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stessa sezione:
Dante: Poeta dell'Universale
Tutte le immagini della Divina Commedia
di "Gustave Doré"
PREMESSA
La Commedia - in quanto storia dell'ultimo atto di un amore partecipante
dello umano e del divino, del visibile e dell'invisibile - si definisce,
nell'aprirsi della scenografia paradisiaca, con la profilata sintesi
Dante-Beatrice: ritrovamento ed insieme operazione magica, sostanzialità
unitaria dello Amante e dell'Amata, rinsaldato piano della Conoscenza -
Visione - Amore della Verità. Il Paradiso è dunque l'approdo a Sophia ed
il suo primo canto ne riquadra, programmandolo, l'intero profilo
esoterico.
L'AZIONE
Per la stessa qualità di canto proemiale, il I° del Paradiso si
configura in una imponente dichiarazione della nuova materia (la
elevazione completa dell'anima al Cielo), del fine anche umano e storico
che quella materia si propone (l'esempio del meritato lauro, in tempi
d'indifferenza e di antagonismo), ed infine della nuova atmosfera in cui
Dante verrà a trovarsi, e dalla quale si dà subito saggio. Si tratta di
tonalità ambientale completamente diversa dalla terra, ed il Poeta
puntualizza quest'ultima parte, prospettando la meraviglia e facendo ad
essa corrispondere la immancabile spiegazione di Beatrice.
In sintesi, Dante narra di essersi mosso verso il cielo, mentre si
trovava sulla cima della montagna purgatoriale, che avrà permanenza
nella parte maggiormente irradiata dalla penetrazione di Dio, cioè
nell'Empireo, e pertanto userà linguaggio non comune e non saprà o potrà
ridire tutto a chi è abituato alla terra; che, per quanto la sua memoria
lo aiuti, chiede l'assistenza di Apollo a completare quella delle Muse,
fino ad ora beneficiata; che il lauro di Dafne, ossia la consacrazione
poetica cui egli aspira, forse darà esempio ad altri, in epoca ove raro
è che trionfino cesari e vati. Finalmente, a mezzogiorno e nella
temperie primaverile-astrologica in cui il sole sorge «con miglior corso
e con migliore stella» - la triplice misura di croce formata dai quattro
cerchi (orizzonte, equatore, eclittica e coluro equinoziale)
intersecantisi contemporaneamente in un punto dell'orizzonte - Beatrice
appare «rivolta in sul sinistro fianco», e contempla il sole, simile
all'aquila. Dante, fissando i propri occhi nei suoi, guarda anch'egli il
sole e subisce una metamorfosi affine a quella di Glauco, «trasumanare»
ineffabile. Ma, accorgendosi che l'armonia e la luce si accrescono
inspiegabilmente, riceve da Beatrice, la quale gli legge nel pensiero,
la spiegazione ch'egli non è più in terra e sta viaggiando nella sfera a
velocità di folgore (al modo di qualche proiettile-razzo). Prospetta
allora la tesi, come possa attraversare «i corpi lievi», e Beatrice gli
risponde essere tutte le creature, dalle più alte alle infime, attratte
da Dio per forza naturale, salvo non si allontanino dalla via che ad
essa è propria, per volere deviante. Tutto ciò che accade dunque è
spiegabilissimo e normale: «quindi rivolse in ver lo cielo il viso».
L'ARTE E LA UNITA' DEL CANTO PROEMIALE
La tonalità ieratica ed il significato programmatico di altissime verità
conferiscono a questa poesia un evidente timbro solenne. Ma il Poeta,
pure assumendo la fisionomia di discepolo ed essendosi finto ignorante,
onde prospettare alcune soluzioni dottrinali, non perde l'occasione per
ribadire il concetto aristocratico della missione illuminante e della
qualità solare. Si potrebbe dire anzi che un contrasto è innegabile tra
la invocazione ad Apollo, la ricognizione del Sole nel punto più alto e
nella posizione astrale più favorevole, ed il richiamo ad Ovidio (Glauco
trasumanato) da una parte e dall'altra il «farsi grosso» e l'aria di non
capirci niente, di trovarsi in mezzo a suoni e luci, di credersi ancora
sulla terra, perfino dopo aver guardato, attraverso gli occhi
dell'amata, la fonte della luce ed esservisi, per così dire,
sprofondato. Si potrebbe qui parlare di una mancanza di sutura tra il
fattore storico-psicologico (la consacrazione del poeta civile, perché
tra i seguaci di Apollo si contavano anche i Cesari), dottrinale (in
principio dominante con la introduzione descrittiva ed invocativa e
nella seconda parte, con la trattatistica cui d'ora in poi ci si dovrà
abituare), quello sentimentale (dato che in fondo l'occasione è stata
utile ad un ulteriore omaggio alla donna amata e sapientissima), ed
infine il fattore estetico. Si può dire del resto che i personaggi del
canto siano davvero Apollo (prima personificato nel dialogo, poi
oggettivato nel Sole) e Beatrice, ricca di allotropia meravigliosa.
Sembra statua da contemplare, aquila in volo, sorgente di maestà
dottrinaria, e del pari comprende e l'animo commosso» di Dante, e guarda
con spirito materno a lui come a figlio ammalato, anzi in delirio. Ella
è così umana da non sdegnare, malgrado la paradisiaca imponenza, un
sospiro di commiserazione. Con tutto il e pio» aggettivo data da Dante,
resta una piacevole nota di curiosità, poco didattica per il vero,
almeno nello spirito della scuola moderna.
Il canto possiede tuttavia una unità che non è solo estetica; il lato
estetico anzi è il riflesso di un'altra unità, più profonda e
consapevole, degna di venire ripresa e approfondita nella
multilateralità delle sue prospettive e nella dilatazione che i principi
emergenti dalla unità suddetta riescono a presentare verso altri punti o
tappe della Cantica celeste.
LA IMPOSTAZIONE NEOPLATONICA: LA GNOSI, BEATRICE, APOLLO E ROM.
Domandiamoci innanzi tutto quale sia la impostazione generale del canto,
che è poi di tutto il Paradiso, e praticamente costituisce la teleologia
dell'intero Poema. La penetrazione di Dio inteso come fonte suprema
della Luce, nell'universo, con riflessi «in una parte più e meno
altrove», chiaramente equivale al principio neoplatonico della
emanazione che, in termini cristiani, si è svolto nello Gnosticismo: Dio
è luce emanante dall'infinito verso l'infinito, senza possibili
distinzioni di tempo e localizzazioni di modi. Qui infatti l'unico punto
di differenziazione è la maggiore o minore risplendenza, derivante dal
termine antitetico della Materia. Nelle misteriosofie si celebrava il
Sacrificio cosmico, ossia la limitazione (quindi il soggiorno sul piano
particolare ed empirico che noi chiamiamo e materia») della Divinità,
allo scopo di trarre dalla propria espansione innumerevoli esseri, i
quali poi partecipano alla Sua gloria, risalendo il cammino della luce.
Dante incarna il destino dell'uomo sulla falsariga degli antichi riti di
«trasumanazione» ch'egli aveva appreso dal e bello stile» di Virgilio.
Non è certo uno stile letterario, sia perché Dante non era tipo da
vivere all'ombra di nessuno, sia perché la Divina Commedia non l'ha
scritta in Latino. Egli intende rappresentare, con il Paradiso, la
seconda fase della rappresentazione neoplatonica, cioè la conversione. E
come
Plotino aveva preordinato la
pratica di molteplici virtù, morali e religiose, ma anche estetiche e
politiche, così Dante riunisce nel serto della propria consacrazione
apollinea, tanto il valore poetico, quanto quello civile. Apollo è
illuminazione ovvero conoscenza, non soltanto bellezza, ed il mondo
abbandonato alla opacità e alla indifferenza, deve compiere una
palingenesi completa
(1)
Gli gnostici avevano affermato che la salvezza consiste nella
conoscenza. Dante riassume in sé medesimo, il valore simbolico della
salvezza di tutto il genere umano, sia dalle catene del peccato, sia da
quelle della schiavitù politica. È infatti apprezzato da Catone che
aveva preferito morire libero anziché vivere suddito. Egli prospettava
subito - nella sede della salvezza e della verità - un progressivo
aumento di conoscenza, con il simbolo di Beatrice, la quale
evidentemente è il pensiero universale, la immagine gentile della
scienza cosmica, ed in questo canto in particolare, un grazioso trattato
di astronautica. Commento dunque alla introduzione del Paradiso ha dato
Giuseppe Mazzini quando ha scritto: Veniamo in nome di Dio, di cui il
nostro mondo un raggio e l'universo una incarnazione.
Nel secondo profeta e maestro della tradizione italica, con una
continuità che potrebbe essere stata condotta benissimo sul filo di
musica inattingibile (quella delle sfere cui Dante accenna con la
«novità del suono» secondo la dottrina pitagorica), rivive Virgilio.
Dante simile ad Enea, dopo essersi sprofondato nell'Averno ed avere
parlato con i morti, ora deve fondare la la nuova città e la nuova
stirpe: Roma nel senso dell'Amore universale.
Alla umanità deviante dal piano divino 'ed ambasciata dalle prepotenze
dei Re, dall'anarchia dei Comuni e dalla intolleranza della Curia
Romana, egli presenterà il piano ideale del mondo, la città avvenire: il
principio che aveva ispirato Omero e Virgilio ed ispirerà le future
epopee. Il Paradiso è Roma-Amor-Orma-Ramo, è «quella Roma - non
teocratica e politica, ma spirituale ed universale - onde Cristo è
romano».
Virgilio dunque è ancora presente; perché non è affatto andato via, il e
beatissimo padre». Qui siamo nell'irraggiamento del lauro di Apollo, dei
Cesari e dei Poeti, cioè nel trionfo del ramo d'oro di Enea, che egli
aveva cantata fino alla concomitanza politica e storica dell'Impero, e
che Dante, sviluppando e completando l'opera sua - tutt'altro che
imitatore letterario - realizza con il Paradiso
(2).
IL SIMBOLISMO DEL FUOCO E DELLE TRASFORMAZIONI: I NOMI DELLA
LUCE
Il punto ideale di raccordo delle diverse immagini del canto, è il
Fuoco: mare di fuoco in cui il Poeta si trova improvvisamente immerso,
ricordo di Apollo con il fulgore connaturato alla immagine, splendore
massimo del sole nel luminoso settenario dei quattro cerchi con le tre
croci, sfavillare degli occhi di Beatrice, commistione degli sguardi
dell'amante e dell'amata su linea di luce la quale direttamente indica
la via solare.
Se vari sono i motivi che riuscirebbero a definirlo, la definizione più
plastica potrebbe essere: il canto della luce fiammeggiante. Il
principio inoltre riesce molto utile a chiudere la funzione del proemio
nel quadro dell'opera. Da una parte infatti, l'idea rimonta a quella
prova del fuoco che Dante subisce per vedere Beatrice e che è adombrata
nel XXVIII canto del Purgatorio. Il cammino di Dante attraverso le
fiamme non ha riferimento personale: che il Poeta cioè a proposito della
lussuria, abbia voluto espiare qualche difetto della sua personalità
storica. Pure lasciando trapelare infatti, la preoccupazione di portare
addosso le pietre della superbia (Purg. XIII), non era certo stato
consigliato da Virgilio di dare il cambio ad uno degli inquilini di quel
girone. In realtà le ipotesi peccaminose non sono convincenti, mentre la
ragione del passaggio attraverso il fuoco resta Beatrice («Fra Beatrice
e te vi è questo muro»). Se non avesse a suo tempo penetrato quelle
fiamme, ora il Poeta non potrebbe attraversare il lago del fuoco
celeste, né parlare ad Apollo ed aspirare al serto di luce, né infine
guardare gli occhi di Beatrice e il Sole. Spostandoci più innanzi,
troveremo ché le varie figurazioni dei Beati sono contemporaneamente
luminose e fiammeggianti, tanto da essere state paragonate a centri
radianti di energia. Basta pensare ai cieli di Mercurio (coloro che
emisero onde praticamente positive, di calore umano, di educazione e di
giustizia), di Marte (coloro che furono dall'ardore dello spirito
combattivo), del Sole (coloro che sparsero intorno a sé la luce della
conoscenza), di Saturno (coloro che resero trasparente il corpo alla
visione divina). Nel VII canto sorgono le discussioni sulla morte del
Cristo, sul peccato originale e sulla «umana carne» di
allora», quella dei «primi parenti» (vv. 145-148), quindi
incorruttibile. É una evidente materia sottile che risale per linea
diretta al Pensiero cosmico da cui è venuta. Essa, dipendendo dalla
guida del pensiero individuale e sopravvivente, potrà corpo eterico,
alone e coagulo di estrinsecazioni di energie e certo cosa diversa dal
composto di elementi destinati alla trasformazione nella natura, cioè il
corpo fisico - simbolicamente «risorgere». Mentre il «soma» si
disperderà nel destino di ciascuno elemento ritornando ad alimentare
scientificamente il proprio ciclo, il centro cosciente potrà ricostruire
intorno a sé il «dokein» della vita, secondo un ideale d'interezza, che,
in sede poetica, è raffigurata da Dante (vv. 104-132) nei tono idillici
del Paradiso Terrestre e di Matelda, beneficiando anche delle classiche
memorie dell'Età dell'Oro Al. v. 18, dopo mostrata tutta la possibile
riverenza per il Be ed Ice, il volto dell'amata è detto capace di
rendere felice l'uomo che si trovi nel fuoco.
Dante infatti, in mezzo alle fiamme del Purgatorio, chiama Beatrice il «pome»,
e «li occhi» un premio di voluttà al sacrificio (v. 45 e 54). Poco dopo,
Beatrice stessa spiega all'amato che determinate cognizioni non sono
affermate dagli occhi (la visione della mente) il «cui ingegno non è
adulto nella fiamma d'amore», cioè non si è temperato alla prova del
fuoco.
Per ulteriori motivi, ed in soprappiù, appare chiaro in conclusione il
vero significato di Fuoco, occhio, luce, amore, sole, Apollo, aquila,
alloro, Beatrice ecc.
Dante ha dichiarato di avere subito una trasformazione radicale i cui
effetti si notano nell'aumento di penetrazione del mistero della vita,
da parte della sua possibilità di conoscenza.
Peraltro il canto che segue marca apertura solenne di mistero e ricorda
il rituale del Convito di Platone: «profani, state indietro». Dante dice
di tornare ai loro lidi abituali, onde non si smarriscano per difficile
strada, a quanti siano «in piccioletta barca». E continua affermando:
«L'acqua ch'io prendo già mai non si corse: Minerva spira; e conducemi
Apollo, e nove Muse mi dimostran l'Orse».
Se in un altro luogo bastano una o più muse, qui è necessario
collaborino tutte; siamo infatti in presenza di due volti diversi
dell'unica realtà, il Lògos, il Pensiero, l'Anima del Mondo, Apollo e il
Sole divino: non l'astro che alimenta il nostro od un altro degli
infiniti sistemi solari, ma - come avrebbero detto gli Stoici e gli
antichi seguaci della teoria eliocentrica ai quali Dante è vicino molto
più che l'arretrato geocentrismo tomista dei tempi suoi e di altri - il
Fuoco Centrale dell'Universo.
Atena fu rivelata dalla testa di Giove, in cui giaceva, con una
operazione che ricorda il rituale degli antichi Fulgurari, ed infatti
Vulcano, ancora il Fuoco, spacca il cranio al Padre degli Dei (il Tutto,
l'Assoluto inespresso) con l'accetta (usata poi appunto dai sacerdoti
delle religioni solari anche sotto forma di Bipenne) e ne rivela il
Logos-Luce. Minerva è già adulta, come Lao Tsè (che nacque vecchio) e
protegge la cultura (illuminazione della mente) e l'olio (illuminazione
dell'ambiente). Infine, allo stesso modo in cui a Freya (e ad altre
analoghe figurazioni) erano sacri i gatti che vedono nell'oscurità (e
gli animali affini), Atena aveva sacre le civette. Dopo la persecuzione
del distrutto paganesimo, parecchi secoli d'ignoranza sono subentrati
sull'argomento, ma le civette continuano a portare buona fortuna a chi
non ha dimenticato il culto del Pensiero. Sarebbe ora comunque che il
popolo ed i ragazzi specialmente, si liberassero da superstizioni
destinate a fare soffrire un animale il quale, oltre tutto, è bello e
meglio figurerebbe in una rassegna di grazia che in un conciliabolo di
streghe: ha gli occhi d'oro, come a suo tempo era bella la Dea
occhiglauca. Oro e azzurro insieme dicono la luce e l'infinito.
Stante la presenza di Minerva e di Apollo, è naturale siano qui anche le
Muse. Esse con il loro numero (3 x 3) spiegano l'armonia fra i tre mondi
della filosofia umanistica della quale Dante risulta primissimo
portatore: il mondo divino, l'umano ed il fisico. Dal primo discende la
luce, dall'ultimo emergono le energie impersonali e meccaniche; nel
mondo umano tutto si compone ed assume immagine di bene o di male, a
seconda dell'impiego della libertà. Fare, cambiamento, demiurgia, e di
conseguenza, responsabilità.
LA LEGGENDA DI GLAUCO E LO SPIRITO DELLE METAMORFOSI
Il Fuoco è il simbolo della Trasformazione: Eraclito lo considerava
l'elemento primordiale. Ma, nella Commedia, di quale trasformazione si
tratta? Glauco contiene preciso riferimento ad Ovidio, autore delle
Metamorfosi, il poema in cui, sotto il velo della fantasia, è adombrato
un mondo di combinazioni biochimiche. Glauco, secondo la leggenda, era
un pescatore; avendo data salva la vita ad un pesce, ne ricevette il
segreto dell'erba dell'immortalità. A parte la nota curiosa del
racconto, il quale si trova anche in altre atmosfere poetiche e
dottrinali (per es. fra gli Assiri e i Babilonesi), è interessante
notare il rapporto che si è stabilito fra l'uomo e le forme
dell'infinito rappresentato dalla matrice prima di tutte le cose,
nell'antico linguaggio, il mare.
Diventare «consorte in mare de li altri Dei» significa, in aderenza al
linguaggio usato da Dante, Tu diverrai simile agli Dei, immune dalla
morte (dai
«Versi d'Oro»
pitagorici). La poesia ovidiana presentava, al culmine delle
trasformazioni, l'immortalità sotto forma d'indiamento, comunione con i
Celesti; molti personaggi così finiscono per diventare altrettante
costellazioni. Il mare è appunto il e gran mare dell'essere»; lo si
attraversa per giungere ad esempio al Vello d'oro, impadronendosi,
diremmo noi, di una sorgente di radiazioni, magari di una miniera di
uranio. Dante spiega tutto questo con il «trasumanare» e, malgrado le
barriere di cui egli circonda ogni indiscrezione, proprio come un adepto
degli antichi Misteri, fa capire che tale esperienza trasumanante non è
stata un momento di carica sentimentale, ma una vera e propria
esperienza: liberazione e sdoppiamento. Non è più il caso dunque di
porsi la legittima domanda (e curiosa): ma Dante ha davvero provato
quanto ha descritto o si è trattato di una meravigliosa evasione della
fantasia? Dante ha realmente sperimentato lo sdoppiamento, la
indipendenza dal corpo.
Egli non è salito in effetti in alcuna regione aerea, salvo non si
voglia pensare ad un autentico viaggio interplanetario attraverso una
trance, in modo analogo a Swedenborg
(3) o
ad un intuire la quarta dimensione, se appunto nel canto che segue, è
detto (vv. 36-39): «S'io era corpo, e qui non si concepe com'una
dimension altra patio, ch'esser convien se corpo in corpo repe»
(4).
DANTE E BEATRICE: MOMENTI DELLO SPIRITO UMANO L'IDEALE PITAGORICO
A questo punto la soluzione dello squilibrio fra la prima e la seconda
parte del canto è raggiunta, perché non vi è ormai alcuna
differenziazione insuperabile tra Dante e Beatrice. Un qualsiasi iato
poteva sussistere nel Purgatorio, quando il Poeta non aveva ancora
conosciuto la prova delle acque cioè non era stato liberato da ogni
legame all'aspetto empirico e transeunte del la esistenza, mediante la
immersione in Lete, e non era stato vivificato dalla «santissima onda»
di Eunoè e rinato nuova pianta, neofito. Dante e Beatrice sono dunque
due momenti dello spirito umano, perché il Poeta apprende direttamente,
per comunicazione interiore, dal proprio Demone, dalla propria Coscienza
che, condotta ad uno stato di sublimazione ed oggettivata nella
proiezione estetica e sentimentale si è «indonnato» per «Be ed Ice».
La caratteristica di tutti i poemi che descrivano qualche grande viaggio
in terre meravigliose e sconosciute, è che il protagonista sia
accompagnato da altri, in condizioni o di scudiero o di maestro.
Come Virgilio, a parte la qualità personale e tradizionale, è stata la
ragione di Dante, dal punto di vista filosofico e, nel riflesso
politico, la sua fede ghibellina, così Beatrice è pure una parte, la più
eletta, dello spirito. E' la Coscienza che si conquista, attraversando
quelle che gli antichi iniziati dicevano le prove degli elementi. Dante
si è sprofondato nella terra, ha conosciuto il vento agghiacciante delle
ali di Lucifero, è passato attraverso i fiumi del Paradiso Terrestre e
per il fuoco dell'ultimo girone del Purgatorio. Secondo la tradizione
virgiliana dell'epos italico, il Poeta ha appreso tutti gli elementi ed
ora è al disopra di essi, in uno stato di consapevolezza che domina la
prassi spazio-temporale. Come Cagliostro, avrà detto: scelgo il tempo e
lo spazio nei quali manifestarmi. Superata la fase empirica
dell'esistenza (ciò che si dice di norma «la Terra»), egli si trova nei
Cieli.
Beatrice, vista fuori di Dante, è l'oggetto supremo, l'ideale-limite
della conoscenza, la chiaroveggenza o se si vuole, la cognizione delle
leggi eterne della vita di cui la natura fisica è portatrice in forma
elementare. L'ideale pitagorico della economia cosmica si comprende
nell'affermazione che:
«le cose tutte quante hanno origine tra loro, e questo è forma che
l'universo a Dio fa somigliante».
La espansione massima della luce ed il suo raffigurarsi in una piramide
(3 e 4) i cui elementi ci danno i numeri della generazione e
realizzazione. Da tale punto di vista, il Proemio al Paradiso è il canto
della Geometria universale tanto più se si pone mente alle spiegazioni
finali di Beatrice, a proposito dell'arco che saetta, penetrando la
spazialità invisibile degl'intelletti e delle anime, poetica
significazione del filo di Ayn Soph. della Qabalah.
La struttura armonica del mondo, per cui l'universo è musica di accordi,
è dunque poema di proporzioni, realtà numerica. Su tale fondo si muove
l'uomo. Egli può mutare il proprio destino, solo ignorando la Legge. Suo
scopo naturale invece è la compotenza con lo universo. Non a caso il
paragone della creatura tutta amabilità e grazia alla fierezza rapace di
un'aquila - tecnicamente si direbbe stonatura - è in perfetta assonanza
sul piano dell'anacogia filosofica, poiché l'Aquila nel linguaggio dei
simboli è lo Spirito e Beatrice è lo spirito di Dante; non più di un
uomo, ma coscienza dell'umanità intera.
1. Dante ha seguito il costume italico e
romano della purificazione dei peccati, che si compiva presso la porta
Tarpea e consisteva nell'assunzione e nella deposizione dei Piacula
(pesi simbolici), con la guida di una sacerdotessa (simboleggiata qui
dalla dolce tonalità angelica). Paragonando il suono della porta del
Purgatorio al fragore dei battenti della rocca Tarpea, quando Metello
non potette impedire la spoliazione di Cesare (secondo il narrato di
Lucano), il Poeta ha evocato il pagano prodigio, mentre ha assunto sulla
fronte i sette P che poi cederà, gradino per gradino (Purg. IX). Questo
processo è consistito in un faticoso salire dalle tenebre delle
profondità infernali alla luce dell'Eden.
2.
La significazione ideale del Paradiso è l'Irenismo, la Pace perpetua, la
Città dell'avvenire, la Confederazione universale, testimoniata dal
contrapporre la Città celeste a «l'aiuola che ci fa tanto feroci», e la
sincera preoccupazione dei Beati, per le sorti dell'Umanità, ai guai
dell'epoca. Ne fanno fede l'abbraccio di genti diverse, il
vagheggiamento di una nuova moderna Pax Romana, la comprensione
reciproca di tutte le Religioni.
3.
Su tale argomento penso al Sewall e con lui, al ricordo affettuoso degli
studi di Giorgio E. Ferrari e di Ugo da Neapolis.
4.
Non credo sia superfluo ricordare che il principio dell'Accademia di
Galileo il quale, per renderlo da poesia concretezza, si offrì ad essere
spezzato dalla Istituzione dogmatica coscientemente avversa perché
programmaticamente dominatrice della cultura, è stato tratto dai versi
della Divina Commedia (Par. II, 94-96 e III, 3):
«Da questa istanza può dilibirarti
esperienza se giammai la provi,
ch'esser suol fonte ai rivi di vostr'arti».
e Di bella verità m'avea scoverto,
provando e riprovando il dolce aspetto».
Il documento che presentiamo ai nostri graditi Ospiti è opera d'ingegno
di
CARLO GENTILE dell'Università di Pisa.
Il contenuto non esplicita necessariamente il punto di vista della Loggia o del G.O.I. Ogni diritto è riconosciuto.
© Carlo Gentile
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