Dovessimo dare una definizione di alchimia e
fossimo taoisti, non avremmo problemi: sarebbe
ovvio che si tratta di un’arte che mira
all’immortalità di chi la pratica, a divenire
xen ren.
Altrettanto facile e spontanea sarebbe la
risposta per un indiano, buddista tantrico o
shivaita: una via che conduce allo stato di
jîvanmukti, il liberato in vita.
Un islamico sunnita ortodosso forse avrebbe
qualche difficoltà, ma se shi’ita, la
definirebbe con semplicità come un metodo per
entrare in contatto col divino. Avicenna
direbbe, con l’intelletto attivo.
Infine uno junghiano sosterrebbe che si tratta
di un sistema per integrare i contenuti
dell’inconscio collettivo nella psiche conscia e
sanare così la propria mente.
Nell’Occidente cristiano invece la definizione
tradizionale ed ufficiale, sin dall’epoca più
antica, è più banale e meno eterea. Si può
enunciare brevemente: l’alchimia è l’arte che
permette di fabbricare oro o argento, o, se si
preferisce, di transmutare in metallo nobile
quelli di minor valore. Solo verso la fine della
sua breve e stentata esistenza ai margini della
cultura europea, e sempre con molta prudenza, si
trovano accenni ad una Pietra Filosofale non
solo transmutatoria, ma anche benefica per il
corpo dell’uomo, la Panacea Universale.
Dunque in Europa con alchimia si intende
qualcosa di molto pratico, molto profano, e
questa visione è ancora più netta agli inizi del
XVI secolo, quando Paracelso compare sulla scena
del mondo. Anzi, delle due definizioni sarà
proprio lui ad enfatizzare la seconda, senza
trascurare l’altra, sostenendo nel “Paragrano”,
da medico quale era:
Lo scopo dell’alchimia non è, come si è detto,
fare oro o argento, ma dare arcani e dirigerli
contro le malattie: questo è il risultato, ed è
anche la base.
E, coerentemente, nel “Labirinthus Medicorum
Errantium”, intitola il V capitolo: Il libro di
alchimia, senza la quale nessuno può essere
medico. D’altra parte sembra indubbio che
Paracelso con questo termine intenda la
preparazione di medicine per le varie malattie.
Si tratta di una definizione esclusivamente
farmaceutica che ha, rispetto a quelle più
metafisiche, o “esoteriche”, il vantaggio di
essere molto chiara, e, se vogliamo, anche molto
moderna.
La particolarità consiste piuttosto nel fatto
che, come si è sostenuto, Paracelso pare
attribuisca più importanza al metodo di
preparazione che non alla natura della sostanza
di partenza o del preparato finale. Non è
proprio esatto, ma è certo che nella sua teoria
la preparazione ha un valore speciale.
Il suo sistema terapeutico si basava sulla
convinzione che nelle singole sostanze naturali,
i semplici, esistessero potenti energie in grado
di agire sugli organi dell’essere umano o sullo
specifico malanno. Il problema consisteva nel
saperle ricavare, per arte separatoria, cioè
spagirica, dalla componente grossolana,
escrementizia nel linguaggio paracelsico, per
ottenerle in tutta la loro purezza e virtù: in
ciò la base dell’arte alchemica, cioè, come ho
detto, nella preparazione.
In termini moderni, oggi diremmo che aveva
individuato l’esistenza dei “princìpi attivi”,
gli arcana, e il problema della loro estrazione,
e che questo chiamava “alchimia”.
D’altra parte, Paracelso era ossessionato
dall’idea stessa di escremento. Non solo ne
parla continuamente – tutto questo mondo per lui
è escrementizio – ma anche tutta la sua
patologia si fonda sull’idea che il corpo si
ammala solo quando non è più in grado di
espellere perfettamente, in un modo o
nell’altro, gli escrementi, cioè le parti
grossolane del nutrimento, compresa l’aria
respirata. La cura consiste perciò, sempre,
nell’eliminazione di questi elementi estranei, o
dal singolo organo o dal corpo nel suo
complesso.
Per ottenere questo risultato, data la
convinzione che il corpo umano ha già in sé la
capacità di curarsi, cioè di liberarsi del male
eliminando le parti grossolane estranee, si deve
trovare il modo che restituisca vigore
all’organo o al complesso umano. Ancora, in
termini moderni, un po’ anacronisticamente,
potremmo dire che la medicina paracelsica
consisteva nel rafforzare il sistema immunitario
perché provvedesse da solo alla guarigione.
A questo punto potremmo già tentare una
conclusione: Paracelso fondatore di una
farmaceutica protochimica, certo in anticipo sui
tempi, ma assolutamente ben poco “esoterica”.
In realtà l’occulto, o l’esoterico, espulso da
un lato, rientrava dall’altro. Paracelso non
poteva non essere uomo del suo tempo, come si
vede nel metodo impiegato per riconoscere la
sostanza più adatta da utilizzare caso per caso
come medicinale.
Qui introduce ragionamenti piuttosto
sconcertanti, come l’analisi astrologica, la
forma simbolica del semplice, la sua “simpatia”
con altri corpi, secondo catene analogiche o
occulte che peraltro troviamo diffuse in tutto
il medioevo. I suoi seguaci ci hanno lasciato
testi fitti di tabelle in cui si collegano,
secondo sistemi di corrispondenza che lasciano
perplessi e sbalorditi, organi umani, pianeti,
vegetali e minerali.
Scopriamo così che la vescica biliare è legata a
Marte, e di seguito ad ametista, cane, lupo,
aquila, aglio, cardo ed elleboro. L’apparato
urinario si connette a Venere, ambra,
lapislazzuli, smeraldo, asfodelo, coriandolo,
miglio, viola, capra, vitello, colomba e pernice
. E così di seguito.
Non credo sia possibile riconoscere una qualche
logica sensata in queste successioni
sgangherate, ma si deve ammettere che è l’unica
“stranezza” della sua dottrina.
Per il resto le sue preparazioni sono molto
ragionevoli. Per lo più si tratta di semplici
operazioni chimiche che tendono tramite
l’attacco di solventi, per lo più acidi, a
trasformare la sostanza presa in esame in forma
salina, perché poi sia più facilmente
assimilabile dall’organismo umano. Naturalmente
in mancanza di una qualsiasi conoscenza chimica
corretta il risultato spesso era, e non poteva
che essere, o un sale in realtà inutilizzabile,
nel caso di sali metallici, o molto spesso, per
i sali vegetali, semplicemente del carbonato di
calcio o di potassio ottenuti in tutti i modi
possibili. Altrettanto evidente il fatto che le
sue preparazioni erano ben lungi dall’essere
“pure”, anzi, probabilmente contenevano tutto
l’immaginabile.
Vediamone un esempio da un testo, l’“Archidoxis”,
considerato uno dei più importanti nella sua
pratica. Lo si data al 1525-26, fu pubblicato
per la prima volta nel 1568 ed è probabilmente
autentico, il che non si può dire per la maggior
parte delle altre opere che gli furono
attribuite. Qui, dopo una nota preliminare sulla
necessità di una buona apparecchiatura, lavoro
diligente, esperienza solida nell’arte, inizia a
spiegare la chimica della separazione.
Prima di tutto prepara un’acqua forte così:
prendi parti eguali di allume, vetriolo e
salnitro. Distilla sino ad un’energica acqua
forte. Versa sulla parte che è rimasta e
ridistilla in una cucurbita di vetro. In
quest’acqua forte purifica dell’argento, e poi
dissolvivi del salmiax. Dopo che questo è stato
fatto separalo in un bagno d’acqua e versalo di
nuovo finché alla lunga si trova un olio in
fondo, dall’oro un olio molto scuro,
dall’argento azzurro lucente, dal ferro rosso o
molto scuro, dal mercurio molto bianco, dal
piombo color plumbeo, dal rame un verde intenso
e dallo stagno giallo.
Si precisa che non tutti i metalli si possono
ridurre in olio in questo modo: alcuni
richiedono una preparazione precedente, come il
mercurio che va sublimato, il piombo calcinato,
il rame trasformato in fiori di rame (cioè nel
solfuro), il ferro nel suo croco (cioè nel suo
ossido), lo stagno va riverberato, ma l’oro e
l’argento danno risultati immediati.
Non è sempre chiaro che tipo di prodotto si
potesse ottenere. L’oro avrà formato il suo
cloruro e questo si accorda col colore ottenuto.
L’argento avrebbe dovuto dare una miscela di
nitrato e cloruro, che è senza colore, ma la
piccola percentuale di rame, che si trova di
solito in tutti i campioni d’argento non
purificati chimicamente, potrebbe spiegare il
colore azzurrino. I composti di mercurio
dovrebbero essere incolori. Comunque tutti i
composti avrebbero dovuto variare
considerevolmente in funzione della
concentrazione dell’acido usato e delle
condizioni della reazione
Il passo successivo consisteva nell’aggiunta
all’olio, ottenuto nel modo precedente, di due
parti di acqua forte per poi lasciare il tutto a
riposare per un mese in sterco di cavallo, cioè
lasciarlo digerire ad una temperatura
leggermente superiore a quella atmosferica.
Ovviamente questo avrebbe schiarito il liquido
facendo depositare ossidi o idrossidi lasciati
dal primo processo. La preparazione prosegue:
Poi distilla a fuoco lieve in modo che la
materia coaguli in fondo. E l’acqua forte che
sale, distillala per bagno maria: allora tu
troverai uniti due elementi. E non gli stessi
due elementi in tutti i metalli, ma dall’oro
rimangono nel bagno gli elementi di terra e
acqua. L’aria è in tutti e tre e l’elemento
fuoco rimane in fondo, dato che la sostanza e la
tangibilità dell’oro è coagulata dal fuoco.
Dall’argento rimane in fondo l’elemento acqua,
nel bagno gli elementi di terra e fuoco, dato
che la sostanza e la corporeità dell’argento
deriva dal freddo e umido ed è di una natura
fissa e non si può innalzare. Dal mercurio…
La separazione finale è così descritta:
Ora si deve notare che il restante, cioè
l’elemento corporeo in fondo, va ridotto di
nuovo in olio con nuova acqua forte con un
bagno. Allora questo elemento è completo e
perfetto. E prendine una parte…
Paracelso pensava in questo modo non di
ottenere, come in realtà invece avveniva, dei
composti salini dei corpi trattati, ma di
estrarne la parte attiva, vigorosa e pura, che
chiama quintessenza del corpo. Appare molto
chiaramente nel capitolo III dello stesso libro,
dove dà una definizione piuttosto estesa di cosa
intende con questo termine:
La quintessenza è una materia che si estrae
fisicamente da tutte le cose e da tutte le cose
in cui si trovi vita, separata da tutte le
impurità e da tutto ciò che è mortale, resa
sottile e purificata da tutto, separata da tutti
gli elementi. Ora si deve capire che la
quintessenza da sola è la natura, potenza, bontà
e medicina che è racchiusa in tutte le cose
senza incorporazioni estranee, inoltre può
essere il colore, la vita e la proprietà della
cosa, ed è uno spirito, come lo spirito di vita,
con questa differenza che lo spirito di vita
della cosa è permanente e lo spirito di vita
dell’uomo è mortale.
Comunque queste non erano le “medicine” più
potenti. C’erano ancora gli arcana, che
rappresentano in qualche modo il non plus ultra
delle possibilità farmaceutiche. Ne parla nel IV
libro, dove li definisce in questo modo:
Quello solo è un arcanum che è incorporeo ed
immortale, possiede vita eterna, e supera la
comprensione della natura e la conoscenza
dell’uomo. Essi hanno il potere di alterare,
cambiare e rinnovare, restaurare, come gli
arcani di Dio, secondo il loro giudizio.
Ci sono quattro arcana: quello della prima
materia, che rinnova la giovinezza, quello della
pietra dei filosofi, che muta il corpo umano
come il fuoco pulisce quello della salamandra,
il mercurius vitae che fa ricrescere denti e
capelli, e la tintura che fa oro dall’argento e
leva la corruzione dall’uomo.
Non ci si lasci ingannare dal nome suggestivo e
dalle proprietà fantasiose: siamo ancora in
presenza di preparati chimici piuttosto banali,
anche se un po’ stravaganti. Lo vediamo, per
esempio, dalla descrizione di come si può
ottenere uno degli arcani più potenti. Lo si
prepara dal mercurius essensificatum, cioè dal
mercurio molto purificato, che viene in seguito
sublimato con antimonio sino a che entrambi
evaporino e “diventino un’unica cosa”, cioè
formino un composto (in questo caso una specie
di amalgama) nel raccoglitore dell’alambicco. Il
prodotto è ridissolto su marmo e coagulato
quattro volte. Questo procedimento darebbe il
mercurius vitae che conforta in vecchiaia.
Potrei proseguire, parlando ancora dei
magisteri, degli elixir, dei circolati, ma mi
sembra che questi esempi bastino a dare un’idea
dell’alchimia di Paracelso.
Che sia “vera” alchimia o no, ognuno lo decida
secondo la definizione che vorrà dare a questo
termine. Come abbiamo visto, le alternative ci
sono e piuttosto ampie. Il vero merito del
medico svizzero fu quello di aver dato inizio ad
un processo di modernizzazione della
farmaceutica antica, di cui risentiamo benefici
ancora oggi.
Subito dopo la sua morte i suoi ammiratori
iniziarono una serie di studi e di
sperimentazioni sempre più precisi, nell’esame
di possibili composti chimici che potessero
servire a curare la varie malattie. Un secolo
dopo cominciano a comparire i grandi trattati di
Glaser, Lemery, van Helmont, per non citare che
i più famosi. Boyle e più tardi lo stesso
Lavoisier dovranno riconoscere a Paracelso il
merito di averli indirizzati sulla via di una
nuova scienza chimica.
Ancora oggi, sfrondati dalla terminologia
immaginifica e un po’ occultistica, come ho già
notato più volte, ci serviamo di concetti
paracelsici nello studio della nostra farmacopea
più avanzata.
Quindi, in conclusione, se Paracelso sia stato
“alchimista” mi pare una discussione peregrina;
ma che sia stato medico di grandi intuizioni e
chimico abile e attento sperimentatore, questo è
indubbio. Anche se la maggior parte dei suoi
medicinali erano probabilmente inefficaci, e
forse talvolta – specialmente quelli mercuriali
– più nocivi che salutari, resta la visione
originale che predispose il terreno alla nascita
di una nuova dottrina e di nuovi sistemi
terapeutici.
Per questo, ritengo, è ancora oggi ammirato e
studiato da tutti gli storici della scienza.
Il documento che presentiamo ai nostri graditi Ospiti è opera d'ingegno
del carissimo
Fratello Paolo Lucarelli.
Ogni diritto è riconosciuto.
©
Paolo Lucarelli
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