Così sia. Anzi, cosi è, o sarà
«Pregate e vi sarà dato...»: così recita Vangelo. Ma a prenderlo alla lettera, come il buon soldato Schweik faceva con gli ordini dei suoi superiori, si rischia di scatenare un putiferio teologico. Perché? Cosa vale la preghiera sul mercato delle idee contemporanee? Come si prega oggi? Ha ancora senso pregare? E come?
La polemica l'ha suscitata Emanuele Severino, un filosofo «indipendente», ex cattolico (fu processato dalla Chiesa per le sue provocazioni teologiche), ora impietoso commentatore dei mali filosofici dell'Occidente. «Già nel linguaggio la preghiera rivolta a dèi o a uomini è intesa come volontà di dominio», ha scritto Severino sul Corriere della Sera del 13 novembre. La tesi dell'articolo, intitolato «La preghiera all'indicativo», sembra semplice: pregare significa sentirsi onnipotenti; la preghiera afferma non la debolezza ma al contrario la forza dell'uomo. E volontà di potenza: timore del destino. E allora?
Alla critica di Severino si aggiunge qualche giorno dopo (sulla Repubblica del 18 novembre) la critica della critica del teologo Gianni Baget Bozzo. Severino ha torto, dice. Nella cultura cristiana, e quindi nei fondamenti della cultura occidentale, l'azione divina e l'azione umana non sono fato o destino, ma sono invece dialogo, relazione, libertà». E fin qui tema è ghiotto. Occidente e Cristianesimo, infatti, si sono sempre bisticciati su questo punto: libero arbitrio di San Tommaso contro il servo arbitrio di Lutero. Eppure le argomentazioni di Severino si appuntano proprio sul modo di pregare. Per spiegare ciò che pensa il filosofo fa un esempio: il Padre Nostro, la preghiera per eccellenza. Secondo Severino a rileggerla con attenzione si scopre che il Padre Nostro si raccoglie intorno a due poli in contraddizione. «Il primo è espresso dal versetto: "Sia fatta la tua volontà"; secondo versetto: "Rimetti a noi i nostri debiti", cioè dall'invocazione che sia fatta la "nostra" volontà di essere sollevati dal debito (quindi di avere il pane quotidiano e di essere liberati dal male)».
Ma dov'è la contraddizione? Severino la spiega così: «Dapprima la preghiera si rimette alla volontà del Padre; ma poi fa presente la volontà di chi prega»: insomma per seguire pensiero di Severino fino in fondo, la preghiera viene a coincidere direttamente cc: la fede, la fede di ottenere ciò per cui si prega. Ma dov'è trucco? Severino lo svela quando propone di leggere il Padre Nostro non al congiuntivo, ma all'indicativo. risultato sarebbe pressappoco questo: Viene tuo regno, è fatta la tua volontà! Ci dai il pane quotidiano. Rimetti a noi i nostri debiti. Ci liberi dal male. Così è».
Questa storia dell'indicativo non data giù a Baget Bozzo che spiega a Severino che in realtà il Padre Nostro è una preghiera all'imperativo.
Il cristiano prega: «Che venga tuo regno! Che sia fatta la tua volontà! Che siano rimessi i peccati! Nel futuro. Nell' incertezza. Nella speranza, cioè nella storia».
Ma la polemica non si ferma qui. Enrico Filippini, sempre sulla Repubblica, risponde a Baget Bozzo pressappoco con questo ragionamento: nel crepuscolo degli dèi della civiltà moderna possiamo solo constatare tramonto dell'Occidente e del Cristianesimo. Dunque, che lo Spirito Santo si rimbocchi le maniche o perirà anche lui con le rovine del pensiero occidentale.
A questo punto gli interventi si susseguono: sulla Repubblica dopo Filippini interviene anche l'antropologa del giornale, Ida Magli, a evocare il potere magico della preghiera: in tutte le religioni la sua efficacia consiste nell'incastrare la divinità per ottenere ciò che pregando si pretende avere.
Nel dibattito, grammatica e Bibbia alla mano, si inserisce opportunamente Umberto Eco per avvisare tutti che non solo la preghiera è potente, ma che ogni parola lo è: il linguaggio inquadra la realtà per dominarla.
Ma come? In che modo quest'ipotesi si adatta al Padre Nostro? A riprendere in mano le parole di Gesù si fa una scoperta singolare: che nella disputa fra congiuntivi, indicativi e imperativi, nessuno ha sentito l'imperativo di indicare in che lingua il Padre Nostro ci è stato tramandato. La versione originale non esiste più: il Padre Nostro deriva direttamente dal famoso Discorso della Montagna con il quale Cristo, all'aria aperta, invitò i poveri di spirito a godere della loro insipienza. Gesù Cristo parlava in aramaico. I Vangeli, invece, sono arrivati a noi in greco. A rileggerli si scopre che in greco non c'è né l'indicativo, né il congiuntivo e tanto meno l'imperativo. C'è invece un altro tempo verbale: l'aoristo, il tempo verbale con cui la lingua greca esprime l'assenza di tempo. La cosa non è da poco conto. Gli evangelisti, che raccontarono come dei cronisti tutto ciò che capitò a Gesù Cristo, si confusero nel riportare il testo di quella che poi sarebbe diventata la preghiera per eccellenza. Marco e Giovanni non la citano nemmeno. Matteo e Luca invece si. Ma in due versioni distinte. Luca è più breve: omette le parole «che sei nei cieli; che sia fatta la tua volontà; liberaci dal Maligno» (già: Maligno, cioè Satana. Non «male», come viene tradotto). Luca omette pure il luogo e la circostanza in cui il Padre Nostro è stato recitato per la prima volta.
Naturale che tutti, dai primi cristiani ai Padri della Chiesa come l'autore della Didaché, Policarpo di Smirne, Tertulliano, Cipriano, Origene, San Gerolamo, Sant'Agostino, preferissero la versione di Matteo. Tale versione entrò immediatamente nella liturgia delle Chiese cristiane di tutti i paesi: erano le parole stesse di Cristo e venivano recitate senza che nessuno si sognasse di dubitare della loro autorità.
Eppure le parole del Padre Nostro non sono tutte farina del sacco di Gesù. Erano parole già udite. Il Padre Nostro, in pratica, è uno stupendo plagio, deriva (copiato!) dai testi ebraici più comuni: le 18 benedizioni (Shemoné Esré) recitate durante gli uffici, i Qaddish o orazioni dei morti, i testi rabbinici, conoscono già tutte le espressioni usate da Gesù, a volte addirittura parola per parola. Qual era dunque la novità di Gesù? Era proprio quel benedetto aoristo che esprime il tempo dell'eterno!
Gesù non invitava affatto gli uomini a esprimere la loro volontà di potenza, i loro bisogni e neppure le loro speranze. Li invitava ad abbandonarsi a Dio, interamente, nella dimensione dell'eterno.
L'uomo non chiede. Si limita a constatare la gloria di Dio, che ha la dolcezza e il fascino di una Madre, oltre che la potenza di un Padre II richiamo al pane quotidiano ricorda quello analogo all'affanno di ogni giorno, che è sufficiente a riempire l'esistenza. E come se, traducendo liberamente l'aoristo, il Padre Nostro fosse scritto così: «Padre! Dall'Eternità sei nei cieli e in ogni luogo. La Tua volontà è compiuta sempre. II Tuo nome è sempre benedetto.
Il Tuo Regno è imminente e già venuto allo stesso tempo. II Tuo pane è il nostro pane di ogni giorno. Perdonaci, come noi perdoniamo gli altri. E strappaci dalle tenebre di Satana». Insomma, Dio e l'uomo sul terreno dell'infinito si rappacificano. Cristo è il mediatore e il garante di questo patto di unità nella diversità. Nel Padre Nostro quattro punti sono a favore di Dio:
1) Dio è il padrone incontrastato, come nella Bibbia.
2) Il suo nome è santo, come aveva dovuto riconoscere Mosè tra tuoni e fulmini.
3) Il suo regno, non costituzionale, dura molto al di là di quello di David e Salomone.
4) La sua volontà è legge.
In cambio l'uomo ottiene:
1) Da sfamarsi per tutti i giorni.
2) L'amnistia dai reati gravi.
3) Il «fair play» nel ramo tentazioni e affini.
4) La «protezione» contro il racket di Satana.
Un perfetto pacchetto di impegni reciproci concluso con una firma rituale: «Così sia».
Ma non tutti sono d'accordo. «I filosofi, in quanto tali, non dovrebbero mai scrivere di preghiera», reagisce padre Ernesto Balducci, teologo «scomodo» e progressista, «così come gli eunuchi (preti compresi) non dovrebbero scrivere di amore sessuale. Ecco perché un filosofo che tenti ,di scoprire l'ideologia del Padre Nostro mi fa pensare a un geometra che tenti la stessa operazione con l'Infinito di Leopardi».
Anche altri filosofi mostrano diffidenza verso la volontà di potenza: Agnes Heller, allieva di Giorgy Lukàcs, pensatrice marxista in gran voga nel Settantasette, nell'area dell'autonomia, per la sua «teoria dei bisogni», non sembra appassionarsi al problema delle preghiere; ce l'ha invece con i filosofi: «E un vizio di molti filosofi moderni: il complesso di Napoleone. Dio è morto? Allora si può fare tutto! E non è così. L'uomo è vittima prima della società e poi delle sue illusioni». Ma Severino contrattacca: «E vero! Le illusioni sono pericolose. Ma la più grande è quella del progresso. La realtà è profondamente immutabile. Per questo l'uomo agisce in assoluta povertà e solitudine». Viene il sospetto che si tratti di una filosofia atea del «riflusso» Ma Severino è esplicito: «Si parla di "riflusso". Ma in realtà è un flusso ininterrotto. In ogni Fiume, se c'è un'ansa, la curva sembra tornare indietro, verso la montagna. Ma la corrente va avanti. Così è la religione. Tornare indietro è un'apparenza. Oggi scopriamo che la fede in Dio declina o si riaccende. Ma la struttura della realtà è immutabile»