non si riesce a essere
consapevoli; la consapevolezza è
l'esperienza diretta di ciò che accade senza
passare per il pensiero;
- non è concentrazione: la concentrazione è
attenzione focalizzata su un certo punto che
si sta analizzando;
- non è valutazione: anzi, è proprio
l’assenza di valutazione e di giudizio. La
consapevolezza è osservazione senza
giudizio;
- non è tensione: non richiede sforzo, non
c'è niente in essa che richieda sforzo
personale;
- non è spirito di osservazione: non ha
bisogno di una ricerca intenzionale. La
consapevolezza è essere presenti a se-stessi;
- non è un concetto, non possiamo quindi
esprimerlo a parole, né tanto meno con
concetti dualistici; non è una teoria da
studiare, non richiede particolari
comportamenti; si raggiunge con
l'osservazione di noi stessi fino a scoprire
la nostra vera natura;
- non è erudizione, non può quindi essere
approfondita con la mente - perché è
al di là della mente stessa;
- non esiste come qualcosa di concreto:
benché risplenda direttamente, non può
essere osservata, altrimenti sarebbe un
oggetto; benché esista dappertutto, non la
si comprende; non ha un'immagine come
supporto, ed è svincolata dalla mente: è
l'essenza di noi stessi;
- non è una cosa determinabile, e non è
neppure un “nulla”: è la piena coscienza di
ciò che realmente siamo, al di là di
qualsiasi concetto mentale;
- non esiste all'esterno, ma in noi stessi;
riguarda il nostro stato primordiale, la
nostra natura intrinseca; è la natura
originaria della nostra coscienza al di là
della distinzione fra causa ed effetto,
cambiamento e morte;
- non è un luogo di felicità: è al di là dei
concetti dualistici di felicità e dolore;
- è una pura limpidezza priva di
movimento: essa conosce ogni cosa in modo
chiaro ma senza alcun concetto; in essa ogni
cosa appare chiaramente, ma priva di un'
esistenza separata;
- è vera conoscenza: e la conoscenza
porta alla responsabilità; ma noi vogliamo
veramente la responsabilità? Anche se la
gabbia è aperta, vogliamo veramente uscire?
La consapevolezza è comprensione dell'impermanenza,
è la visione del cambiamento dei fenomeni
senza partecipare ad essi; è l'osservazione
della natura fondamentale di ogni fenomeno.
Tuttavia non è concettuale, è nuda, cioè
senza pensiero, non è condizionata da
opinioni, semplicemente osserva le
esperienze cosi come sono, senza alterarle.
Per riconoscere la nostra vera natura è
necessario vivere nel nostro stato naturale,
ossia rimanere consapevoli che la realtà è
una, che la realtà è ciò che è,
indipendentemente da ciò che desideriamo che
sia; significa prendere coscienza di quello
che realmente siamo.
La mente genera pensieri; dalle
considerazioni sopra riportate si evince che
la consapevolezza può essere sperimentata
solo in assenza di pensieri, nel silenzio; è
necessario, quindi, operare il distacco tra
mente e coscienza, le quali, nella maggior
parte di noi, sono identificate.
In noi, la consapevolezza è autocoscienza,
se la nostra vera natura non si manifesta è
a causa dell'ignoranza metafisica.
Dice Padmasambhava, il grande saggio
Tibetano (2): «Poiché
tutta la realtà ha la natura di un punto,
essa è priva di espansione e contrazione;
non è soggetta a nascita, quindi neppure a
cessazione; è eternamente ciò che è. Questa
matrice, priva di immagini mentali, esiste
fin dal principio come lo spazio, perciò è
al di là del concetto e dell'espressione
verbale» (3). Quindi è
lo stato in cui cessa il senso di
separazione fra noi e il Tutto.
La Tradizione, ben sapendo che ognuno di noi
ha potenzialmente la capacità di raggiungere
la realizzazione, ha cercato di costruire un
ponte che serva non solo per superare
l'abisso ma che possa dare alla nostra vita
un mezzo di liberazione.
Sembra che l'ostacolo principale per la
realizzazione della consapevolezza sia tutto
ciò che riguarda la mente, cioè il pensiero
discorsivo, l'analisi intellettuale e le
deduzioni logiche; mentre per realizzarla
serve soltanto rimanere nel proprio stato
naturale, e ciò può avvenire soltanto con
l'abbandono di ogni attività mentale. Queste
condizioni possono portare all'esperienza
diretta della consapevolezza; il passaggio
cioè dalla molteplicità all'unità, dal
relativo all'assoluto, dall'individuale
all'universale.
Secondo Padmasambhava, la liberazione
attraverso la pura consapevolezza non
dipende dalla nostra capacità di
comprensione, perché noi tutti siamo in
potenza dei liberati. Tuttavia, occorre una
buona preparazione che possa servire di
supporto all'intuizione; occorre, cioè, una
profonda riflessione sulla consapevolezza e
sulla coscienza, cominciando col chiederci
da dove vengono e dove svaniscono tutti i
fenomeni (4).
Secondo la Tradizione, tutti i fenomeni
sorgono nella coscienza, e in essa
svaniscono; i fenomeni avvengono, dunque,
nella coscienza la cui natura è
consapevolezza; ossia la natura della
coscienza è consapevolezza.
L'intera manifestazione - in
particolare gli esseri, la nascita, la
morte, la trasmigrazione ed anche
l'emotività, i sentimenti, i pensieri -
tutto è sempre la manifestazione della
nostra stessa coscienza. Se cambiamo lo
stato di coscienza, in modo analogo cambia
la visione della manifestazione.
In altre parole, dobbiamo prima comprendere,
e poi distaccarci dalle energie che ci
costringono nella manifestazione, creandoci
l'illusione della nascita e della morte, per
arrivare infine a sentirci parte ed
espressione cosciente del Tutto e
sperimentare l'unità di ogni vita e di ogni
coscienza. L'idea di unità non deve però
essere una costruzione mentale, ma la
profonda consapevolezza che i concetti di
"io" e "non- io" sono soltanto una nostra
illusione. Il nostro livello di
consapevolezza dipende dal maggiore o minor
grado di questa unità.
La Tradizione ci indica che per sperimentare
la consapevolezza non è necessario né
rinunciare, né purificare né trasformare
qualcosa; ogni energia che sorge in noi può
essere utilizzata come mezzo. Un saggio ha
detto che vedendo all'esterno oggetti che ci
sembrano tra loro differenti, ci attacchiamo
alla loro apparente diversità e di
conseguenza veniamo ingannati dal nostro
attaccamento personale. Diventando
consapevoli che tutti i fenomeni sono la
Coscienza, pur vedendone l'apparente
diversità, non essendoci più attaccamento,
veniamo dunque liberati; in altre parole,
non sono i fenomeni che ci condizionano, è
l'attaccamento ad essi; quando si è
consapevoli che la loro natura è unica ed è
solo Coscienza, l'attaccamento scompare.
Solo con l'osservazione di noi stessi
potremo raggiungere la liberazione che è
comprensione totale di sé nel Tutto e chiara
visione della Legge che governa tutte le
cose.
Ma come possiamo sperimentare la
consapevolezza? Sappiamo che la
consapevolezza è quello stato coscienziale
che può essere sperimentato in assenza di
pensieri, cioè nel silenzio; quindi, il
silenzio è consustanziale alla
consapevolezza, e inoltre l'esperienza della
consapevolezza deve essere fatta in maniera
diretta, senza l'aiuto dell'intelletto.
La Tradizione insegna che nella nostra mente
passano incessantemente infinite serie di
pensieri. Ogni pensiero è originato dal
pensiero precedente che, per associazione,
inevitabilmente sviluppa pensieri
successivi; noi non possiamo fermarli
inibendoli; possiamo soltanto limitarci a
osservarli lasciando che seguano
naturalmente il loro corso.
Qualsiasi pensiero che si manifesti nella
nostra coscienza deve essere lasciato com'è
senza giudicarlo; è importante non
attaccarsi ad esso per non perdere lo stato
di distacco dando vita a ragionamenti; cioè,
è importante non dare energia al pensiero,
ma semplicemente osservarlo. Quando non vi è
più attaccamento, quando non vi è sforzo né
tensione, qualsiasi cosa sorga, sia un
pensiero che il ricordo di un evento, si
esaurisce automaticamente da se - stessa
(5).
Quando ciò avviene, non ci sono più ostacoli
alla esperienza diretta della
consapevolezza, che può così manifestarsi in
tutta la sua pienezza. Quindi, se vogliamo
seguire questa via per raggiungere la
consapevolezza, abbiamo la sola regola
dell'osservazione dei nostri pensieri.
Nell'osservare i pensieri non ci sono
‘àsana’ da praticare; l'importante è
rilassarsi completamente lasciando che i
pensieri sorgano e scompaiano naturalmente,
però senza perdere la consapevolezza…
Padmasambhava dice ancora: «In questo
stato naturale, senza distrarsi, osservando
il pensiero che si dissolve da sé, non vi è
azione forzata; in questo modo, tutto appare
e si risolve spontaneamente. Non si corregge
il proprio corpo, non si ottundono i sensi,
non si pronuncia nulla; non c'è nulla da
fare con sforzo. Qualunque pensiero appaia,
si rimane nello stato in cui non si è scossi
da nulla» (6).
E
se ci distraiamo? Accorgersi di essere
distratti indica che abbiamo già raggiunto
un certo grado di consapevolezza.
Nell'osservare i pensieri, non siamo
impegnati in alcuno sforzo, non c'è niente
da fare o da non fare: l'importante è esser
consapevoli.
Cerchiamo di concludere: se nella ricerca
dello stato di consapevolezza ci accorgiamo
che nella vita di ogni giorno noi non siamo
in contatto con la nostra vera natura, ma
con i nostri contenuti mentali
(condizionamenti, ricordi, pensieri...)
significa che ogni nostra esperienza passa
attraverso il filtro delle nostre
interpretazioni deformandone la percezione.
Allora, per avere l'aspirazione, sono
necessarie la ricettività e l'apertura
mentale, e per comprendere la reale natura
della consapevolezza, occorre praticare
delle tecniche che annullino la distrazione
e gli attaccamenti ai contenuti della mente,
i quali ci vincolano alla manifestazione
stessa. Solo allora il Maestro potrà donarci
l'introduzione diretta alla nostra vera
natura. Si riporta, sintetizzandolo, quel
che ha scritto Sogyal Rinpoche, a proposito
dell'introduzione diretta
(7):
«Il Maestro, con l'introduzione diretta,
ci insegna a vedere il vero stato delle
cose, così come sono; a sapere che la vera
natura della nostra coscienza è la vera
natura di tutte le cose; a comprendere che
la vera natura della Coscienza è la Realtà
Assoluta. In altri termini, egli ci guida
alla comprensione della "nuda-
consapevolezza" in cui tutto è contenuto, la
percezione sensoriale, l'esistenza fenomenica, il samsara ed il nirvana ; ma la vera
esperienza deve essere ottenuta da noi
stessi».
Egli riporta poi un esempio molto
istruttivo: «Potete immaginare che la
natura della mente sia come il vostro volto:
esso è sempre con voi ma, senza un aiuto,
non potete vederlo. Adesso, immaginate di
non aver mai visto prima d’ora uno specchio.
L’introduzione fatta dal Maestro è come se
vi mettete improvvisamente davanti ad uno
specchio in cui, per la prima volta, vedete
riflesso il vostro volto. Come in quest’
esempio, la pura consapevolezza non è una
cosa "nuova" fornitavi dal Maestro e che non
avevate prima, e neppure è qualcosa che
potevate trovare al di fuori di voi stessi.
É sempre stata vostra, è sempre stata con
voi ma, prima di quel momento sbalorditivo,
non l’avevate mai vista direttamente».
Ecco la dimostrazione che lo stato di
consapevolezza non è un segreto tenuto
nascosto e neanche un concetto, ma un'
esperienza che noi stessi dobbiamo svelare
con la nostra coscienza; ottenerla, vuol
dire la fine di ogni illusione, compresa la
fine del circolo vizioso dell’esistenza,
vale a dire, la nascita, la morte e la
rinascita..., con il raggiungimento della
completa libertà, saggezza e beatitudine.
L'insegnamento sostiene che la pura
consapevolezza non dipende dalla difficoltà
del cammino ma, al contrario, dall’assurdità
di essere così talmente semplice che le
nostre menti analitiche e razionali, non
sono capaci di capire ciò che dobbiamo fare,
ma soprattutto quello che dobbiamo non fare.
Quando qualcuno chiese al Signore Sakyamuni
Buddha di parlare della consapevolezza, Egli
rispose rimanendo in silenzio.
E per finire, il consiglio in due parole del
Maestro Raphael, che sintetizzano la Via per
raggiungere la consapevolezza: « ...
guardatevi vivere».
1) Spazio, è
un'analogia per indicare un luogo
indefinibile, che non ha né forma né colore:
non si può stabilire dove inizi e dove
finisca, ogni movimento avviene in esso, ed
è al di là di ogni concetto. Lo stato della
consapevolezza è come il sole che sorge e
che illumina completamente tutto lo spazio;
qualunque sia il numero dei corpi contenuti
nello spazio esso rimane sempre
indivisibile. È forse il simbolo più
appropriato, ma esso non ha consapevolezza.
2)
Padmasambhava (lett. "nato da un loto") è
uno dei fondatori storici del Buddhismo
Tibetano (VIII° secolo), venerato a
tutt'oggi nelle regioni himalayane col nome
di Guru Rinpoche (Il Venerabile Guru).
3) ‘Tantra
Kunje Gyalpo’ (XXVI, f. 32 / 2- 3).
Riportato da Randrol Nelgyor in
"Consapevolezza- Rigpa" a cura di Giuseppe
Baroetto, Cap. Commento. Libreria Editrice
Psiche, Torino.
4) Fenomeno:
tutto ciò che, per esistere, dipende da
altre cose, e quindi è transitorio: nasce,
cresce e infine muore.
5) Può darsi
che l'energia di un pensiero sia tanto forte
da strapparci dal nostro stato di distacco,
costringendoci ad alimentarla con altri
pensieri. Raphael, perciò, consiglia di
riproporre il pensiero diverse volte
oggettivandone il contenuto, cioè
considerandolo altro da noi, fino a fargli
perdere la sua carica emotiva diventando un
normale pensiero che può essere osservato
con distacco e, quindi, lasciato svanire. In
ogni caso, egli consiglia "di non
abbandonare la tecnica e di non scoraggiarci
o concludere di non essere maturi per tale
tipo di osservatore, ma di perseverare
perché il risultato positivo è solo
questione di esercizio. Il condizionamento
avuto nel passato non si può annullare da un
giorno all'altro".
6) ‘Tantra
Kunje Gyalpo’, ibidem.
7) Sogyal
Rinpoche, ‘Il libro Tibetano del vivere e
del morire’. Cap. "L'essenza più intima".
Ubaldini Editore, Roma.
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