Essa è, piuttosto, il dramma simbolico dell'anima che - alfine - si riunifica con lo Spirito universale o - per dirla col linguaggio induista segna il momento della definitiva reintegrazione dell'Atman nel Brahaman, del Divino che è nell'uomo col Divino che è nell'universo e oltre di esso, al di là della manifestazione. Soprattutto l'Apocalisse non è un'apocalisse, nel senso banale e moderno del termine: il testo attribuito all'apostolo Giovanni non allude alla distruzione del mondo, bensì alla "fine d'un mondo", destinato a realizzarsi in un tempo che non è quello delta storia, ma propriamente rnetacronico. L'equivoco ingenuo d'un annuncio di olocausto ha salde spiegazioni culturali e confessionali; tuttavia è infondato. Sempre più numerosi gli storici delle religioni hanno chiarito, con un complesso lavoro di esegesi testuale, la vera natura del testo apocalittico che è di palingenesi spirituale. Mario Bacchiega (I mostri dell'Apocalisse) è andato oltre affermando che la rappresentazione giovannea consiste di fatto in un rituale iniziatico, utilizzato come tale dalle primitive comunità cristiane di Padmos. La tesi, per quanto ardita all'apparenza, è suffragata dalla struttura originaria della Chiesa di chiara impronta esoterica (che altro è il battesimo se non una forma di iniziazione, per eccellenza?). Molti indizi confermano l'interpretazione storico-religiosa: il cristianesimo dei primordi aveva i suoi “riti di passaggio", le sue prove simboliche. Solo a partire dal IV secolo si trasformò in confessione essoterica, occultando le radici iniziatiche. Il processo che ne avrebbe fatto una religione nel senso odierno del termine non fu indolore: tutta la letteratura gnostica (e gnosi significa conoscenza occulta) venne spazzata via. V'erano altre Apocalissi circolanti nella comunità dei fedeli, attribuite a Pietro, Giacomo, Paolo ed una persino al primo uomo del Genesi, Adamo (!). La furia libellicida dei vescovi, divisi dalle grandi diatribe cristologiche del tardo impero, si abbatté su questi testi. E oggi non ne avremmo notizia alcuna se non fossero intervenuti i fortunati ritrovamenti di Nag Hammadi, che hanno restituito alla luce anche le serie dei Vangeli apocrifi perché gnostici anch'essi. La scelta definitiva dei testi canonici non fu semplice, bensì operazione graduale e sofferta. Sappiamo che gli scritti attribuiti a Giovanni (sia il IV Vangelo che l'Apocalisse) vennero accolti solo con riluttanza nel corpus dei libri sacri, considerati come reale espressione della Parola di Dio, Gli è che anche Giovanni era in forte odore di gnosi ... E la Chiesa aveva una straordinaria urgenza di sbarazzarsi della sua matrice esoterica, dal momento che si avviava a divenire religione di massa. Così l'Apocalisse di Giovanni è oggi l'unico testo escatologico col crisma della legittimità dottrinale. Per duemila anni, nella generale credenza, ha preannunciato il "giorno del giudizio", il ritorno di Cristo nella veste di magistrato insindacabile e inflessibile, chiamato ad una sentenza inappellabile verso tutte le creature risorte con i loro corpi, Questo riordinamento finale, preceduto dalle gesta inaudite dell'Anticristo, dall'apparizione di orridi mostri, avrebbe un che di terrifico: sarebbe un olocausto violento, nell'interpretazione comune. É l'errore storico della esegesi letterale; forma ed evento non corrispondono in ambito mitico, che è quello proprio del terreno escatologico-millenaristico. L'Apocalisse giovannea è apokàlypsis, ovvero "rivelazione". Più precisamente è dis-celamento (in greco kalyptein vuol dire "nascondere", "velare"), non distruzione - dunque - bensì trasparenza riattualizzata, il ristabilimento della verità universa. É questo il senso vero dell'immagine apocalittica. L'analisi semantica conferma l'equazione disvelamento-verità: infatti l'apokalyptein è dello stesso ordine dell'alètheia, identico il valore radicale che, allude al dissolversi delle tenebre che impediscono il chiarore della verità allo spirito individuale, costretto nell'illusione della separatezza dal Divino universale. E proprio il kalyptein, come il Maya indù, a nascondere la realtà all'lo individuato, fornendogli l'illusione d'una vita staccata dal contesto dell'Assoluto, di una fittizia autonomia nella quale consiste il mito del "peccato originale", della caduta edenica. I mostri dell'Apocalisse non sono che i mostri della nostra psiche tormentata dalla perdita del centro: raffigurazioni oniriche e sostegno dell'illusorietà del nostro esserci-al-mondo quali soggetto scisso dall'oggetto. Tale è il processo della rappresentazione sensoria dell'universo mayaico dei fenomeni: la vita è un sogno, il sogno è una vita. "Siamo fatti della sostanza dei sogni, e la nostra breve vita è tutta cinta dal sonno", dice il Prospero di Shakespeare. E già molto tempo prima il saggio Pindaro aveva ammonito che "l'uomo non è che il sogno di un'ombra". L'Apocalisse, propriamente, tramite la forza suggestiva e terrifica dei suoi mostri rappresenta l'attimo a-temporale in cui il piano dell'Essere si riconcilia con quello del divenire, fattosi cosciente della sua inconsistenza ontologica. I simboli apocalittici sono upaya, cioè supporto al risveglio dell'umano nel Divino. Non si tratta di una esplosione metapsicologica, bensì di una vera e propria implosione, un nuovo big-bang di natura spirituale interamente rivolto all'interno di ciascuno. La verità, infatti, è racchiusa nell'intimo; in un "granello di senape" riposto nel cuore si cela l'anello di congiunzione fra relativo ed Assoluto. "Tutto è dentro", afferma Plotino. Poco più tardi gli fece eco Sant'Agostino: "Non andar fuori, ma torna in te stesso. Nell'uomo interiore abita la verità". É l'insegnamento intemporale di tutta la Tradizione sapienziale, che l'Apocalisse adombra: la rivelazione dell'Essere che si annuncia come illuminazione escatologica, dunque conclusiva. Ma l'ontofania si dispiega essenzialmente come ideofanìa il "Mostrarsi dell'idea-visione". Questo appalesarsi, che è - in realtà - appercezione trascendentale, giustifica l'apparente paradosso buddhista, secondo il quale il Nirvana corrisponde al samsara perché la liberazione è attuabile nella stessa prigionia dei fenomeni, del mondo illusorio e doloroso per la sua indicazione di separatezza. Abbiamo una freccia al nostro arco ed è l'arma dlI pensiero sintetico, unitivo ("Del nome l'arco è la vita", ricordate l'enigma di Eraclito?). Accanto alla dominazione del mondo mediante la magia della stessa Maya e la figurazione mitopoietica, c'è la dominazione per mezzo del pensiero, la discriminazione fra Sé e non-Sé dell'Advaita-Vedanta di Shamkara: il pensiero è una delle potenze dell'essere. Ma la parola pensiero, da sé sola, non caratterizza a sufficienza il processo di liberazione o realizzazione spirituale che qui ci interessa. Infatti, le posizioni magica e mitica, creando figure, presuppongono anch'esse un pensiero. Il Sacro è una dimensione onnicomprensiva, che all'apparenza ci appare come paradossale, con un carattere ambiguo di attrazione e repulsione che evidenziano il fascinans e il tremendum del Numinoso espresso dal Mysterium originario. L'Apocalisse-rivelazione, tramite le sue figure-oniriche, ci dice che il "dis-velamento" della Verità cristica si realizza col meccanismo catartico della sua rappresentazione terribile, da incubo. Come già per il Nirvana-samsara, si dà equazione fra sogno e realtà nel suo farsi a-storico. Avvertiva Gerardus van der Leeuw (Fenomenologia della religione): "Dobbiamo riconoscere, anche fuori della posizione magica, la coscienza della realtà che si fa valere in questo modo. Il sogno si distingue dalla coscienza sveglia in tre punti: 1) 11 pilastro protettore della coscienza sveglia, tensione fra soggetto e oggetto, sparisce. 2) Il sogno dispone gli avvenimenti in modo asintattico, rispetto alla coscienza sveglia; ha una struttura diffusa, le sue immagini si raggruppano secondo l'emotività del soggetto, secondo i suoi timori e desideri. 3) II mondo del sogno resta severamente chiuso alla realtà diurna; è un mondo mitico, non ha né passato né avvenire". La purificazione preliminare al risveglio dell'Apocalisse-rivelazione non può prescindere dal travaglio onirico del tremendum suggerito dal rincorrersi dei "mostri". Ciascuno di essi è ben più d'una metafora allusiva; costituisce, propriamente, il "passaggio" rituale di una prova iniziatica, che si svolge simbolicamente all'interno della coscienza. L'Apocalisse di S. Giovanni, come si diceva all'inizio, è il dramma simbolico dell'anima che aspira a volatilizzarsi in spirito, secondo il procedimento alchemico del solve. Questa tensione escatologica, di ordine metastorico, è realmente il Dabar, la parola di Dio: è la "grande Iniziazione". É verbo efficiente, detto e valido una volta per sempre. É mito esemplare (e mythos significa, difatti, "parola"), perché inteso alla rigenerazione universale e non parziale, all'instaurarsi dell'ordine definitivo dell'Assoluto con la coscienza cristica. E il mito altro non è che la Parola stessa, "una parola pronunciata, che ripetendosi possiede la potenza decisiva" (van der Leeuw op. cit.). Il mito vivo si pone parallelamente alla celebrazione; è esso stesso una celebrazione, senza il rito cui è strettamente affine è destinato a degradarsi in lettera morta. Quando sia sentito come annuncio in azione, il mito è una realtà presente e vissuta, pura attualità permanente. L'Apocalisse è la dichiarazione ripetuta dell'avvenimento potente per eccellenza, l'apocatastasi o "rivolgimento" conclusivo della realtà universale nell'Immanifesto. Ma se la parola mitica - come ricordava ancora van der Leeuw - decide della vita, questa non deve essere identificata con la realtà ordinaria, la quale, essendo ricevuta, non abbisogna di decisione. Il mito non riceve nulla, celebra la realtà, ne fa quel che vuole, ne dispone secondo le proprie leggi. Basti un esempio: sopprime il tempo. Il mito prende l'avvenimento esemplare e lo incorpora al proprio dominio, ove diventa eterno e si produce ora e sempre; agisce tipicamente. Quel che in natura avviene ogni giorno, ad esempio il sorgere del sole, nel mito avviene una sola volta. Posta l'equivalenza fra mito e rito, conviene ricordare la brillante definizione dell'etnologo Malinowski: "I1 rito è la resurrezione celebrativa della realtà primordiale". E che altro è l'Apocalisse giovannea nella concezione cristiana se non mitica resurrezione dei corpi e giudizio ontologico? Mutato il linguaggio, la Tradizione (o philosophia perennis) si riafferma in ogni tempo. L'Apocalisse ricorda strettamente la psicostasia nel tribunale egizio di Osiride: anche qui non manca il mostro terribile, pronto ad annichilire l'anima del defunto. Questi, se assolto, veniva dichiarato Maa-Kheru, "giusto di voce", o - piuttosto - "colui che ha la giusta modulazione (creativa) della voce". Il ''giustificato" era destinato alla "solarizzazione" eterna, fattosi uno col suo Principio; gli altri, gli abietti, erano condannati alla distruzione ad opera del mostro poliforme. Il tema è costantemente presente nella religiosità d'ogni tempo e luogo; la storia comparata delle religioni ha più volte affermato la struttura iniziatica della "prova del giudizio" col relativo corollario di mostri e guadi. Mito òntico per definizione, l'Apocalisse giovannea si ricollega a tutto un filone antichissimo: l'èschaton. L'ultimità lega l'uomo al suo principio, alfa ed omega si ricongiungono nel cerchio Assoluto-relativo. Tale è la rivelazione, il significato ultimo dell'apokalyptein: i molteplici tornano all'Uno, gli enti alla fonte dell'unica Esistenza, che discese dall'Essere. Le creature cessano la loro peregrinazione nel tempo escatologico: non v'è più scelta individuale perché l'Assoluto chiama a raccolta tutta la sua manifestazione, il "giorno di Brahman" sfuma nella "notte di Brahman". Tutto si "dis-vela"; l'apokàlypsis rende evidente la verità intera dell'alètheia, la quale è anzitutto - la fine dell'oblio tenebroso, la rimemorazione dell'origine divina di cui s'era perduta la consapevolezza. Simboli, immagini mitiche a null'altro alludono: l'apocalittica si risolve in autocoscienza. E il circolo è conchiuso.
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