Dalla “Sconfitta di Dio” al Sentiero del Ritorno Se dovessi spiegare in due righe le ragioni che mi hanno portato, da profano, a chiedere la Luce finirei per non scrivere nulla, tanto sono complesse le ragioni che mi hanno spinto ad una scelta che continuo a ritenere fondante, un percorso di crescita culturale e spirituale di cui sono orgoglioso e fiero. Ma con tutte le righe che voglio è diverso. Posso parlare per esempio della profonda insoddisfazione di una “fede” impostami dalla cultura, dallo scetticismo di una verità assoluta rivelata. Mi sono confrontato con durezza con la domanda essenziale, quella che non può essere evitata da nessun ricercatore. Chi sono? Sulla Bibbia ho letto, come molti, le promesse di Dio. Che ne è stato? Sergio Quinzio (2) non ha dubbi: non sono state mantenute. La Scrittura – a prenderla sul serio – racconta una sequela di “vicende fallimentari” non solo per gli uomini ma anche per Dio. Un Dio sconfitto, un Dio senza onnipotenza, ma di cui siamo condannati a parlare se non altro perché non è facile nemmeno non parlarne più. In queste equazioni ho vissuto, e in parte vivo, la “disgrazia del Mistero” (3), la passione del “Segreto”, il “timore e tremore di Dio”. In questo scenario la verità si inabissa nell’immanenza e si frantuma nel puro scenario della temporalità e della finitezza, privando così anche la filosofia del suo compito originario: la ricerca del fondamento primigenio e del senso ultimo delle cose. La filosofia diventa semplice “gestione” del finito, sconfinando sempre più nell’estetica, nell’etica, nell’ermeneutica, cioè verso forme particolari del sapere o semplicemente della scienza. Ma questo impoverimento del pensare non è che uno specchio di una povertà e miseria più grandi che toccano le radici e il senso stesso del destino e della vita dell’uomo nel mondo, un destino che sempre più si restringe in un incombente senso di smarrimento, di fine, di morte. Due le strade per evitare il vuoto, per sperare nella apparizione di Dio e sfuggire dal nichilismo. La ricerca o la fede. L’una esclude l’altra, perché il comprendere la fede è della fede stessa. (4) Dalle sorgenti del tempo e dello spazio, però, scaturiscono simboli, significati, archetipi come polle d’acqua nelle valli. L’umanità ne viene modellata e plasmata in tenere forme, per colmarsi delle virtù del mondo. Così l’universo si racchiude nell’infinitamente piccolo per poi espandersi nel macrocosmo. Il bianco foglio della vita si riempie degli ideogrammi della Sapienza e della Conoscenza. Credere di “sapere” è cosa comune. Ma “sapere” non è “conoscere”. I simboli parlano. Hanno vita propria, ordinata in armonie misteriose, eppure comprensibili. Esistono e legano l’uomo, o lo liberano, come compagni di un cammino collettivo dove nessuno può separarsi dall’altro se non per operare in un livello più alto. In nazioni dell’essere stratificate come le pietre delle cattedrali e le rocce montane, uomini e simboli diventano operai dell’edificio universale. Ma ne sono pure diventate materiale di costruzione. Ecco che vivere diventa arte, diventa rito, antico come il tempo, giacchè affonda le radici nella origine sacra dell’essere... «Il percorso iniziatico veste di “geometrie”, di numeri, di gesti il “lavoro” nel Tempio. E incomincia a scorrere il fiume inarrestabile della conoscenza. L’opera umana abbandona il corso breve del contingente per acquistare il senso dell’universalità; quando l’uomo, fuori dal Tempio, è divenuto sacro. Nasce qui il Sentiero del Ritorno» (5). «Il rituale d’apertura dei lavori in grado d’apprendista ha un incedere solenne, maestoso, e non potrebbe essere altrimenti: pone le basi, le fondamenta dell’opera massonica anche per i gradi successivi. Chi ben comincia è a metà dell’opera. A ripensarci, è evidente il sapore massonico di questo adagio, sia sul piano rigorosamente operativo, in cui salde fondamenta garantiscono la durata d’un edificio, sia sul piano iniziatico, in cui il cominciamento del cammino è conditio sine qua non. Anche all’osservatore più distratto non può sfuggire il valore che nel rituale d’apertura è attribuito al tre: tre le domande del testamento a cui il profano deve rispondere, tre l’età simbolica dell’apprendista, tre i colpi di maglietto e della batteria, tre le luci e i gioielli di loggia, tre volte si nomina lo zenit, acme del percorso solare; tre i principî guida dell’opera: la saggezza, la forza, la bellezza; tre volte ripetuti i divieti di parlare di politica e religione, tre volte ripetuta la concessione della parola; il delta luminoso, infine, alle spalle del Maestro Venerabile Meno evidente invece la tripartizione che organizza e ritmicamente scandisce le fasi dell’apertura. Tre volte ci si pone all’ordine: 1) dopo la copertura del tempio, per verificare che tutti siano liberi muratori; 2) al momento di consacrare il tempio, con l’apertura del libro sacro e la sovrapposizione di squadra e compasso; 3) alla vera e propria apertura dei lavori. Non a caso ci si pone all’ordine tre volte: per scandire con la massima solennità le tre fasi d’apertura dei lavori. Nella prima fase il Maestro Venerabile si accerta che l’officina abbia consapevolezza dei proprî doveri: e sono nove i doveri menzionati, multiplo di tre, come la triplice batteria. Quindi si accerta che vi siano le condizioni idonee, nel tempo e nel fine: e ne enumera tre . La seconda fase riguarda la consacrazione del tempio, e la triplice comunicazione dei divieti che comporta. L’ultima, che vede la vera e propria apertura dei lavori, ribadita dai principî che la devono guidare: saggezza, forza, bellezza. Ciò significa che il tre non è solo un importante simbolo del grado, ma un fondamentale criterio organizzativo, un sistema concettuale o filosofico o sapienziale, di cui tutto il rituale d’apertura è imbevuto; e questo criterio si applica sia ai singoli elementi, come l’età del grado e così via, sia a tutto l’insieme. In altre parole il rituale d’apertura ha struttura triadica o tripartita. È nel rituale d’apertura che si manifesta, immediatamente, un sistema organizzativo del pensiero: chi ben comincia è a metà dell’opera; o forse ancora più in là, come sostiene Aristotele. In tempi in cui le tre Luci non avevano sotto mano il rituale stampato, e forse per ragioni di sicurezza nemmeno disponevano di un manoscritto, era assolutamente necessario darsi una struttura mentale per non dimenticare l’ordine rituale dei lavori, le proprie e le altrui funzioni, e per istruire l’officina: inevitabile dunque far ricorso all’arte della memoria. Ed è parecchio stimolante notare che per Giordano Bruno, che il Grande Oriente d’Italia considera come proprio precursore, «la sede della mente e della memoria è distinta in tre parti» (6). La lettera G in correlazione con la parola di passo del Compagno Se la Massoneria, come una volta, mettesse in opera solo materiali inerti, le conoscenze teoriche del Massone potrebbero limitarsi alla geometria. Ma il tempio si costruisce con pietre viventi e la sua edificazione continua, secondo le leggi della fisiologia. Questa ci insegna come gli esseri animati si sviluppano, originati da un germe. Il Compagno, secondo Oswald Wirth (7), deve approfondire i misteri della Generazione, se desidera partecipare con profitto al lavoro della costruzione universale. Spetta a lui in particolare saper discendere i due fattori che si uniscono per la generazione di ogni essere. È, da una parte, una energia attiva concentrata che chiede di svilupparsi, al fine di costruire un organismo suscettibile di compiere la funzione che è la sua ragion d’essere. Le colonne del Tempio rappresentano il Binario eterno creatore, grazie al quale si genera, si sviluppa e si mantiene tutto ciò che deve nascere, vivere, durare e compiere il proprio destino. Poiché il Compagno è chiamato a collaborare alla Grande Opera, se vuol essere utile all’edificazione del progresso umano, deve saper intervenire con diligenza alla genesi delle cose. L’avvenire è preparato da operai perspicaci i quali, sdegnando il presente e le soddisfazioni effimere, sanno influenzare nel loro germe le future formazioni rinnovatrici. Occorre risalire alle stesse sorgenti della Generazione, per operare le trasmutazioni ambite dall’Adepto, da cui l’importanza di questo significato attribuito alla lettera G (con i tradizionali Geometria, Gnosi o God). Le colonne, maschile e femminile, falloz e kteiz, perpendicolare e livella (ovvero verticale e orizzontale), sono in relazione con l’antico culto della Generazione che fu l’universale manifestazione religiosa della primitiva umanità, poiché il mistero della vita e della trasmissione interessò gli uomini sin dal momento in cui cominciarono a riflettere. Considerarono il potere creatore come divino ed i loro primi culti furono dedicati a pietre dalla forma di fallo, erette sulle alture. I menhir ebbero un analogo senso come gli obelischi che ispirarono le colonne fuse da Hiram, la cui forma, ricostruita secondo le indicazioni della Bibbia, è caratteristica. Tutto ciò che si riferiva alla generazione fu ritenuto sacro. La lettera G vista dunque come Generazione (o anche Germinazione, intesa in senso biologico come fase iniziale di uno sviluppo di un embrione o di un organismo in genere) si può, e forse si deve, relazionare con la parola di passo del grado di Compagno. La Bibbia fa una curiosa menzione (8) della parola Scibboleth, a proposito della guerra tra gli Efraimiti ed i Galaaditi. «I Galaaditi occuparono i passi del Giordano a quei di Efraim, e quando alcuno di quei di Efraim che scampavano diceva: lascia che io passi, i Galaaditi gli dicevano: sei tu di Efraim? E s’egli diceva: No, i Galaaditi gli dicevano: Deh!, di’ scibboleth, ma egli diceva sibbolet e non accertava a proferir direttamente. Ed essi lo prendevano e lo scannavano ai passi del Giordano». In modo assai simile i siciliani, si liberarono dai francesi nei Vespri siciliani, riconoscendoli dalla loro incapacità a pronunziare: ceci. Come parola di passo, dunque, è abbastanza appropriata. Ancora di più se se ne considera il significato: spiga di grano. Tutto quanto detto sin qui va dunque riportato ai Misteri di Eleusi, dove la spiga ha un valore importantissimo. Proprio ad Eleusi si configurò una nuova dialettica sacro-profano, in cui la sacralità si faceva per la prima volta super-individuale (e nello stesso tempo super-comunitaria). Atene ed Eleusi vennero ad essere così di fatto due poli contrapposti di valori: Atene centro di cultura mondana, Eleusi centro di religiosità extramondana. In attica si realizza una nuova idea del sacro, assoluto e mistico, rispetto ad un profano in cui finiscono per precipitare anche i culti civici (quelli che sostengono la città o l’esistenza mondana); a Delfi invece la dialettica è tutta contenuta nell’antica sfera del sacro, così che l’oracolo diviene persino strumento della formazione di una coscienza civica, e ad ogni modo è assunto come guida e faro per l’appagamento di ogni esigenza mondana, dalla più banale concernente un singolo soggetto alla più significativa. A Delfi, il rapporto diretto con l’alterità, l’immersione nell’alterità è sottratto all’esperienza dei singoli soggetti, per restare limitato, compresso e ritualizzato nell’azione della pizia; la stessa azione della pizia giunge con i suoi effetti al consultore, attraverso la mediazione, l’interpretazione e il vaglio occulto di un sacerdote specializzato. Ad Eleusi gli iniziati hanno conosciuto il fine e il principio della vita, comunicano direttamente col sacro (9). Le testimonianza letteraria più antica è costituita dall’Inno omerico a Demetra, e gli elementi ricavati da altri testi tardi permettono di ricostruire almeno formalmente numerosi aspetti del rituale eleusino. Dal 21 al 23 antesterione (febbraio-marzo) si celebravano ad Agrai, i cosiddetti «piccoli misteri», primo grado della vicenda iniziatica. Chi aveva partecipato ai piccoli misteri di Agrai e una prima volta ai grandi misteri di Eleusi, poteva essere ammesso all’epoptèia, il grado massimo dell’iniziazione eleusina. Il 13 del mese di boedromione (settembre-ottobre) gli efebi ateniesi conducevano in processione da Eleusi ad Atene gli oggetti sacri del culto; il 15 si raccoglievano i candidati all’iniziazione e lo ierofante bandiva gli indegni. Il 16 i candidati si purificavano in mare con un porcellino, vittima rituale sacra a Demetra. Il 19 i sacri oggetti erano ricondotti a Eleusi e di sera gli iniziandi giungevano al santuario; all’alba del 20 cominciavano i riti che preludevano all’esperienza più sacra. Un sacrificio solenne, mattutino, segnava il principio delle cerimonie rivelatrici (teletè), che comprendevano tre elementi: ciò che si faceva (tà dròmena), ciò che si diceva (tà legòmena) e ciò che si mostrava in silenzio (tà deiknymena). Seguiva una rappresentazione del mito agricolo di Demetra, Dea dei campi e delle messi e della figlia Core. In questo momento più sacro avvenivano delle danze con fiaccole, lo ierofante levava infine in silenzio davanti agli iniziandi una spiga di grano. Le danze con le fiaccole, attestate solo da fonti archeologiche, trovano spiegazione nella versione italica del mito che vede Demetra-Cerere vivere in Sicilia nella zona di Enna, e che inizia a vagare come una pazza per tutta l'isola, trascurando di occuparsi dei raccolti. La terra abbandonata inaridisce e la situazione peggiora quando Cerere, nel tentativo di farsi luce per cercare la figlia anche di notte, accende le torce ai fuochi che scaturiscono dalla sommità dell'Etna. Con queste fiaccole esplora la terra ma causa anche incendi e devastazione. Sempre per citare le fonti, della spiga mostrata nell’ultimo grado dei misteri eleusini ci parla pure S. Ippolito, che sottolinea anche l’importanza del silenzio nel dramma mistico. Un viaggio avete per tema la spiga e le sue fonti de lo propone anche Arturo Reghini: «Il Foucart, seguendo la tesi del Goblet d’Alviela, indigando il significato di questa spiga di grano, propende a vedere una infiltrazione egiziana dell’assimilazione di Osiride col chicco di grano. Ora, il chicco di grano era il simbolo della resurrezione del Dio. Noi sappiamo d’altra parte in modo indubbio per un frammento di Plutarco, conservatoci da Stobbeo, che l’oggetto dei grandi misteri di Eleusi era l’iniziazione e che essa veniva paragonata e raffigurata dalla morte. Il chicco di grano è il simbolo della risurrezione, e secondo Ippolito la spiga di grano era il più perfetto mistero dell’Epopzia. Rappresentava dunque la messe finalmente raccolta, la ricompensa del lavoro esoterico, la iniziazione finalmente raggiunta nel silenzio mistico, ossia nel raccoglimento interiore. S. Clemente Alessandrino dice che “sotto i veli dei continuati processi della vegetazione del frumento erano adombrate le varie condizioni della mente sino alla sua maturità, ed il frumento nettato col vaglio raffigurava la purificazione dell’anima”. Tra le chiome di Iside trovavansi spighe e papaveri che crescon così abbondanti nei campi di frumento. Il sacro vaglio che separava le spighe dai papaveri sacri a Morfeo è dunque il simbolo della Catarsi, della purificazione, che ha per risultato di compiere quella stessa separazione che si cimpie nell’Ade per virtù delle due fonti del Lete e di Mnemosine, la separazione dei pochi, risorti a vita immortale che stanno nei lieti campi, dai molti che bevono il lungo oblio all’onda del fiume Lete. È Jules Boucher (10) a ricordarci che G è un segno che si riferisce a un principio o a una potenza di coagulazione, di condensazione, di compressione. «Ghimel è specificatamente il simbolo della coagulazione. A causa delle antiche concezioni sulla formazione dell’embrione nel seno materno – risultato della coagulazione del seme paterno – a Ghimel fu attribuito il simbolismo della Generazione in tutti i mondi e, accessoriamente, quello dell’organizzazione di ciò che è stato generato, particolarmente nel mondo divino dove il Generato e il Generatore non sono che Uno, nella loro unità di natura». 1. Johann Wolfgang von Goethe, «I segreti e la Massoneria», Semar, Roma 1999. 2. Sergio Quinzio, «La sconfitta di Dio», Adelphi, Milano 1992. 3. Mauro Cascio, «La disgrazia del Mistero», in Luz -Trimestrale di Studi Tradizionali n.1, Har Tzion, Latina 1999. 4. Massimo Iiritano, «Disperazione e fede in Soren Kierkegaard. Una lotta di confine», Rubettino, Catanzaro 1999. 5. Oswald Wirth, «I Misteri dell’Arte Reale», Atanòr, Roma 2002. 6. Maurizio Nicosia, «Il Rituale Come Prassi Filosofica e Arte Di Memoria», Zenit.it, rivista di cultura massonica. 7. Oswald Wirth, «La Massoneria resa comprensibile ai suoi adepti. Il Compagno», Atanòr, Roma 1992. 8. Arturo Reghini, «Le parole sacre e di passo dei primi tre gradi e il massimo mistero massonico», Atanòr, Roma 2002. 9. Dario Sabbatucci, «Saggio sul misticismo greco», Edizioni dell’Ateneo, Roma 1991. 10. Jules Boucher, «Simbologia Massonica», Atanòr, Roma 1992 |