“andarà per le corti tra spiriti elevati et animi speculativi”

(Li tre libri dell’arte del vasaio)

 

di Giulio Vada

Un recente studio condotto da un team di ricercatori guidati da Bruno Brunetti dell’Università di Perugia e pubblicato ora sul Journal of Applied Physics (notizia riportata anche da Nature) getta nuova luce sugli smalti usati dai maestri vasai del XV-XVI secolo. La ricerca mostra come nel periodo rinascimentale si arrivò a praticare un’autentica forma di nanotecnologia. E’ grazie a questi studi - tra i quali vanno senz’altro ricordati anche quelli portati avanti dalla dr.ssa Giuseppina Padeletti e del suo gruppo di ricerca presso l’Istituto per lo studio dei Materiali Strutturati del CNR di Roma - si sono compiuti notevoli passi avanti nella comprensione del sofisticato processo che sta dietro alla creazione degli smalti, o “lustri”, che pare sfruttino le proprietà riflettive di minuscole particelle di metallo disperse nello smalto, con dimensioni tali da comportarsi come vere e proprie nanostrutture. I risultati dimostrano inoltre come tali risultati essere raggiunti solo grazie ad una sorprendente perizia chimica, apparentemente impensabile.

Le prime notizie sulle tecniche utilizzate da quei sapienti artisti (citiamo tra tutti il famosissimo Mastro Giorgio Andreoli di Gubbio) ci arrivano dalla paziente opera del Piccolpasso stesso che si dilungò minuziosamente nella descrizione dei lustri tanto famosi quanto misteriosi, nelle loro ricette, tenute rigorosamente segrete dai maestri artigiani. L’effetto iridescente di un lustro ebbe un impatto notevole nel Rinascimento, tale da ricadere appieno nel dominio della ricerca alchemica per la similitudine tra la produzione della ceramica a lustro e la cerca mitica della pietra filosofale (si pensi alle analogie tra le magnifiche iridescenze delle maioliche ed il susseguirsi dei colori nella Grande Opera alchemica).

L’arte ceramica “per suo principal fondamento ha due derivazioni, l’una vien dall’arte del disegno, l’altra dai vari secreti e mistioni alchemiche”: così scriveva, nel 1540, Vannoccio Biringuccio nel suo Pirotechnnia[1]. Queste sono le parole con cui la trattatistica cinquecentesca guardava all’umile arte dei vasai e che ben si sposano con l’opera più importante dello strano Cavaliere durantino Cipriano Piccolpasso o di chi si cela dietro a quello pseudonimo[2].

Cipriano nacque a Castel Durante (l’odierna Urbania) a cavallo tra il 1523 ed il 1524 da Michele e Alda Raffaelli. La sua biografia, tracciata dal Cecchini[3], è confortata da nuovi documenti che lumeggiano le sue attività a partire dal 1558, l’anno in cui assunse l’ufficio di vice-provveditore nella Cittadella di Perugia. Fu impegnato nel 1565 a rilevare piante e “ritratti”, stato di conservazione ed efficienza delle rocche e fortificazioni perugine sottoposte al governo dello Stato Pontificio, e nell’anno successivo, ad ispezionare le papali fortificazioni sulla costa adriatica per verificarne la resistenza nel caso di temuti attacchi dal mare da parte di Turchi e pirati, l’”empio brutto mostro” ricordato nei versi a c. 57 de “I Tre Libri” (pag. 185 nell’edizione italiana curata da Giovanni Conti[4]). Riportò i risultati di quell’indagine nell’opera intitolata “Le piante et i ritratti delle città e terre dell’Umbria sottoposta al governo di Perugia”. Vivendo a Perugia seppe guadagnarsi e mantenere la stima di quei governatori per la perizia dei suoi lavori e per l’ossequio che non mancò di dimostrare.  Prima ordinato Cavaliere dell’ordine di San Giorgio (1566), poi eletto membro della locale “Accademia degli Eccentrici” (1567) e cittadino onorario (1568), lo ritroviamo nel 1575 imprevedibilmente privato del suo ruolo, deriso e vilipeso per futili ragioni, e scortato fino al suo ritiro in Castel Durante. Fu chiamato, nello stesso anno, dai marchesi di Massa per l’ufficio di castellano della Rocca di Massa Carrara, ma dovette, nel 1578, tornare in patria, dove rivestì incarichi prestigiosi e altri lo avrebbero richiesto se la sua malferma salute non lo avesse costretto a declinarli. Morì a Castel Durante il 21 novembre 1579, lasciando senza figli la vedova Francesca. Sarà sepolto nella locale chiesa di S. Francesco.

La sua fama come scrittore si deve soprattutto al trattato “Li tre libri de l’arte del vasaio (1548) nel quale illustra i segreti di bottega del far ceramica della sua epoca e sul quale concentreremo maggiormente la nostra attenzione in questo articolo.

Nel Medioevo la ceramica era subordinata alle altre arti, come d'altra parte, alcune scienze ad altre scienze, in un assetto rigidamente gerarchico. E’ nel rinascimento che la ceramica acquista nuovamente importanza e dignità raggiungendo vette insuperate, senza contare che proprio in quel periodo l’Italia e più in generale l’Europa furono teatro di una rinascita senza precedenti dell’alchimia e della spagiria[5] ad opera di vari personaggi le cui vicende s’intrecciarono in vario modo, lasciando segni tangibili della loro presenza ed attività. Oltre a Piccolpasso, tra il XVI e XVII secolo contiamo parecchi nomi illustri nella nostra penisola: Mastro Giorgio Andreoli, il marchese Palombara, il marchese Francesco Maria Santinelli e Francesco Borri, solo per citarne alcuni tra i più conosciuti.

 

Li tre libri

 

L’opera s’inserisce a pieno titolo nella grande trattatistica del 1500 e di essa imita gli elementi caratteristici: sceglie, innanzitutto, un titolo prestigioso; chiude ogni libro con riflessioni moraleggianti; minia i capilettera con raffigurazioni mitologiche; mimetizza in alcune illustrazioni rime e musiche mostrando la sua versatilità come originale disegnatore.

Nel trattato sono spiegate dettagliatamente le fasi della produzione dei manufatti ceramici, le differenti tecniche costruttive, gli strumenti utilizzati e le diverse dosi degli impasti e dei colori. Il manoscritto è inoltre arricchito da tavole autografe che riportano con dovizia di particolari le tipologie decorative diffuse in quel periodo, oltre che da disegni che illustrano varie fasi della lavorazione e gli strumenti fondamentali del ceramista.

L’opera del Piccolpasso è stata così rilevante che ancor oggi nella zona di Gubbio per la produzione di maioliche di tipo tradizionale è prescritto l'uso della tecnica araba codificata da Cipriano Piccolpasso (anticamente chiamata "maiolica" ed ora conosciuta come "lustro ad impasto"), la quale  prevede una terza cottura a bassa temperatura e in atmosfera riducente di oggetti ceramici opportunamente preparati tramite l'applicazione di un impasto di determinati sali metallici[6]. E’ proprio in quest’ultima fase che il genio artistico si manifestava appieno, generando per mezzo di un’arte, affascinante e complessa, dei capolavori assoluti. Ricordiamo in particolar modo quelli di Luca della Robbia e, soprattutto, di Mastro Giorgio Andreoli. Di quest’ultimo il Piccolpasso dichiara, nel suo trattato, aver veduto applicare a Gubbio nella bottega di M. Cencio, il figlio di Mastro Giorgio, il “lustro”, una tecnica a quei tempi poco nota, difficile da applicare, che trovò origine nei secoli XIII-XIV per opera degli artisti islamici nella Spagna moresca, paese da cui anche l’alchimia si diffuse con rapidità nella nostra penisola e nel resto d’Europa. La ceramica moresca dai riflessi metallici, l’obra dorada, emulava l’oro per fissarlo sull’umile argilla. Nasceva la maiolica[7].

 

Riferimenti alchemici nell’opera del Piccolpasso

 

Per Cipriano Piccolpasso l'artigiano deve plasmare, rifinire e semmai distruggere per ricostruire e nuovamente limare in un “circhulo”, in un movimento circolare, che tende alla perfezione. Per lui l'arte della ceramica rappresenta un mezzo per dominare i quattro elementi: terra, acqua, fuoco e aria per raggiungere appunto la “circhulare perfetione”. Così Ovidio nel primo libro delle Metamorfosi ci parla della nascita dell’uomo, plasmato dalla terra. Anche nella Bibbia Dio crea l’uomo con la polvere della terra. In uno dei testi più celebri della letteratura alchemica, l’Atalanta Fugiens, il medico tedesco Michael Maier apostrofava così il discepolo: “Opus figuli, consistens in sicco et humido, te doceat[8].

E’ davvero singolare questo trattato del Piccolpasso, che fin dalle prime pagine offre allo studioso attento seducenti analogie con l’opera positiva all’athanor. Già nel sottotitolo la chiave di tutto:

 

” Nei quai si tratta non solo la pratica

Ma brevemente

Tutti gli secreti di essa

Cosa che persino al dì d'oggi

E’ stata sempre tenuta ascosta.”[9]

 

Ma quali sono i secreti cui allude il nostro autore? Il suo scritto è ricco di simboli ed allusioni, che hanno poco a che vedere con la semplice descrizione della pratica artigianale e che tradiscono una sua affiliazione ermetica. Altri indizi a supporto della veridicità di questa affermazione li dobbiamo al leggendario alchimista Fulcanelli[10] ed al suo discepolo Eugène Canseliet[11], che nelle loro opere ne parlarono diffusamente.

Fin dal prologo ai lettori il Piccolpasso ci tiene a precisare di non avere gran competenza nell’arte della ceramica ed è probabilmente per questo motivo che non si sente obbligato alla segretezza, che legava invece botteghe e artisti tra loro:

"Se costoro mi trovano autore che facci li segreti di dett'arte, eccetto certe regolette che tengono coloro che segretamente la maneggiano (tra' quali molti sono che per fin'all'ultimo della lor vita li tengono celati ai propri figliuoli, e, conoscendosi vicini al morire, tra le altre facultà che lassano, chiamato a sé il maggiore e più avveduto figliuolo che abbiano, a quello pubblica questo segreto); se essi me la trovano detta d'altrui, io me gli rendo vinto"[12].

 

Il piccolo disegno che adorna il frontespizio dell’opera (fig. 3), indica l’indubbio interesse del Piccolpasso per l’alchimia (o Arte sacra, come la chiamavano gli alchimisti ellenistici). Troviamo raffigurata una colomba con le ali spiegate mentre solleva una pietra cui è saldamente legata. S’intende facilmente, da quest’immagine, l’azione risoluta dello spirito volatile sulla materia pesante, che, trasposta su di un piano operativo, indica la sublimazione alchemica, un’operazione diretta alla purificazione della materia.

L’azione, d’altronde, è reciproca: la colomba è trattenuta a terra e le viene impedito di fuggire. Si vede che non riesce a prendere il volo. Ciò suggerisce simbolicamente che il prodotto di quest’operazione deve restare all’interno del vaso che lo contiene senza fuoriuscirne, pena il fallimento di tutta l’opera fisica[13]. Un filatterio, posto sopra l’immagine, ne completa il senso: esso reca l’iscrizione IMPORTUNUM[14], ad indicare le difficoltà materiali dell’impresa ed in generale di tutta l’Opera.

Questa pietra, così generosamente posta all’attenzione del lettore, è in definitiva il risultato dell’opera del vasaio-demiurgo che si adopera per infondere la forma alla materia grezza iniziale.  

Nel proseguire con la nostra analisi balza subito agli occhi la croce fiorita (probabile ricordo fiero del cavalierato guadagnato a Perugia nel 1566), che sovrasta il titolo e che, nella tradizione ermetica, rappresenta il crogiolo (dal francese antico croiset, crucible termini legati a croix, crux, vale a dire la croce), di notevole importanza nella Via Secca o Via del Crogiolo, con riferimento al recipiente in cui si portano a termine i diversi lavori: separazione, calcinazione, distillazione, sublimazione, coagulazione e cottura. Secondo le regole della cosiddetta cabala ermetica (che gioca argutamente con le parole cavalla, cavallerizzo, cavaliere[15]) crocifiggere riporta letteralmente all’idea del crogiolo da laboratorio.

Le coincidenze con l’alchimia, però, non finiscono qui. I materiali ed i processi descritti dal Piccolpasso, ad esempio, erano implicati negli esperimenti alchemici dell’epoca. In particolare, la smaltatura, l’ultimo dei procedimenti per la confezione della maiolica dopo la foggiatura dell'impasto argilloso, la sua essiccazione e la cottura a biscotto, presentava aspetti quantomai misteriosi. Per la fabbricazione degli smalti era necessario utilizzare della silice (sabbia), cui si aggiungeva dei fondenti per ridurne la temperatura di fusione, in caso contrario notevolmente più alta. I fondenti a disposizione a quei tempi erano gli alcali ed il piombo. I primi, ottenuti dal tartaro raccolto nelle botti di vino (tartaro di vino), erano mescolati con la sabbia, mentre il piombo era fuso con la silice combinandosi per dare un silicato di piombo, ossia un vetro a basso punto di fusione, comunemente chiamato vitrum romanum. Il tartaro specialmente era stimato come valida alternativa al salnitro (sal petra o sale della pietra) per le sue interessanti proprietà.

Le sostanze utilizzate nelle ricette del Piccolpasso non si limitano alle suddette. L’uso dell’arsenico, ad esempio, o più esattamente un suo famoso sale, l’”orpimento”, era molto comune. L’ossido di stagno veniva calcinato congiuntamente al piombo in proporzioni variabili, generalmente quattro o sette parti di piombo per una di stagno, per ottenere il cosiddetto stagno accordato. Piccolpasso precisa che "il piombo fa lustro, lo stagno fa bianco", così come descritto precedentemente tra l'altro nel Pretiosa Margarita Novella del medico lombardo Pietro Bono, trattato alchimistico del 1330, ancora molto noto all'epoca del Piccolpasso tanto da essere ristampato a Venezia nel 1546[16]. Non dimentichiamo poi l'antimonio (in particolare il suo solfuro naturale, la stibina, che fatta reagire con il ferro dà origine al regolo d'antimonio marziale[17]) che sarà celebre fino ai giorni nostri per essere considerato da molti la materia di partenza per la ricerca della Pietra Filosofale.

Alla luce di queste considerazioni, acquistano un senso diverso le parole usate ad un certo punto dal Piccolpasso nel ritrarre la sua amata, la Dama dei suoi pensieri, l’emblema perfetto della Materia dell’Opera, parole che sembrano tradire in realtà ben altre preoccupazioni:

“Questo, dico, è intervenuto a me, perché quanto più ho cercato levarmi dai pensieri amorosi, con accordare un piombo e uno stagno, nell’animo bene e spesso le membra proporzionate della mia bella amata andava accordando, né colore sapeva io trovare per lustro, per fiammeggiante ch’egli si sia, che alle sue belle chiome di oro assomigliare si possa, né vi è negro che alle belle ciglia di lei non resti inferiore. Gli occhi suoi divini con quel di allegro e di grato ch’entro vi si vede mescolato con una certa venerabile maestà non ha di mestier somigliarsi ad altro che agli scintillanti raggi del sole. Quando io veniva allo accordo del Duca di Ferrara che somiglia l’argento, appresso alle morbide braccia e alla delicata mano di lei, parevami questo negro ruvido e rozzo, io non so trovar insomma arte né di diligente orefice, né di perito zoellieri, che giunta al sommo di ogni eccellenza e di ogni pregio, nell’animo recarmi possa quel contento che fa il suo dolcissimo e mansueto riso. Lascio stare il santissimo pudore, la gravità dello andare”[18].

Altri riferimenti ermetici sono sparsi nel trattato ed al lettore curioso, indichiamo ancora un ultimo motivo, visibile alla penultima pagina di questa opera allegorica, che ci mostra un albero ricco di foglie e frutti che spunta da una roccia isolata e priva di terra (fig. 4). Sopra l’albero vi è un filatterio in cui sono inserite tre parole latine a commento del fenomeno, ma che non facilitano di molto la comprensione del disegno simbolico:

 

“Sic in sterili”

“Così nello sterile”

 

Nell’iconografia alchemica, come rileva lo stesso Canseliet[19], la roccia arida che nutre e sostiene l’albero rigoglioso indica il soggetto minerale dell’Opera così come si estrae allo stato primordiale dalla sua miniera. Da questa pietra spunta per azione congiunta dell’Artista e della Natura, una forza vitale che rianima l’albero. Il Piccolpasso completa e dà risalto al significato esoterico dell’immagine con la legenda posta a conclusione:

“Io vi ho posto, qui per scontro, nel fin di questa mia fatiga, la Terra di Durante, patria mia, la qual fo già edificata da Guglielmo Durante decano di Chieretere. Questa è bagniata da tre lati dal fiume Metauro. Di qui, non lontan un miglio, vedesi il Barco, circondato di mura at­torno attorno, pieno di diversi animali. Quivi fanno delicati vini, sa­poriti frutti; l'aria è assai temperata. Quivi, da dua bande, si estende un’amena pianura che da l’una ariva alla radice dell'Apenino et da l'altra si bagnia nel mare Adriatico.”

A proposito della terra di Durante, Canseliet riferisce di alcune note che Fulcanelli appuntò a margine del brano precedente sulla copia che possedeva:

 

“E’ l’albero che parla:

Metauro. Meta = limiti, confini

Auro = oro

Chiere Tere = che cerca la terra coltivabile” [20].

 

Lasciamo al lettore il compito di approfondire con calma queste parole.

Vorrei terminare questa panoramica sulle assonanze alchemiche nell’opera del Piccolpasso ancora una volta con il Maier che, in un epigramma dell’Atalanta Fugiens riassume così l’arte del vasaio:

“Guarda come il vasaio foggia veloce i suoi vasi, gira col piede la ruota[21] e mischia con l’acqua l’argilla. In entrambe ripone la sua fiducia e la sua arte consiste nel giusto rapporto delle due sostanze. Se farai altrettanto imparerai che nessuna delle due dovrà sopraffare”[22]. Il filosofo, continua il Maier, dovrà imitare il vasaio mescolando nelle giuste proporzioni il secco e l’umido, cioè la terra e l’acqua. Poi aggiungerà il Fuoco per cuocere la sua materia finché acquisti una durezza apprezzabile e si trasformi in una pietra capace di resistere al fuoco ed all’acqua.

Rivolgiamo a tutti coloro che ci hanno seguito fin qui pazientemente, lo stesso augurio che  Piccolpasso espresse qualche secolo addietro:

 

State sani.

 


 

 

[1] V. BIRINGUCCIO, Pirotechnia. Li diversi libri della Pirotechnia, Venezia, 1540, p. 177. Nel "Pirotechnia” viene descritto l´uso di forme e calchi connesso con l´attività dei fonditori di metalli e vasi impiegato nell´arte fusoria.

[2] Il nome dell’autore stesso nasconde alcune curiosità cabalistiche, infatti, Cipriano o Cyprian riprende Cypris (Cipro) nient’altro che l’antico appellativo di Venere, moglie di Vulcano, dagli innumerevoli significati mito-ermetici. “Piccolpasso” inoltre suggerisce argutamente il modo di procedere, per piccoli passi appunto, nell’Opera alchemica.

[3] G. Cecchini, Cipriano Piccolpasso: Le piante ed i ritratti delle città e terre dell’Umbria sottoposte al governo di Perugia, Roma, 1963

[4] G. Conti in Piccolpasso, Li tre libri dell’arte del vasaio, Firenze, 1976.

[5] Dal “Dictionnaire Mytho-Hermétique” dell’abate benedettino Pernety leggiamo che la spagiria è la “scienza che insegna a dividire i corpi, a risolverli e a separarne i principi”.

[6] “Disciplinare di produzione della ceramica artistica e tradizionale di Gubbio”, Disciplinare approvato dal Consiglio nazionale ceramico del 29.03.2000, AiCC (Associazione italiana Città della Ceramica).

[7] Il nome deriva dall’isola spagnola di Maiorca nel mediterraneo occidentale. Fu coniata ed utilizzata da Dante nella Divina Commedia.

[8] “Che l’opera del Vasaio, composta di secco e umido, t’insegni".

[9] Cipriano Piccolpasso, Li tre libri dell’arte del vasaio, Edizioni del Giglio, Firenze, 1976.

[10] Fulcanelli, Le Dimore Filosofali, Edizioni Mediterranee.

[11] E. Canseliet, Due luoghi alchemici, Edizioni Mediterranee.

[12] Cipriano Piccolpasso, op. cit.

[13] E. Canseliet, L’alchimia, vol. II, Edizioni Mediterranee, pag. 140

[14] Nel suo significato originale si può tradurre con inaccessibile, impraticabile, ma vuol dire anche gravoso, il

che rende perfettamente l’impegno necessario al lavoro al forno.

[15] Dal francese: “cavale, cavalier, chevalier”. In italiano si traduce con cavalla, giumenta. In latino, la parola cabala diventa caballus, cavallo da soma che, come sostiene Athorène “sostiene la soma di verità esoteriche da essa trasmesse attraverso i secoli”.

[16] Vedi introduzione e note di C. Crisciani alla Preziosa margarita novella, Firenze 1976.

[17] La solidificazione del regolo marziale provoca l’apparire, in superficie, di una figura stellata.

[18] Cipriano Piccolpasso, op. cit.Libro Secondo.

[19] E. Canseliet, L’Alchimia, op. cit., vol. II, pag. 141.

[20] E. Canseliet, Due luoghi alchemici, op. cit.

[21] E’ proprio il movimento del tornio che ci riporta a quello slancio rotatorio che genera il fuoco di ruota degli alchimisti, di  cui il Filalete, uno dei più discussi alchimisti del 1600, associandolo allo Zolfo segreto dei filosofi ermetici, dice: “E’ evidente, quindi, che questo zolfo spirituale metallico è realmente il primo agente che dirige la ruota, e fa, in cerchio, girare l’asse” (Ireneo Filalete, Introitus Apertus ad Occlusum Regis Palatium, Cap. X,IV).

[22] M. Maier, Atalanta Fugiens, Epigramma XV.

 

Indice

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