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DOCUMENTO
È innegabile che a
far la perennità della chiesa è il sacerdote che, davanti alla
pietra sacra del suo altare – quella angolare e dei veri
costruttori – con il santo sacrificio della Messa, rende a Dio
lo stesso culto supremo che l’alchimista pratica con costante
attenzione presso il suo athanor in attività. Tutti e due
perseguono la stessa ricerca di quella grazia divina che è
indispensabilmente necessaria alla salvezza dell’uomo ed
essenzialmente gratuita; tutti e due si dedicano, sebbene su
materiali diversi, all’elaborazione segreta dell’agente fisico e
tangibile di rinnovamento spirituale.
Quanto ha torto la leggenda popolare che vuole che l’alchimia
consista unicamente nella produzione artificiale di oro
metallico, quando il suo scopo principale è la scoperta della
Medicina Universale che è la sola dispensatrice del triplice
appannaggio della conoscenza, della salute e della ricchezza!
L’ostia è la replica accessibile ai più di questa Medicina
sovrana, e non è certo senza motivo che i cristiani orientali
designano i frammenti del pane eucaristico col nome di carboni.
Per loro, Cristo è il carbone vivente, così come per gli
alchimisti, la gemma scintillante ottenuta dalla Grande Opera, è
il carbonchio dei Saggi (carbunculus, piccolo carbone).
Non sarà stato con questo carbone, con questo sasso ardente, che
furono toccate le labbra di Isaia?
«E uno dei Serafini volò verso di me con in mano una piccola
pietra che aveva preso dall’altare con delle molle.
E toccò la mia bocca e disse: “Ecco che questo tocca le tue
labbra, e la tua iniquità sarà distrutta e il tuo peccato sarà
purificato”» [1].
Questa è proprio la Medicina che il prete assorbe durante la
Messa, per il bene di tutti i fedeli, come lo stesso alchimista,
diventato adepto, la prenderà sotto un’altra forma, per
esercitare la charis che resta il più elevato dei doni
spirituali, secondo i molteplici significati del vocabolo greco.
In un linguaggio tanto bello quanto profondamente umano, ecco
cosa ci dice san Paolo su questa virtù che deve essere l’unica
guida del prete e del filosofo: «Se io parlo le lingue degli
uomini e degli Angeli, ma non ho la charis, sono come un rame
che risuona o un cimbalo che rimbomba. E quando avessi
conosciuto la profezia e avessi studiato ogni mistero e ogni
scienza; e avessi la fede completa così da trasportare le
montagne, ma non avessi avuto la charis non sarei nulla». (Prima
Epistola ai Corinzi, cap. XIII).
Presso i Greci cristiani, l’ostia era il
Δωϱον, Doron, cioè il
Dono, vocabolo che designa precisamente, nelle migliori opere
ermetiche, la Pietra filosofale spinta al suo ultimo grado di
perfezione. [...]
All’Offertorio, con il quale la Messa comincia veramente, il
sacerdote, con le due materie del sacramento dell’Eucarestia
effettua la doppia operazione che l’alchimista realizza nel
corso della prima opera e che consiste nell’oblazione della
terra e del mercurio, per separarli e purificare il secondo
raddoppiandolo.
La consacrazione di queste due specie corrisponde alle
sublimazioni che compongono, insomma, tutta la seconda opera e
che Filalete, in particolare, ha chiamato le aquile volanti,
perché allora si produce l’elevazione delle parti sottili e
mondate alla superficie del composto.
A questo proposito, ecco cosa rileviamo nell’inestimabile
trattato [2] del misterioso Adepto inglese: «Sappi, Fratello,
che l’esatta preparazione delle Aquile dei filosofi è ritenuto
il primo grado della perfezione, che deve essere conosciuto e
per il quale è richiesta un’intelligenza appropriata ...
Comprendi dunque, Fratello, le parole dei Saggi, quando scrivono
che le loro Aquile debbono essere condotte a divorare il Leone,
delle quali più il numero è insufficiente, più il combattimento
è rude, così come la vittoria è ritardata; ora, l’opera è
eminentissimamente resa perfetta dal numero di sette o di nove».
[3]
La mescolanza sorta dal sangue e dall’acqua che fece sgorgare il
colpo di lancia di Longino nel seno di Cristo, riceve poi il
corpo resuscitato, in un mistione perfetta. Questa è uguagliata
soltanto nel rebis degli alchimisti (res bis: due cose) grazie
alla dissoluzione radicale della minuscola remora in seno al
mercurio filosofale, che ricorda lo strano pesce dei cristiani
perseguitati, cioè l’Ichtus simbolico delle catacombe romane.
Lo strumento principale dell’elaborazione misteriosa nella
chiesa è il calice, di cui pertanto non ci sembra inutile
evocare il ruolo indispensabile durante la celebrazione della
Messa.
La coppa di questo vaso sacro deve essere in oro o in argento
dorato all’interno, si tratti per questa dell’oro metallo, o per
quella dell’alchimista, dell’oro celeste o cristico, che è di
colore verde. In spessore molto sottile, o in fusione limpida,
l’oro fisico mostra, in trasparenza, la stessa colorazione.
Perciò i più antichi alchimisti, nella loro notazione grafica,
raffiguravano il verde con il monogramma del Salvatore, cioè con
il crisma che è formato dal
Χ (Chi) e dal
ρ (Rho), entrambi
consonanti dei vocaboli
Χρυσός, Chrysos, oro e
Χλωρός, Chloros,
verde.
Il sacerdote compie così la fase essenziale e segreta del suo
magistero, grazie al calice il cui equivalente alchemico è il
ricettacolo di natura, intagliato con molta abilità nello
smeraldo dei filosofi, esso stesso velato, dai vecchi autori,
sotto l’espressione di flos coeli e con il termine nostoc.
Vi opera la consacrazione e la susseguente mescolanza del pane e
del vino, come Gesù Cristo al momento della Cena nel vaso
tradizionale che fu piamente raccolto da Giuseppe d’Arimatea. La
leggenda secondo cui il Graal sarebbe stato foggiato in uno
smeraldo staccato dalla fronte di Lucifero (Lux, lucis et fero;
porto la luce) nell’istante della caduta dell’angelo ribelle
dalle sfere della luce increata, simboleggia positivamente
l’origine e la destinazione di questa materia spirituale.
Lucifero è la stella del mattino, la Venere dei Saggi che porta
sulla sua corona quel sale smeraldino tanto prezioso per
l’artista e velato, da Basilio Valentino, il sapiente
benedettino di Erfurth, a causa della rassomiglianza, sotto il
vocabolo vitriolo. L’ortografia francese antica, vitryol invita,
malgrado tutto, all’interpretazione anagrammatica: l’or y vit,
l’oro vi vive; come a dire che il sole filosofico si è
incorporato nello smeraldo meraviglioso [...].
Obbedendo rigorosamente alla stessa ragione scientifica,
l’officiante porta sull’alba (il mattino) – camice lungo e
bianco – la stola (la stella) che è una fascia di stoffa
incrociata ad X sul petto e che in tal modo mostra la figura
semplificata dell’irradiamento stellare che segna, con il suo
sigillo la materia canonica.
«E colui che avrà vinto e avrà conservato le mie opere sino alla
fine, io gli darò il potere sulle nazioni,
«E egli le governerà con una verga di ferro, ed esse saranno
infrante come un vaso di coccio,
«E come io stesso ho ricevuto il potere da mio Padre; e gli darò
la stella del mattino». [4]
La stella appare all’artista come la certezza e il punto di
partenza delle sue operazioni manuali, e non altrimenti per il
prete che, più precisamente, porta il manipolo fissato al
braccio sinistro. Quest’ornamento è destinato a ricordare le
delicate manipolazioni della santa Messa, che conducono alla
miracolosa transustanziazione che è la più esatta immagine della
trasmutazione alchemica. Come in ciascun frammento della Pietra
Filosofale si trova integralmente lo Spiritus mundi, allo stesso
modo ciascuno dei pezzetti dell’ostia, divisa dal sacerdote
racchiude l’intero corpo di Cristo.
Il mistero di queste cose è ricoperto, per l’alchimista e per il
celebrante, dall’ampio mantello della Filosofia, di cui la
pianeta non è più che un ricordo, dopo che si è sacrificato alla
comodità quello che essa comportava in insegnamento per quanto
riguarda il doppio voto del silenzio e del segreto. Questa veste
allora si chiamava planeta ed era portata indifferentemente dai
laici e dai chierici. [...]
* * *
Anche senza voler considerare le condizioni esteriori, molto più
lontane, la sola preoccupazione dell’atmosfera immediata, la
necessità del rituale benefico e purificatore, si manifestano in
tutti i migliori classici dell’antica scienza di Ermete che
allora assume realmente tutto il suo significato di arte
sacerdotale.
Ecco perché, per esempio, Henri Khunrath nell’Anfiteatro della
Sapienza eterna, 1609, davanti a un altare innalzato di fronte
al suo forno, è rappresentato in ginocchio, in una invocazione
che sembra ispirata da un quadro sospeso, dove si legge questa
sentenza:
NE LOQUARIS DE DEO ABSQUE LUMINE
Non parlare di Dio senza luce.
In obbedienza a questa disciplina, Jacques Coeur, nel suo stesso
palazzo di Bourges, non ebbe timore di porre su ciascuna delle
tre porte che si aprono sulla scalinata che conduce alla
cappella, un timpano che mostra, in altorilievo, una scena con
personaggi, relativa alla Messa accostata al rituale ermetico e
ai suoi lavori e, con ciò stesso, trasportata al piano superiore
della Grande Opera operativa.
La pala di sinistra di questo trittico che evoca l’arte
sacerdotale, ci mostra la preparazione dell’acqua pontica, che
consiste nell’unire, al mercurio comune, il fuoco segreto
designato, dalla Turba francese, come il suo compagno
desiderato; 28, Bonellus dice: «Sappiate che la nostra acqua non
è acqua volgare, ma è acqua permanente; la quale non si stanca
mai di cercare il suo compagno; e quando lo trova, lo prende
immediatamente; e lui e lei sono una cosa soltanto. Essa lo
perfeziona, e lui la perfeziona senza alcuna altra cosa ...».
Il sabato santo il sacerdote compie simbolicamente questa
operazione magistrale quando, vestito con l’amitto, l’alba, la
cintura, la stola e la cappa viola, affonda il cero nell’acqua e
dice:
«Descendat in hanc plenitudinem fontis, virtus Spiritus Sancti
(Che discenda in questo contenuto della fontana, la virtù dello
Spirito Santo).
Constatiamo ora, quanto si mostri simile alla liturgia la
preghiera che pronuncia Melchior Cibinensis chino
sull’incredibile realizzazione dell’accordo definitivo tra i due
elementi contrari:
«O fons sublimis ex quo vere scaturit vera aqua vitae, in
proedium tuorum filelium. Alleluja. (O fonte gloriosa dalla
quale sgorga realmente la vera acqua di vita, per la sicurezza
dei tuoi fedeli).
«Salve, o coeli jubar speciosum, mundi lumen radiosum; hic cum
luna copularis, fit copula martialis, Mercuriique conjunctio.
(Salve! o irradiamento magnifico del cielo, radiosa luce del
mondo, qui tu sei unito con la Luna, si fa il matrimonio di
Marte, e la congiunzione di Mercurio).
Lo stesso giorno della Vigilia di Pasqua, il sacerdote aveva
dapprima benedetto il fuoco nuovo non senza indicare chiaramente
la sua origine, invitandoci alla preghiera:
«Deus, qui per Filium tuum, angularem scilicet lapidem,
claritatis tuae ignem fidelibus contulisti: productum e silice,
nostris profunturum usibus, novum hunc ignem sanctifica ...
(Dio, che per mezzo di tuo Figlio, cioè della pietra angolare,
hai riunito il fuoco del tuo chiarore per i fedeli; santifica
questo fuoco nuovo, estratto dalla pietra, perché sia utile ai
nostri bisogni).
Sulla nostra scultura l’operatore sostiene con la mano sinistra
il libro chiuso, che è l’emblema della materia vergine e che
aperto diventerà quello della materia fecondata. Questa prima
fase è molto importante, e su questa va specialmente indirizzata
l’attenzione. [...]
L’opera filosofica non è vietata alle donne
[5]; Maria la
Profetessa nel lontano passato, Sabine Stuart de Chevalier nel
XVII secolo, ne forniscono la prova, lasciando due trattati
notevoli. Furono evidentemente due creature eccezionali, così
come non è mai un uomo comune colui che si dedica al lavoro di
Ermete e che accetta, con pazienza, gli sforzi e i sacrifici
necessari a progredirvi.
Nulla è meno certo del fatto che la ricerca della verità
appartenga solo all’uomo che spesso appare di essenza
altrettanto frivola quanto quella che passa per essere propria
della natura femminile. [...]
1. Et volavit
ad me unus de Seraphim, et in manu eius calculus, quem forcipe
tulerat de altari, et tetigit os meum, et dixit: Ecce tetigit
hoc labia tua, et auferetur iniquitas tua, et peccatum tuum
mundabitur. Isaias, c. VI, v.6-7.
2. Introitus apertus
ad occlusum Regis Palatium.
3. Scias, Frater,
quod exacta Aquilarum Philosophorum praeparatorio primus
perfectionis gradus censetur, in quo cognoscendo ingenium
requiritur habile ...
Intellige ergo, Frater, Sophorum dicta, cum scribunt, Aquilas
suas ad Leonem vorandum esse ducendas, quarum quo parcior
numerus, eo gravior lucta, tardior item victoria;
praestantissime autem opus perfici septenario numero aut noveno.
4. Apocalisse di San
Giovanni, capitolo II, v. da 26 a 28.
5. Quale errore
sarebbe se si credesse che la giovinezza, la bellezza, in una
parola la donna, fosse incompatibile nella sua stessa natura con
la saggezza e la scienza! |